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Come LeBron James ha riportato i Lakers alle Finals
28 set 2020
28 set 2020
La strada verso le decime finali della carriera del Re è stata la più tortuosa della sua carriera.
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Nella carriera di un giocatore non esiste mai una stagione uguale ad un’altra. Se poi si tratta di uno come LeBron James, beh, allora nemmeno un mese può essere simile a quello passato o a quello futuro. Il modo in cui "il Re" ha raggiunto le sue decime Finali NBA della carriera, però, ha inevitabilmente qualcosa di diverso. Un po’ perché tutto il 2020 ci sta mettendo davanti a esperienze che non pensavamo avremmo mai dovuto affrontare; e un po’ perché è riuscito a raggiungerle con i Los Angeles Lakers, portando a compimento un percorso che nell’estate del 2018 non sembrava esattamente così facile come lo ha fatto sembrare in alcuni tratti di questa stagione e in questi playoff, nei quali ha sempre chiuso i conti senza aver bisogno neanche di gara-6.

La lunga strada per tornare al top

Quando il 1 luglio del 2018 è diventata di dominio pubblico la sua scelta di firmare con i Los Angeles Lakers, un po’ tutti — noi compresi — pensavamo che la motivazione fosse soprattutto extra-campo: c’era un impero economico e mediatico da portare avanti; un film discretamente atteso come Space Jam 2 da girare; una famiglia da mettere nelle migliori condizioni possibili per gli anni a venire; una città come Los Angeles da godersi 12 mesi l’anno e non solamente d’estate. La possibilità di vincere un titolo, insomma, sembrava arrivare molto dopo nella lista delle priorità, anche perché la Western Conference era ancora saldamente di proprietà dei Golden State Warriors. E quei Lakers non sembravano minimamente pronti a giocarsela, neanche nel giro di un anno.

La prima stagione passata da James ai Lakers sembrava confermare questa convinzione: quella squadra era costruita estremamente male, la dirigenza formata dal duo Magic Johnson-Rob Pelinka era quantomeno disfunzionale e l’allenatore confermato in panchina, Luke Walton, aveva dato la netta impressione di non aver mai ricevuto davvero l’approvazione di James. Al resto poi ci ha pensato un brutto mix di infortuni (a partire da quello di James all’inguine che ancora ogni tanto torna d’attualità), scontri generazionali tra vecchi e giovani, e la lunghissima trattativa per portare Anthony Davis in città prima della deadline del mercato che aveva distrutto lo spogliatoio.

A queste premesse si aggiungeva anche il fatto che James non fosse proprio stato accettato dalla gigantesca tifoseria gialloviola. Come ha ammesso lui stesso in una recente intervista con Chris Haynes, aveva percepito nei propri confronti lo scetticismo di una fan base che era stata abituata per anni ad odiarlo in quanto “usurpatore” del trono di Kobe Bryant. E proprio Kobe ha giocato un ruolo chiave per farlo sentire il benvenuto: «Quando ho deciso di venire qui, lui mi ha subito mandato un messaggio dandomi il benvenuto nella famiglia. È stato un momento speciale perché a quel tempo i tifosi dei Lakers non erano così convinti di me. Molti dicevano ‘Potremmo non volere LeBron a questo punto della sua carriera’, altri ‘Ma è a posto? Ci porterà davvero di nuovo alle Finals?’. Perciò ricevere la sua approvazione voleva dire molto».

Uno scetticismo confermato anche dalla stampa. Bill Platschke, columnist del Los Angeles Times, in un articolo di bilancio del suo primo anno (definito come “un totale bust” e “la stagione individuale più deludente nella storia dello sport”) scrisse che James non era mai sembrato completamente coinvolto nelle sorti dei Lakers, come se fosse un separato in casa — o che sapesse già che buona parte delle persone che lo circondavano non sarebbero rimaste tanto a lungo quando davvero si sarebbe fatto sul serio. Ma è anche per questo che la stagione 2019-20 rappresenta un unicum nella carriera di James: ha dovuto conquistare il cuore di una tifoseria come non aveva dovuto fare nei suoi passaggi precedenti a Cleveland e Miami.

https://www.instagram.com/p/CFplzuQA2GB/

Per tutto l’anno James ha usato l’hashtag #RevengeSeason, proprio per ricordare a se stesso quanto si diceva su di lui (anche se non si capisce bene da parte di chi) un anno fa.

Cosa succede quando LeBron si allaccia le scarpe

Ora che sembra quasi come se l’intera esperienza di LeBron ai Lakers sia stata sempre tutta rose e fiori e l’anno scorso solo un incidente di percorso dovuto esclusivamente agli infortuni, non bisogna dimenticare che per un certo periodo di tempo — per strano che possa sembrare — i gialloviola erano quasi indesiderabili. Magic Johnson aveva abbandonato la nave che affondava con una delle conferenze stampa più surreali nella storia dello sport professionistico e i Lakers sembravano una polveriera non più salvabile, oltre che una causa perenne di drama hollywoodiano. Dopo che le trattative con Tyronn Lue si erano incagliate sulla durata del suo contratto fino ad arrivare alla rottura e che Jason Kidd, per svariate ragioni, non era stato ritenuto adatto a ricoprire il ruolo di capo-allenatore — quantomeno da subito —, la scelta è ricaduta un po’ per caso su Frank Vogel, già additato da tutti come il principale candidato a pagare le colpe di una franchigia disfunzionale.

Invece l’arrivo del tanto sospirato Anthony Davis a giugno ha completamente cambiato le prospettive della franchigia, innanzitutto perché ha cambiato le prospettive di LeBron. AD è il complemento ideale per il gioco di James, un finisher in grado di sobbarcarsi la maggior parte degli oneri offensivi senza però dover togliere il pallone dalle mani del Re a inizio azione, costringendolo a lavorare lontano dal pallone. Soprattutto, James ha capito che una volta accontentato con lo sforzo per arrivare a Davis non aveva più scuse se le cose fossero andate male, e ha cominciato davvero ad allacciarsi le scarpe — a partire dalla metà campo difensiva.

