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Moris Gasparri
Il grande conflitto politico dietro il caso Rubiales
28 ago 2023
28 ago 2023
Cosa ci dice sul rapporto tra calcio maschile e femminile la vicenda che riguarda il presidente della federazione spagnola.
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Moris Gasparri
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IMAGO / Sports Press Photo
(foto) IMAGO / Sports Press Photo
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Una delle più grandi e originali voci femminili della cultura novecentesca, Maria Zambrano, filosofa spagnola vissuta in esilio per larga parte della sua vita, ci ha consegnato in dono i pensieri più belli sulla particolare natura dell’istante, quella dimensione temporale in cui il divino appare regalando attimi di felicità festosa agli uomini, per poi subitamente dileguare una volta giunta al suo culmine, secondo la sua visione nella religiosità degli antichi greci. Se ci pensiamo questa è anche l’essenza delle grandi vittorie sportive, la concessione divina a pochi eletti di istanti magici, e proprio perché il divino non può dimorare per troppo tempo in mezzo ai mortali ogni vittoria dura poco, è effimera e incatturabile, al contrario del ricordo bruciante della sconfitta che vive molto più a lungo.

Nella sua versione secolarizzata e poco consapevole della sua origine greca, è questa anche l’esperienza primaria dello sport contemporaneo. Ma cosa accade agli uomini nell’istante magico della vittoria? È da questa domanda che bisogna partire per scavare in profondità sui fatti accaduti domenica scorsa nell’epilogo della finale del Mondiale femminile tra Spagna e Inghilterra, con l’improvviso bacio in bocca dato dal presidente della federazione spagnola Luis Rubiales a Jenni Hermoso, che ha scatenato un terremoto politico in Spagna ma di cui si sta parlando molto anche fuori.

Secondo gli antichi greci il peccato più grande dei mortali era quello di superbia, la famigerata hybris, il credersi sovra-potenti rispetto alla propria natura, nel caso di specie dello sport di non riconoscere nella vittoria il segno della benevolenza divina, ma solo meriti propri, sentirsene pienamente e unicamente padroni e artefici. Luis Rubiales è un perfetto caso di tracotanza da vittoria. C’è un sentimento di delirante esaltazione “padronale” prima dietro al suo gesto di prendersi i testicoli in mano per irridere la squadra sconfitta, in spregio a ogni legge scritta e non scritta che richiede a chi ricopre cariche istituzionali di esercitare il proprio ruolo con “disciplina e onore” e di mantenere il controllo emotivo anche nei momenti più concitati. E poi dietro alla sopravvalutazione della complicità creatasi con le calciatrici nel cameratismo dell’esperienza condivisa nelle settimane passate con la squadra in Australia e Nuova Zelanda, che lo ha visto prorompere in effusioni sguaiate, culminate con il bacio in bocca in mondovisione a Hermoso. Una superbia orgogliosa proseguita nei giorni successivi - con scuse tardive e insincere per il gesto compiuto, visto che aveva chiesto di non «prestare attenzione agli idioti e agli stupidi» che lo stavano criticando - fino ad arrivare alle tonalità shakespeariane della conferenza stampa dello scorso venerdì, da re pericolante e accecato dall’ira pronto a ribaltare tutte le accuse pur di non perdere il proprio potere nel già iniziato conflitto giudiziario contro la calciatrice spagnola, assurdamente passata da vittima a colpevole, e di quelli in vista contro FIFA e istituzioni sportive spagnole.

