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Tommaso Clerici
Come si arriva ad allenare le MMA in Italia
06 giu 2023
06 giu 2023
Intervista a Lorenzo Borgomeo, allenatore di uno dei team di MMA più importanti in Italia.
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Tommaso Clerici
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Il coach è in piedi, appoggiato a una parete dello spogliatoio. Non si può dire quale sia il suo stato d'animo: lo sguardo è imperscrutabile e il corpo non tradisce nessun segno di nervosismo. Scandisce i diversi momenti di preparazione dell'atleta che assiste: «Fai attivazione muscolare», «Allungati», «Metti l'olio, massaggiati bene», «Non sudare eh, non ancora». Sono tutte fasi di un rito, servono a entrare nell'ottica del combattimento. Quando il fighter è caldo e manca sempre meno all’azione, il coach inizia a parlare con la sua pancia: gli ricorda i sacrifici, le privazioni, il sangue e il sudore della preparazione. Poi, una volta che l'atleta entra nell'ottagono acclamato dal pubblico, si accomoda all'angolo. Il compito più importante è rimettere insieme i pezzi nel caso di sconfitta. Ma adesso non ci vuole pensare, c'è un match che lo aspetta. Lorenzo Borgomeo è l'Head Coach di Aurora MMA, il team di arti marziali miste più importante d'Italia, con sede a Roma e con un network che si sviluppa sul territorio nazionale. Aurora nasce nel 2020 da un'idea di Borgomeo e di Riccardo Carfagna (soci con anni di esperienza nel settore) e vanta la presidenza del cantante Tommaso Paradiso, mentre a livello sportivo registra quasi una sessantina di fighter tra professionisti e dilettanti, tra cui Carlo Pedersoli Jr, Micol Di Segni, Dylan Hazan e Mauro Cerilli. Come ci ha spiegato in una precedente intervista, Borgomeo ha fondato Aurora per creare una realtà solida sul modello dei team americani, progetto che mancava in Italia, mandando però anche i fighter all'estero per alcuni periodi di allenamento, sotto una continua supervisione. La sua attività ha attirato l'attenzione del Cage Warriors, promotion britannica leader in Europa e da cui UFC ha ingaggiato più di un centinaio di atleti in vent’anni (uno di questi è Conor McGregor, ESPN l’ha definita “il percorso collaudato che porta gli atleti europei in UFC”), che ha scelto Aurora come partner per sbarcare a Roma con un primo evento pilota andato sold out e altre tre date successive nel 2023 – nella prossima prevista per il 29 luglio quando Michele Martignoni andrà a caccia della seconda cintura in un’altra categoria di peso, e potrebbe diventare il primo italiano “double champ”. Ma non solo, la promotion britannica a breve porterà in Italia anche il circuito “Cage Warriors Academy” dedicato ai fighter dilettanti per coltivare nuovi talenti, a dimostrazione della volontà di programmare sul lungo periodo e di un investimento nella crescita delle MMA italiane. Borgomeo si muove dietro le quinte, ma è sempre più influente nel mondo degli sport da combattimento nazionali. Abbiamo colto l'occasione per scoprire qualcosa in più su di lui e soprattutto sul delicato – ma fondamentale – ruolo dell'allenatore in uno sport totalizzante e crudele come le MMA. Lo avevo visto all'opera seguendo il fighter Walter Pugliesi nel suo ultimo incontro, notando quanto fosse stato discreto e silenzioso ma presente dall'inizio alla fine, come se solo il fatto di esserci rassicurasse il fighter. Borgomeo ha qualcosa di autorevole e magnetico anche se sta zitto, un'emanazione del suo carisma che si espande nello spazio intorno a lui e di cui è impossibile non accorgersi e che probabilmente, in quei momenti di tensione negli spogliatoi prima di un match, per i suoi fighter vale di più dei consigli. Dal liceo classico al ring

