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Le contraddizioni politiche della Formula 1
28 mar 2022
28 mar 2022
Il Gran Premio Aramco si è svolto regolarmente, sollevando però diversi problemi.
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Alla vigilia del primo Gran Premio stagionale in Bahrain, tutti i venti piloti di Formula 1 hanno posato per una foto intorno a uno striscione bianco su cui campeggiava la scritta: «No war». Adagiata sull’asfalto c’era anche una bandiera ucraina.

È un’immagine forte, e non solo per l’emotività del momento. La guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina è riuscita a riunire i piloti intorno a una causa comune, un fatto per niente scontato, dati i precedenti. Il 25 maggio 2020, quando George Floyd è stato ucciso da un agente di polizia, in tutto il mondo sono montate le proteste. A luglio, quando la Formula 1 ha ripreso le attività dopo la sosta per la prima ondata pandemica, i piloti hanno parlato dell’opportunità di prendere iniziativa e di schierarsi in favore del movimento Black Lives Matter. Pochi minuti prima della partenza del Gran Premio d’Austria, quattordici piloti si sono inginocchiati sulla linea di arrivo. I campioni del mondo Lewis Hamilton e Sebastian Vettel erano al centro del gruppo, davanti agli altri. In sei, però, sono rimasti in piedi.

Charles Leclerc era tra i piloti non inginocchiati. Nelle dichiarazioni dopo la gara ha spiegato che nel mondo si sono susseguite manifestazioni anche violente in forza della causa BLM, e che lui non vuole essere associato alla violenza, e nemmeno alla politica, che a suo parere sta permeando la lotta al razzismo. Max Verstappen e Kevin Magnussen si sono allineati a Leclerc. Daniel Ricciardo, invece, ha lasciato intendere che la politica non c’entra niente con il rifiuto dei piloti di aderire al kneeling. Su tutta la questione si spande l’odore dei soldi, onnipresente in Formula 1: la protesta rischiava di essere invisa a qualcuno degli sponsor personali dei piloti, che nel timore di perdere una fonte di reddito hanno preferito non schierarsi.

La foto pro-Ucraina scattata in Bahrain sembra però chiudere ogni questione. I piloti sono coesi, come recita lo slogan che la GPDA, il sindacato dei piloti, ha scelto: «Racing united». Corriamo uniti. Sette giorni dopo la Formula 1 arriva a Jeddah, in Arabia Saudita. Dalle 15:00 ora italiana del venerdì si corrono le prime prove libere. Gli occhi sono tutti puntati su Max Verstappen, il campione del mondo saprà reagire alla debacle del GP del Bahrain? A un certo punto Verstappen apre la radio e chiede al suo ingegnere: «Sento odore di bruciato, viene dalla mia macchina o da quella di un altro?»

A bruciare è l’impianto petrolifero della Aramco, a una quindicina di chilometri dal circuito. I ribelli yemeniti Houthi annunciano di aver portato un attacco missilistico alla raffineria. Gli Houthi sono attivi fin dagli anni Novanta e combattono per togliere il potere al governo riconosciuto internazionalmente che, secondo le loro rivendicazioni, avrebbe marginalizzato e impoverito lo Yemen. Le numerose azioni degli ultimi anni nei territori di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti sono dovute al tentativo degli Houthi di dissuadere gli statisti dei paesi vicini dall’offrire appoggio economico e militare al governo che combattono. Il quadro politico yemenita è da leggersi all’interno della faida in corso nel mondo islamico: gli Houti ricevono l’appoggio dell’Iran sciita, mentre il governo dello Yemen è sostenuto dalla maggioranza sunnita presente nella penisola arabica.

Aramco è la compagnia petrolifera di stato, direttamente controllata dalla famiglia reale saudita. È anche uno degli sponsor principali della Formula 1, nonché title sponsor della scuderia Aston Martin. Allo sponsor petroliere è anche intitolato il Gran Premio dell’Arabia Saudita. Se Aramco è il bersaglio di un attacco missilistico, è naturale pensare che anche la Formula 1, per i molteplici legami che intercorrono tra l’azienda e il circus, possa diventare un obiettivo. Le prove libere si svolgono mentre un’alta colonna di fumo nero si staglia all’orizzonte. Nella serata di venerdì si susseguono le riunioni che coinvolgono piloti, team principal, il management della Formula 1 e gli organizzatori del Gran Premio. Formula 1 rimette la decisione ai team principal e ai piloti, lasciando loro libertà individuale. E i piloti, ancora una volta, non riescono a far fronte comune: solo in cinque sono disposti a far saltare il banco, e tra loro c’è ancora Hamilton (Vettel è in convalescenza, in Svizzera, per il Covid). Alle tre del mattino di sabato, la Formula 1 decide di andare avanti come se niente fosse accaduto.