Dietro alla vicenda c’è però un fondo di inquietudine più spesso, non solo una fallimentare gestione dell’istante della vittoria. Non si può isolare astrattamente il bacio e discutere solo di quello vivisezionandone la dinamica, bisogna calarlo in un contesto di più ampio respiro. Per farlo si consiglia innanzitutto la visione del documentario Romper el silencio, disponibile su Youtube, che racconta le lotte della Nazionale femminile spagnola avviate nel 2016, che portarono alla cacciata dello storico commissario tecnico della selezione femminile Ignacio Quereda, colpevole di ripetuti gesti di paternalismo dispotico e violento nei confronti delle giocatrici. L’ammutinamento degli scorsi mesi e ora la protesta in supporto di Jenni Hermoso non nascono dal nulla, insomma, ma raccolgono un’eredità, e non a caso la lettera ufficiale contro Rubiales è stata firmata da 58 giocatrici, tra cui molte protagoniste della prima guardia. C’è da tempo un problema interno alla federazione spagnola di empatia e sintonia con il mondo femminile, per usare un eufemismo, che si potrebbe cristallizzare negli applausi ricevuti da Rubiales al termine del suo delirante discorso.

La tormentata vicenda spagnola non è purtroppo un caso isolato. Volgendo lo sguardo alle vicende recenti del Mondiale e a quelle degli ultimi mesi, troviamo conflitti tra calciatrici e le rispettive federazioni disseminati un po' ovunque, dalle proteste della Nazionale canadese per le disparità di trattamento (non solo nella retribuzione) ricevute rispetto alla nazionale maschile nonostante lo storico successo olimpico a Tokyo, alla vicenda del coach dello Zambia accusato di molestie sessuali su alcune giocatrici, passando per la Francia che aveva anche lei vissuto negli scorsi mesi l’ammutinamento di tre protagoniste, con aspetti paradossali, perché al centro delle accuse di aver creato un ambiente psicologicamente malsano per le calciatrici era finita una donna, l’ex commissario tecnico Corinne Diacre. Quest'ultima era stata da sempre appoggiata e difesa da un presidente federale, Noel Le Graet, che era stato costretto lo scorso febbraio alle dimissioni anche sulla base di critiche per molestie contro dipendenti donne della federazione. E ancora l’inchiesta interna al campionato professionistico americano, che pochi mesi fa ha portato alla luce un quadro agghiacciante e allarmante fatto di aggressioni psicologiche, verbali e sessuali nei confronti delle atlete da parte di numerosi allenatori e dirigenti (anche in questo caso non solo uomini).

Insomma, le agitazioni interne al calcio femminile ci raccontano di un rapporto ancora difficile e tormentato tra i due sessi, perché riflette un più generale disparità di potere, che porta gli uomini a prendere le decisioni e le donne a subirle. Istituzioni e organizzazioni come quelle calcistiche sono popolate da oltre un secolo in maggioranza quasi esclusiva da maschi, per uno sport fino a non troppi anni fa quasi ovunque giocato, arbitrato, allenato, gestito e raccontato in maggioranza quasi esclusiva da maschi, guardato in maggioranza da maschi, in cui, come ci ricordano i pensieri fondamentali di un grande studioso di sport come Andy Markovits, larga parte della popolazione maschile vede anche inconsciamente un rifugio simbolico rispetto alle profonde trasformazioni di genere intercorse negli altri ambiti della società: aspetto importante, questo, che spiega la differenza di traiettorie del calcio rispetto ad ambiti professionali come per esempio la magistratura, in cui l’apertura al genere femminile ha avuto nel tempo meno contrasti. Insomma, alcuni uomini all'interno delle istituzioni sportive hanno evidenti problemi a trattare il calcio femminile e le calciatrici come qualcosa di serio, importante, ma anche diverso.

Questo è un punto che spesso sfugge alle analisi, quando si parla di disparità di potere tra calcio maschile e femminile. In questi anni si è puntato tanto, e giustamente, sull’uguaglianza tra calcio maschile e femminile come modo di legittimazione della seconda disciplina rispetto alla prima, da cui il profluvio di slogan “one football”, “es lo mismo”, o anche spot come quello francese divenuto virale alla vigilia dei Mondiali.