Lo sento al telefono e gli chiedo di raccontarmi di lui, partendo dall'inizio. «Sono nato e cresciuto a Roma, nel quartiere residenziale Trieste Salario, in una famiglia che ha sempre creduto nell'importanza dello studio», racconta. «Mia madre è una maestra di scuola elementare mentre mio padre ha una società di consulenza. Ho due fratelli e una sorella. Finite le medie ho dovuto scegliere tra liceo classico e quello scientifico e sono andato al famoso “Giulio Cesare”, un classico noto per la sua severità. Quegli anni per me sono stati i più brutti in assoluto, ho solo studiato e arrivavo giusto alla sufficienza. Dopodiché sono andato all'università e mi sono laureato in Scienze motorie. Già da bambino ero un patito dei film di Jean Claude Van Damme e di Bruce Lee, erano gli anni Ottanta. Quando ho visto Kickboxer di Van Damme ho pensato: “Io da grande farò questo”. È stato amore a prima vista, quei film mi hanno folgorato; il combattimento mi ha stregato da subito, a 5 anni andavo in giro per casa a prendere a calci i muri».

«Ma i miei genitori erano ideologicamente contrari alla violenza, per loro non c'era niente di peggio, quindi avevano un rifiuto totale anche per le arti marziali: tutto ciò non ha fatto altro che aumentare il mio interesse per il fighting», continua. «Ho cominciato con il Kung Fu e il Judo perché erano discipline accettate in famiglia, poi a 17 anni sono passato - di nascosto – alla boxe e alla kickboxing. Ho vuotato il sacco solo quando ho cominciato a combattere di Muay-thai, ero appena maggiorenne. La reazione dei miei genitori è stata dura, la ritenevano una cosa assurda e non capivano come facessi a essere attratto da quel mondo, anche perché da adolescente ero un ragazzo tranquillo». «Tirando le somme, sono stato un buon atleta nella Muay-thai e nella Thai boxe, mentre nelle MMA mi definirei un fighter molto appassionato ma mediocre perché le ho iniziate troppo tardi» confessa Borgomeo. «Ho avuto una carriera complicata in un'era pioneristica ed è stato molto faticoso. Nel 2005 ho partecipato a un torneo di kickboxing tra pesi massimi all'evento “Oktagon” di Milano in cui mi hanno spaccato la faccia con un calcio – mi sono rotto mascella, zigomi e orbita - e ho promesso a mia madre che non avrei più combattuto. Per recuperare sono dovuto stare un anno senza il contatto e così ho cominciato a fare brazilian jiu-jitsu con Federico Tisi. A quel punto ho unito lo striking al BJJ e mi sono dato alle MMA, avevo quasi trent'anni. E pensa che all'inizio, quando le guardavo nei primi anni Duemila, mi dicevo: “Ma questi sono matti”, perché ai tempi andava tantissimo la kickboxing; le MMA sembravano brutali, senza senso, con poca tecnica. È lo stesso processo che succederà con la boxe a mani nude, ora tanti la schifano – e a me non piace - ma sta crescendo molto e arriverà ad imporsi (ne abbiamo scritto qui,nda). Comunque non ero abbastanza formato fisicamente e se non sei dotato fai fatica a fare una transizione di questo tipo». Il sogno americano «Per un lungo periodo mi sono allenato anche in America, c'ero stato con la famiglia in vacanza e poi l'ho frequentata dal 2007, quando mi sono trasferito a Miami, fino al 2015, in momenti diversi. Non essendo un fuoriclasse sono stato trattato come un numero, visto che lì gli atleti nelle palestre sono molti. Non mi seguivano, venivo usato come carne da macello per gli sparring. È l'altro lato della medaglia di un sistema che è famoso per produrre campioni. Ma è normale, sono le dinamiche dei grossi team. Dopo un periodo di pausa in cui ero rientrato in Italia mi chiama un mio amico e mi consiglia di rientrare in America per andare ad allenarmi nel team Blackzilians, in Florida, così ci sono volato con la mia ex moglie. Il Blackzilians in quel momento era un team allucinante, sullo stesso tatami si allenavano Alistair Overeem, Vitor Belfort e Anthony “Rumble” Johnson, solo per citarne alcuni, dei mostri sacri. Il primo giorno in cui sono entrato in palestra c'era Rashad Evans che faceva i colpitori, era in preparazione per il match contro Jon Jones. A posteriori è stato un errore andarci, una pazzia, anche se ovviamente potermi allenare con fighter di quel calibro era un'occasione irrinunciabile. Ma di fatto ero l'ultima ruota del carro perché ero un fighter nella media, quello non era un team per me. Ho preso tante botte, ai tempi si faceva sparring tre volte a settimana per dieci round con i guantini da match, infatti ho passato un anno a sentirmi ovattato, ero davvero suonato. Insomma, ho fatto gli ultimi match della mia carriera e mi sono ritirato».