Qualcosa però è accaduto. Gli organizzatori sauditi in un primo momento annullano tutti gli incontri previsti con la stampa, tornano sui propri passi di fronte al nervosismo dei piloti, ma a loro è fortemente sconsigliato parlare dell’attacco terroristico o di politica in generale con i giornalisti. A un certo punto della notte tra venerdì e sabato, la BBC ha lasciato intendere che i piloti avessero subito pressioni e minacce: se avessero deciso di non correre, avrebbero avuto difficoltà a lasciare il paese. Successivamente il messaggio è stato ammorbidito: l’operatività dell’aeroporto, che è rimasto chiuso per alcune ore, era limitata e non sarebbe stato possibile evacuare il personale delle scuderie in tempi brevi. Qualcuno tra i piloti probabilmente avrà pensato che, se erano forzati a restare in Arabia Saudita fino a martedì o mercoledì, a quel punto tanto valeva correre.

Oltre ai piloti, il cui fronte si è spaccato in soli sette giorni per l’incapacità di associare un messaggio universale come «No alla guerra» a una situazione diversa da quella dell'Ucraina, è stata la Formula 1 ad aggiungere un’altra macchia a un vestito che già non era per niente immacolato. Lasciando mano libera alle scuderie, i manager della F1 sono venuti meno al loro dovere di rappresentanza e, sostanzialmente, hanno scaricato ogni responsabilità nei confronti degli organizzatori, dai quali avevano già incassato la borsa da 90 milioni di dollari. Il CEO di Formula 1 Stefano Domenicali, intervistato da Skysports UK, ha detto che nessuno può giudicare la moralità della Formula 1 e ha ridotto tutto a una mera questione terminologica: «Un attacco terroristico può essere definito una guerra?»

Prima ancora dell’attacco dei ribelli Houthi di venerdì, nessuno in Formula 1 ha messo in dubbio l’opportunità di andare a correre in Arabia Saudita, dove vige un regime repressivo di ogni forma di dissenso. Un governo già accusato di aver ucciso brutalmente il giornalista Jamal Khashoggi tra le mura del proprio consolato a Istanbul e che quattordici giorni prima dell’arrivo della Formula 1 nel paese ha eseguito ottantuno condanne a morte in un solo giorno.

Oltre all’Arabia Saudita, nessuno, all’interno della FIA, ha mai ritenuto inopportuno correre in paesi in cui esistono minoranze oppresse per la propria etnia o persone discriminate in base alla religione o all’orientamento sessuale, come avviene in Azerbaijan, Bahrain, Cina, Malesia, Messico, Russia, Turchia e Ungheria. Tutti paesi che ospitano, o hanno ospitato, un Gran Premio di Formula 1.

La Formula 1 si è sempre prestata volentieri alla pratica del sportswashing, ovvero al tentativo di alcune nazioni di ripulire la propria reputazione internazionale attraverso l’organizzazione di grandi eventi sportivi. Il management della F1 non ha mai nascosto le proprie intenzioni, se non dietro dei debolissimi tentativi di facciata. Nel 2020, la Formula 1 ha lanciato «We race as one», una serie di iniziative per promuovere l’inclusività nella società, attraverso la lotta al razzismo e alle disuguaglianze. Nel comunicato si legge: «We race as one non sarà il tema di una settimana o di un anno, ma sarà il puntello della strategia della Formula 1». Nel 2021 il progetto è stato ricalibrato, inserendo nello statuto un accento maggiore ai temi dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. Per questo motivo, Formula 1 ha ritenuto di poter eliminare l’arcobaleno, il simbolo internazionale dell’inclusività, da ogni materiale informativo legato all’iniziativa. Nel 2022, Domenicali ha dichiarato che ogni iniziativa legata a «We race as one» è stata sospesa: «Non abbiamo bisogno di gesti, ma di azioni».

Tra le azioni intraprese da Formula 1 quest’anno c’è l’esplicito divieto fatto ai piloti di aprire la propria tuta, che dev’essere allacciata fino all’ultimo bottone. In questo modo i piloti non avrebbero la possibilità di mostrare magliette con messaggi di contenuto politico, com’è avvenuto lo scorso anno. Hamilton, dal podio del Gran Premio di Toscana, aveva chiesto la riapertura del processo per l’omicidio di Breonna Taylor, la ventiseienne afro-americana uccisa dalla polizia durante una perquisizione. Vettel, prima della partenza del Gran Premio di Ungheria, ha indossato una maglietta e una mascherina arcobaleno, in sostegno dei diritti LGBTQ+. Entrambi sono stati convocati dal management della Formula 1, solo per Vettel c’è stata una reprimenda ufficiale. Hamilton e Vettel sono i piloti più maturi del circus, hanno vinto diversi titoli mondiali, per questo hanno meno da temere per azioni nei loro confronti, soprattutto da parte degli sponsor. In Formula 1, a muovere il sole e le altre stelle, sono sempre e solo i soldi.