Il corollario pratico di questa visione, decisivo per l’affermazione di questo sport, è stato l’inserimento delle sezioni femminili nei club professionistici maschili. Poco ci si è soffermati sul fatto che il calcio femminile è anche uno sport diverso, non solo per la minore velocità e forza delle atlete, ma per tanti altri aspetti rilevanti. Pensiamo alle critiche rivolte dalle calciatrici spagnole contro i metodi rigidi e il controllo ossessivo di Vilda, caratteristiche che nel calcio maschile sono da sempre valse a numerosi allenatori elogi e celebrazioni, che segnalano una diversa e più profonda sensibilità che magari un giorno porterà a un cambiamento di certe pratiche anche nello stesso calcio maschile. Ma pensiamo alla radicale differenza di cultura ambientale riguardo alla libertà delle scelte sessuali, che nel calcio maschile ancora costringe quasi tutti ad avere paura di esporsi (con pochissime eccezioni).

Pensiamo al lavoro seminale e straordinario svolto dalla giornalista e studiosa americana Christine Yu nel suo libro Up to speed, su cui avremo modo di tornare, nel denunciare in maniera articolatissima la carenza di studi scientifici sulla fisiologia e la psicologia delle atlete, e di come a causa di questo la visione ultrasemplificata e falsa di “uomini con l’aggiunta di mestruazioni” sia ancora quella prevalente nel mondo degli addetti ai lavori sportivi, senza comprendere e discutere aspetti fondamentali come l’impatto del ciclo mestruale, la salute dei muscoli pelvici, i problemi di nutrizione, e molto altro ancora. Solo per fare un esempio, sarebbe interessante capire cosa accadrebbe a un dirigente o tecnico uomo se solo provasse a conoscere (nel libro in questione è spiegata) la difficilissima e complicatissima storia della fabbricazione dei reggiseni sportivi e la loro assoluta centralità per la performance e il benessere psicofisico delle calciatrici.

Insomma, la strada da fare nel calcio tutto è ancora lunghissima e da questo punto di vista il successo di pubblico del calcio femminile non deve ingannare. Per quanto sempre più donne si stiano facendo largo nel mondo delle professioni calcistiche, nel calcio, compreso quello femminile, persiste ancora una sottorappresentazione di genere evidente rispetto ad altri ambienti professionali, che non si colmerà nel giro di poco tempo. In questo intervallo temporale, se questa diversità non viene accolta e valorizzata dagli uomini, o al contrario viene negata, allora si possono creare conflitti.

Facciamo per un attimo una deviazione laterale. Durante i Mondiali femminili è scomparso uno dei più grandi pensatori politici dell’Italia repubblicana, Mario Tronti, personaggio lontanissimo dallo spirito dell’agonismo sportivo, che nei suoi scritti e nella sua militanza pratica ha sempre seguito una stella polare: politica è conflitto, parti in lotta, grandi mediazioni possibili solo dal riconoscimento del conflitto, e come suo esito. Sempre durante i Mondiali è scomparsa Michela Murgia, il grande e combattivo simbolo italiano del femminismo contemporaneo, personaggio capace di ispirare le nuove generazioni femminili, comprese quelle calcistiche, al punto che nelle immagini della recente trasferta europea della Juventus a Barcellona per disputare il trofeo Gamper si è potuto scorgere il suo libro God save the queer comparire in mano a delle calciatrici bianconere in attesa al gate.

Anche questa attenzione alla natura politica del conflitto di genere, insomma, rende il calcio femminile diverso. Il calcio maschile non è mai stato politico, nel senso del conflitto. Si è subito strutturato e organizzato come ordinamento istituzionale autonomo, secondo la teoria degli ordinamenti giuridici di cui scrisse a inizio Novecento un grande giurista come Santi Romano, ed è poi sempre vissuto in un altrove simbolico e fisico-geografico, con la neutrale e tranquilla Svizzera non a caso patria delle due più grandi organizzazioni calcistiche mondiali, mediando costantemente con i poteri statali, ma conservando un’alterità neutrale figlia della trasversalità dei suoi spettacoli e della loro capacità di sospendere il flusso ordinario del tempo, regalando evasione a grandi masse popolari. Il calcio maschile è divenuto universale e globale perché non è mai stato al centro, se non in forme marginali o episodiche, di aspri conflitti sociali, nessuna parte lo ha usato per rivendicare qualcosa in lotta contro altre parti, sennò non ci sarebbe stata questa universalità, ma avremmo avuto tante membra sparse e non comunicanti fra di loro.