«Così mi sono reinventato come venditore di vini italiani e il business funzionava bene, pensa che io non sento gli odori ma ero bravo a vendere», è divertito a ricordarlo. «Finché sono tornato in Italia e ho aperto un bed and breakfast, è stato un periodo di lontananza dal fighting perché mi sono detto: “Per un po' di tempo non posso tornare in palestra, devo disintossicarmi altrimenti ci ricasco e torno a combattere”. Sai, il ritiro è sempre un momento critico per un atleta, devi imparare a vivere come le persone normali e lo fai quando sei già un adulto. Purtroppo per ritirarti con il cuore in pace deve succedere qualcosa che ti aiuti a farlo: devi farti veramente male, devi essere vecchio o devi fare schifo quando sei in palestra. Altrimenti diventa difficile, non te ne fai una ragione». «Sono diventato un coach senza rendermene conto. Nel 2010 mi allenavo all'American Top Team e cercavano un ragazzo giovane per aprire una loro filiale a Denver. Alla fine l'hanno proposto a me perché aiutavo in palestra, avevo già quella propensione. Per gli standard americani del tempo ero molto forte di striking, perciò avevo fatto da sparring partner fisso a diversi atleti, tra cui Jorge Masvidal, con cui siamo amici ancora oggi, oppure gli tenevo i colpitori. Sono sempre stato capace a trasmettere dei concetti tecnici agli altri e credo di avere anche una buona leadership. Quindi è nata in me una certa consapevolezza, era un ruolo che non mi dispiaceva. Tra l’altro in quel periodo ero un morto di fame, non avevo una lira. Lavoravo come buttafuori perché c'era Masvidal che mi raccomandava, è stata molto dura». Né troppa sensibilità, né troppo poca

«Tempo dopo, al mio rientro definitivo in Italia, ho conosciuto Alessio Di Chirico che faceva già il fighter professionista ed era in un momento difficile, era spaesato. Mi ha chiesto di allenarlo e ho accettato, nello stesso team c'erano anche Carlo Pedersoli Jr, Micol Di Segni e Michele Martignoni; ho cominciato ad occuparmi anche di loro. Una mattina mi sono alzato e ho realizzato: “Sto facendo il coach”. Da allora non ho più smesso perché per me non è un lavoro, non l'ho mai percepito così – mentre ho passato periodi in cui odiavo ciò che facevo, ed è la cosa peggiore del mondo - finché è diventato la mia vita, grazie a una passione travolgente. E questo supera i tanti lati negativi di quello che faccio, a partire dal riconoscimento economico, che è ridicolo: facciamo un lavoro da eroi, nel senso che crediamo tanto in persone e progetti e badiamo meno al resto».