Al di là dello sportswashing, organizzare un Gran Premio di Formula 1 è un enorme affare. Un decennio di corse può arrivare a costare, al paese ospitante fino a 1 miliardo di dollari. Il ritorno economico della visibilità mondiale che regala la classe regina è però molto potente, per l’immagine del paese, certo, ma anche in termini di biglietti venduti nel weekend di gara; per il numero di posti di lavoro creati sul territorio in attività direttamente collegate al Gran Premio; per l’incremento delle visite turistiche, non solo nelle zone limitrofe del circuito e nelle date in cui si corre il Gran Premio.

C’è un altro aspetto, estremamente sottovalutato nell’organizzazione di un corsa automobilistica, ed è il business delle VIP Hospitalities. «Paddock Club» è la branca della Formula 1 che si occupa dell’ospitalità dei clienti istituzionali presso i circuiti. Aziende che vendono servizi informatici, produttori di soft drinks o banche d’affari danno alle scuderie milioni di dollari in sponsorizzazioni, in cambio ricevono accessi all’area che sta immediatamente sopra alla zona dei box. Da un punto di vista privilegiato, gli ospiti del Paddock Club, amministratori delegati o venture capitalists, possono guardare la gara sorseggiando un costosissimo champagne, ma allo stesso tempo possono trattare affari o siglare contratti. La natura itinerante del circus fa sì che la Formula 1 abbia accesso a paesi e relativi mercati che sarebbero altrimenti difficili da raggiungere. Basta pensare a quanto impermeabile era la Cina solo qualche anno fa, o quanto lo sia l’attuale Arabia Saudita. Della natura degli affari conclusi per milioni di dollari ogni fine settimana nelle hospitalities, mentre tutti sono distratti dalle macchine che girano in pista, si sa poco. Quel che è certo è che tutti vogliono essere a un Gran Premio quando la Formula 1 arriva nel proprio paese.

Formula 1 è perfettamente cosciente della propria attrattività, per questo è in costante ricerca di nuovi mercati sui quali espandersi. La scorsa settimana Domenicali ha dichiarato che presto avremo un nuovo GP americano – ad Austin e Miami si aggiungerà Las Vegas – e per la prima volta si tenterà di disputare una corsa sul continente africano. Altri paesi chiedono di ospitare la Formula 1, potremmo avere in futuro un calendario con trenta GP. Trenta weekend di gara in cinquantadue settimane sarebbe un impegno massacrante per i lavoratori della Formula 1, che già stanno patendo le attuali condizioni di lavoro.

Nel 2022 si correranno ventitré Gran Premi. In due occasioni ci sarà un triple-header, ovvero tre GP in weekend consecutivi. La routine di una corsa prevede che il materiale arrivi in pista al mercoledì, da quel momento ogni scuderia ha quarantotto ore per spacchettare la componentistica, assemblare le auto, installare i computer al muretto box. Al venerdì, al sabato e alla domenica c’è la competizione vera e propria. Subito dopo la conclusione del GP, il materiale va smontato e preparato per la spedizione. Come hanno sottolineato i team principal di Mercedes e di McLaren, ma anche Vettel, in occasione dei triple-header i lavoratori della Formula 1 sono esposti a uno stress psico-fisico non da poco. Stress al quale sono esposti anche i piloti, che rischiano la vita sulle auto da corsa. Per non parlare poi della lontananza dagli affetti che, in una stagione così folta e lunga, tutti patiscono allo stesso modo.

Ma gli affari sono affari, se Formula 1 lo riterrà opportuno, metterà più gare in calendario in barba alle perplessità di chi compete. Alla fine, nonostante un attacco terroristico e le riunioni-fiume che ne sono scaturite, il Gran Premio Aramco si è svolto regolarmente. Mick Schumacher durante le qualifiche ufficiali ha impattato duramente contro il muro. Il disegno di questo tracciato – un percorso cittadino con un’altissima velocità media – aveva suscitato preoccupazioni già lo scorso anno, e ora si chiede alla Formula 1 di valutare l’opportunità di correre in Arabia Saudita, se non per ragioni etiche, quanto meno per la sicurezza dei piloti.

In gara, Verstappen ha agguantato una vittoria non scontata, ma prevedibile, per le caratteristiche del tracciato, ottime per la sua macchina più che alla Ferrari, e per quello che si era visto al venerdì nelle simulazioni del passo gara. Una vittoria che Leclerc ha provato a contestare con ogni arma. Resterà negli occhi il surplace ciclistico alla penultima curva con il quale l’uno cercava di sottrarre il vantaggio del DRS all’altro. L’era di Verstappen e di Leclerc, due piloti di enorme talento, attesi dagli addetti ai lavori fin da quando erano poco più che bambini, è iniziata.

È domenica sera e le ansie del venerdì sembrano lontanissime. La Formula 1 smonta le tende e parte per l’Australia, dove il circo riprenderà tra quindici giorni come se nulla fosse.

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