Il calcio femminile è invece inscindibile dalla lotta politica e dal movimentismo politico, la sua ascesa planetaria è una creatura storica del femminismo americano, nella forma emancipazionista del Title IX prima, che aprì il sistema scolastico alle pari opportunità e di conseguenza diede impulso allo sviluppo degli sport femminili, e in quella rivendicativa dell’era Me Too ora, basata sulla denuncia della tossicità patriarcale e dei soprusi maschili nei confronti delle donne negli ambienti di lavoro. Linguaggi e idee che stanno alla base tanto della lotta delle calciatrici americane, quanto di quelle canadesi, spagnole, in un elenco destinato ad allungarsi. Quando parliamo di femminismo non parliamo di un monolite, è un termine che fa segno a una pluralità di voci e posizioni tra loro anche in contrasto, ma che su un piano più generale fanno riferimento a uno dei pochi grandi progetti politici e ideologici oggi esistenti nelle società occidentali, che possiede un fortissimo potere di mobilitazione sociale, collettiva e comunicativa, come stiamo vedendo nella catena di solidarietà attivatasi in supporto di Hermoso.

Senza la Nazionale americana, che di queste due fasi del femminismo nella sua storia è stata una delle espressioni più visibili e forti sul piano simbolico, aiutata anche dal “potere della vittoria”, non si sarebbe acceso nessun riflettore su questo sport. La Germania, nazione che dell’assenza di conflitti sociali interni ha fatto un’ideologia pubblica chiamata ordoliberalismo, poi estesa alle istituzioni europee, ha avuto le calciatrici più forti del mondo per l’intero primo decennio del nuovo millennio, vincendo ben due Coppe del Mondo consecutive, ma questa forza sul campo non ha lasciato nessuna traccia globale, non solo perché l’interesse mediatico era al tempo minore, ma anche perché le calciatrici non erano minimamente collegate a rivendicazioni femministe. Da questo punto di vista potremmo dire che il calcio femminile rappresenta l’irruzione del conflitto politico nel mondo a-conflittuale del calcio, e con un ruolo di avanguardia attiva.

In un passaggio di testimone che riguarda tanto la vittoria sul campo quanto la dimensione esterna, Rapinoe e compagne, con la loro citazione in giudizio dei vertici federali, hanno aperto una via di cui le calciatrici spagnole reclamano oggi piena eredità, alzando ancora di più la posta in palio, minacciando lo sciopero a oltranza dalle convocazioni, catturando un sentimento di protesta dal basso e un ampio supporto popolare. In Spagna la vicepresidente del governo Sanchez, Yolanda Diaz, ha dichiarato esplicitamente che la vittoria del Mondiale è stata una dimostrazione di femminismo. Le calciatrici della nazionale inglese nella lettera scritta in supporto alle colleghe spagnole hanno esplicitamente evocato la parola simbolo delle lotte e delle teorizzazioni femministe, patriarcato.

Certo, il conflitto non è indolore. Il contrappasso del portare il conflitto politico dentro il calcio è quello di sollevare anche reazioni nemiche per motivi non sportivi. Solo una visione ingenua può ad esempio rappresentare il calcio femminile come uno sport americano in un senso pacificato e universale: al contrario, è lo sport delle coste, soprattutto quella californiana, del mondo liberal, delle famiglie bianche beneducate e benestanti che possono permettersi gli altissimi costi delle scuole calcio di élite, che ha come propria capitale elettiva Portland, città hipster per eccellenza, che ospita il club femminile più vincente.

In Spagna non tutto il Paese si schiererà con Hermoso e le calciatrici. Luis Rubiales, nonostante i legami familiari con il Partito Socialista, diventerà un’icona dei militanti di Vox, perché nel conflitto evocato rientra anche l’adesione più o meno silenziosa di tanti uomini (e donne) a posizioni contrarie a quelle femministe, in un mondo globale dove rilevanti aree del globo non partecipano per ragioni storico-culturali del suo movimentismo e delle sue rivendicazioni.