«Se sei stato un atleta veramente scarso o non hai mai combattuto, diventare un coach può essere pericoloso perché rischi di voler vivere attraverso gli altri esperienze che non hai mai raggiunto. Allo stesso tempo se hai avuto troppo successo da fighter non potrai diventare un buon allenatore, perché se sei nato con un talento particolare o se sei predisposto geneticamente ci sono degli aspetti che non capirai mai perché non le hai passate. L’ideale è la via di mezzo. Io mi reputo un coach normale, né buono e né cattivo, e quello che ho di buono l’ho imparato dalle esperienze terribili che ho vissuto, perché ne ho attraversate davvero tante: ho combattuto dai 70 chili fino ai pesi supermassimi in discipline diverse e in svariate federazioni. Mi sono fatto molto male, so cosa vuol dire passare del tempo in ospedale dopo i match. Ho visto tanti manager al lavoro e come si comportano. Se fossi stato imbattuto o un campione assoluto ci sarebbero state delle situazioni che non avrei mai conosciuto e oggi sarei un coach incompleto. È anche una questione di empatia. Quindi capisco i miei fighter quando li vedo provare mille volte la stessa tecnica senza che riescano a farla correttamente, perché ci sono passato. Oppure quando perdi un match perché l'avversario è stato più forte e basta, e devi solo accettarlo. Nel combattimento ci sono tante sue parti terribili, ma se un coach le ha già affrontare perché ha fatto la gavetta può essere d'aiuto nel farle superare a qualcun altro. In questo ambito conta più il proprio trascorso dei titoli».

«In passato ho fatto l'errore di seguire pochi fighter a cui mi sono affezionato parecchio, ma in realtà bisogna mettere dei paletti. Se sei troppo coinvolto perdi lucidità, diventi emotivo e fai un danno a te e all'atleta. Si crea troppa confidenza – l'autorità invece è necessaria in questi casi - e cala la capacità di prendere le scelte giuste al momento giusto. Affezionarsi in maniera morbosa è un problema perché un fighter non ti ridà mai quello che gli hai dato, ma se gli hai dato troppo in realtà il problema è tuo. E se poi il tuo pupillo si sposa, si rompe una tibia, smette o ti abbandona che fai? Bisogna essere distaccati, allenare tanti atleti così vuoi bene a tutti in modo diverso ma non ti leghi troppo. Ci vuole professionalità nel gestire questi aspetti ma è difficile perché con questi ragazzi condividiamo tutto. Un altro aspetto del mio lavoro è fare la parte del cassonetto della spazzatura a livello emotivo, cioè raccogliere tutti i dubbi, le preoccupazioni, i malumori dei fighter. Quello che non trova l'incontro, l'altro che è depresso perché è infortunato, quell'altro ancora che ha problemi con il peso. Per fortuna riesco a ritagliarmi degli spazi per la mia vita privata e ho una fidanzata che mi capisce e mi aiuta molto. Il mio lavoro non finisce in palestra, passo dieci ore al giorno al telefono perché ormai mi occupo pure del lato manageriale degli atleti e ogni giorno c'è qualche grana da risolvere». Una bellissima maledizione

«In generale un fighter deve avere un mostro dentro, una volontà di riscatto, la ricerca di un equilibrio da raggiungere tramite un confronto fisico molto duro, deve essere tormentato e voler dimostrare qualcosa. Sono tutti masochisti, chi più chi meno: c'è a chi piace prendere colpi, sentirli per mettersi alla prova, dipende dal proprio modo di combattere. C’è anche dell’egocentrismo, del piacere nell’apparire, nell’essere notato. È uno sport individuale, nell’ottagono si entra in due; vuoi essere visto, vuoi trionfare davanti a tutti». Cos’è che invece lascia un segno anche in un allenatore navigato? «L’aspetto più difficile del mio lavoro è vedere spezzarsi i sogni dei ragazzi che alleno. Ci sono passato anch’io e assistere da spettatore è struggente. A tante cose ci fai il callo, ma quando vedi gli occhi di un fighter dopo una sconfitta che ti cambia la carriera, vedi quello che non ce l’ha fatta dopo averci messo l’anima… È la cosa più difficile. Il combattimento è come la vita: puoi dare tutto e non farcela lo stesso. Sono momenti che non si possono gestire, bisogna accettarli. Il vero motivo per cui in pochi fanno i fighter non sono i pugni o i sacrifici, perché a quello ti abitui, ma le persone comuni non sono disposte ad affrontare le sconfitte, dopo aver preso un sacco di botte, aver guadagnato la metà dei soldi e dover ridimensionare le tue ambizioni. È un all in continuo, o tutto o niente. Le persone normali fanno sport, noi facciamo qualcosa di molto simile al casinò, e non è per tutti. In quei quindici minuti in gabbia ci si gioca la vita».

«Prendi Dylan Hazan che combatte per il titolo del Cage Warriors: se vince e convince va in UFC. Invece perde per TKO al secondo round e si rompe entrambe le mani. Ora dovrà operarsi, stare fuori dei mesi, rientrare gradualmente e per tornare a combattere per il titolo ci vorranno almeno un paio di match. Non ha perso il treno per sempre ma è tutto rimandato per un po’ di tempo, e di mezzo c’è l’aspetto psicologico da gestire e magari anche problemi economici. Oppure un altro fighter che era entrato in orbita UFC, poi ha perso un paio di match fondamentali, l’ultimo in modo fulmineo. Negli spogliatoi mi ha detto, sconsolato: “Non andrò mai in UFC, vero?”. Gli ho risposto che probabilmente è così, ma se torna a vincere posso provare a fargli firmare un ottimo contratto con un’altra promotion. Ma lui era cinque anni che mi chiedeva di portarlo in UFC, non è stato facile. Poi non è sempre così, alcune disfatte fanno bene per cambiare qualcosa, insegnano, ma dipende a che punto arrivano nel corso di una carriera. In ogni caso resta una cosa a cui non ti abitui».

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«Ancora oggi mi chiedo perché lo faccio. Non so se sia una maledizione o un destino. Mi ci sono ritrovato. È la cosa peggiore che puoi fare in vita tua, la scegli solo se ti tormenta, se non puoi farne a meno. La lezione più grande che ho imparato la spiega benissimo Marco Aurelio in una sua frase celebre: “L'impedimento all'azione fa avanzare l'azione. Ciò che sta sulla strada diventa la strada. L'ostacolo è la via”. Tutte le esperienze negative che accadono diventano il tuo destino o la tua sfida, fanno parte del percorso. Hanno un senso, diventano episodi formativi. Un fighter che si rompe la costola durante il camp e poi combatte lo stesso e vince perché è riuscito a metterci una pezza – è successo davvero - rappresenta la capacità di adattarsi e trovare soluzioni, che è fondamentale anche nella vita».

In chiusura gli chiedo un parere sul momento che stanno vivendo le arti marziali miste nazionali: «Lo stato di salute delle MMA italiane è buono come mai prima d’ora, ancora meglio della cosiddetta Golden Age, quando abbiamo avuto sei fighter tricolori in UFC. Adesso c’è più consapevolezza e più programmazione, le MMA si stanno strutturando. Ci sono i presupposti per un vero upgrade, vedo le basi per un futuro luminoso. L’arrivo di Cage Warriors è la dimostrazione, ci stanno credendo davvero e il pubblico per ora ha risposto presente. Stiamo già programmando il 2024, dove faremo le cose ancora più in grande».

Nel documentario The White Shark. Tu per cosa combatti? girato da VD News per raccontare il fighter Simone Patrizi, Borgomeo apre le porte di Aurora MMA alle telecamere. Mentre passa l’aspirapolvere sul tatami e spruzza del liquido sanificante nell’ottagono, dice, descrivendo le MMA professionistiche: «Prendi le botte. Vieni pagato male. Se ti infortuni seriamente nessuno ti tutela. Non hai garanzie di niente. Vale solo il tuo ultimo match. La gente pensa che sei un violento… Non è il massimo. Perché lo facciamo? Solo per la gloria».

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