Il conflitto è però motore di cambiamento. La reazione che è nata nei confronti dei comportamenti di Luis Rubiales porterà benefici e forza al movimento nel medio e lungo periodo ed è interessante chiedersi quali. Ci sono due scenari in cui leggere il futuro di questo sport dalla prospettiva che stiamo analizzando. Uno inclusivo e paritario, che potremmo ribattezzare “via inglese”: donne di prestigio e autorevoli, con alle spalle un lungo percorso professionale nello sport, inserite nei posti di comando federali, a partire da Kelly Simmons e Sue Campbell, per trasformare la federazione in senso inclusivo e valorizzare a pieno il calcio femminile. Il simbolo di questa trasformazione non sono tanto le vittorie, quanto la priorità nell’utilizzo del campo di allenamento principale di St George’s Park, la “Coverciano” inglese, accordata alle ragazze di Sarina Wiegman la scorsa estate nei giorni di preparazione per l’Europeo, in concomitanza con la presenza nel centro sportivo della Nazionale maschile che stava invece preparando la Nations League. Poi c'è un'altra via, che forse potremmo definire “paternalismo illuminato”. È quella del presidente della FIFA, Gianni Infantino, molto scaltro nella sua recente trasformazione da militante “femminista”. Il discorso pronunciato in conclusione dei Mondiali, con l’invito alle donne a bussare per farsi aprire le porte ha a sua volta una buona dose di paternalismo, ma va dato atto alla FIFA che gli ottimi risultati di seguito degli ultimi due Mondiali e l’aumento del montepremi sono ottenimenti concreti e importanti. Da questo punto di vista si è fatta molta strada rispetto alla FIFA di Blatter, con tanto di pantaloncini sexy da far indossare alle calciatrici per attrarre pubblico, o al disinteresse sempre mostrato da Platini nei confronti di questo sport.

C'è un ultimo scenario, che è quello “autonomista”. È possibile immaginare istituzioni calcistiche femminili separate da quelle maschili, o perlomeno spingere in un senso di maggiore autonomia del calcio femminile nel solco di quelle esistenti? Per lungo tempo è stata una possibilità negata dalla realtà, il calcio femminile è stato ed è ancora in larga parte uno sport sussidiato dai ricavi del calcio maschile, compreso l’equal pay di alcune federazioni, che all’atto pratico è ad oggi consistito in un obolo di solidarietà versato dai calciatori maschi, già ben remunerati dai club, alle proprie colleghe meno abbienti. Organizzare grandi competizioni costa, gestire squadre costa, avere strutture e staff dedicati costa.

Il 2023 da questo punto di vista passerà però alla storia anche come l’anno del primo grande evento femminile globale capace di raggiungere il break even finanziario (anche se grazie in parte a situazioni non previste alla vigilia, come il cammino dell'Australia che ha spinto la vendita dei biglietti e l’interesse attorno alla manifestazione); l’anno del primo club, il Barcellona, capace di raggiungere con la propria sezione femminile l’agognato traguardo dell’autofinanziamento grazie a sponsor e ricavi dal botteghino; dei primi report Deloitte che ci raccontano di una Women’s Super League che nella stagione 2021-22 ha già raggiunto il 60% di risorse autogenerate rispetto alle spese complessive, una percentuale destinata a crescere nei prossimi anni; della plurititolata sezione femminile del Lione in procinto di essere acquistata da una visionaria imprenditrice americana, Michele Kang, che ha già dichiarato di volere un proprio stadio e un proprio centro d’allenamento per la squadra femminile; o da fondi d’investimento angloamericani specializzati nell’acquisto di club femminili.

Nell’arco del prossimo ventennio ci sarà un sensibile aumento dei ricavi, il calcio femminile avrà una sua prima ricchezza da gestire, ed è lecito pensare che alla gestione politica di questa torta vorranno contribuire in maniera attiva molte delle calciatrici di oggi, facendo pesare il proprio ruolo dentro - e chissà, oltre - le istituzioni calcistiche tradizionali.

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