Erano anni che LeBron non difendeva così tanto e con questo impegno, e lo ha fatto sin dal primo giorno — imponendo di fatto al resto dei Lakers di sbattersi sul serio nell’altra metà campo per guadagnarsi un posto in rotazione, tutto il contrario di quanto aveva fatto per la maggior parte del suo secondo passaggio a Cleveland in cui lo scarso impegno difensivo era la norma.

Nel finale di gara-4 ha preso in marcatura Jamal Murray, risolvendo la partita con un paio di giocate difensive di alto livello, ma anche quando ha dovuto marcare Nikola Jokic ha dimostrato che su singolo possesso non ci sono tanti difensori meglio di lui in NBA.

I Rockets invece si ricordano bene le sue terrificanti rotazioni al ferro per rispedire al mittente tutte le conclusioni che si avvicinavano pericolosamente al canestro e con i Nuggets ha personalmente preso Jamal Murray nel momento chiave di gara -4 e della serie. Con James in campo i Lakers in questi playoff hanno un rating difensivo di 103.0 (miglior dato di squadra tra quelli con almeno 300 minuti), quando esce di 113.1 (peggior dato di squadra).

Inoltre, contrariamente a quanto si poteva immaginare, i Lakers hanno vissuto una stagione senza alcun momento drammatico all’interno dello spogliatoio, nessuna voce incontrollata, nessuna dichiarazione passivo-aggressiva davanti alla stampa, niente di niente. E questo nonostante la presenza in squadra di personalità come quelle di Dwight Howard o Rajon Rondo, o giovani in cerca del proprio posto in NBA come Kyle Kuzma, o aggiunte dal mercato come Dion Waiters e JR Smith. Tutti hanno compreso il proprio ruolo fin dal primo giorno e non hanno fiatato anche nelle (poche) occasioni in cui le cose sono andate male — quasi un unicum nella carriera di James e una dei motivi per i quali i Lakers sono di nuovo in finale a 10 anni di distanza dall’ultima apparizione.

Meno dominio, più controllo

Avendo scollinato ormai i 35 anni e con un fisico che non gli può più permettere di sobbarcarsi la mole di responsabilità offensive a cui ci aveva abituati agli Heat o ai Cavs, LeBron in questa stagione ha cambiato un po’ il suo modo di giocare. Il fatto che abbia chiuso la stagione come miglior assistman della lega (10.2 assist, unica volta in doppia cifra in carriera) la dice lunga sull’atteggiamento che ha avuto, più al servizio dei compagni (in particolare quello con la maglia numero 3) che interessato alle proprie cifre, che pure sono state stellari. James in carriera non è mai stato egoista, ma raramente come in questa stagione ha dato l’impressione di pensare poco a se stesso e molto di più a trovare il modo di far girare la squadra, prendendosi poi le sue inevitabili responsabilità sia in attacco che in difesa nel momento decisivo — come dimostrato in gara-5 contro i Denver Nuggets.

«Non avevo mai assistito di persona a una tale sensazione di dominio» ha detto coach Frank Vogel. E dire che un po’ di volte aveva già incrociato James da avversario.

Questo non significa che non abbia puntato dichiaratamente al premio di MVP, volendo alzare la voce per i “soli” 16 primi voti ricevuti dai 101 membri dei media che hanno espresso le loro preferenze. Una polemica piuttosto sterile visto che Giannis Antetokounmpo, se si considera solo quanto visto prima della sospensione della stagione (cioè il periodo di tempo su cui i votanti sono stati chiamati ad esprimersi, senza considerare la bolla di Disney World) aveva dimostrato di essere il Most Valuable Player sui due lati del campo per i Milwaukee Bucks, e nonostante il tentativo di colmare il gap — ad esempio con la vittoria in casa dell’8 marzo — James non era riuscito a dimostrarsi indiscutibilmente superiore al greco.

Quelle parole piuttosto infelici allora suonano più come l’ennesimo tentativo di spostare il potere di nuovo nelle mani dei giocatori, come a dire: vedete, i giornalisti non sanno votare perché non guardano le partite e seguono solo le narrative (come se non fosse lui il re di tutte le narrative!), mentre noi giocatori che stiamo in campo sappiamo davvero chi merita (come hanno più volte dimostrato di non saper fare, ad esempio con i voti per gli amici nell’All-Star Game). James ha poi tirato fuori di nuovo un vecchio tarlo che gli è rimasto in testa da anni, cioè il mancato premio di difensore dell’anno nel 2012-13 andato a Marc Gasol «che all’epoca non era neanche entrato nel primo quintetto difensivo», come sottolineato a dimostrazione che i giornalisti non capiscono di basket (più semplicemente: il DPOY era stato votato dai media, i quintetti All-Defense dagli allenatori).

Fa tutto comunque parte del piano di assoluto controllo che James esercita con la sua sola presenza, e che sia in campo oppure fuori non fa poi troppa differenza. Anche a 35 anni che a fine 2020 diventeranno 36, anche con il prime atletico probabilmente alle spalle e anche con una lunga serie di pretendenti più che agguerriti al suo trono, la NBA è ancora nelle mani di LeBron James — giunto alla decima partecipazione alle Finals su 14 partecipazioni ai playoff, la nona negli ultimi dieci anni di NBA, la più complicata di tutte non fosse altro per le circostanze assurde che l’hanno propiziata, dalla tumultuosa pre-season in Cina alla pandemia globale passando inevitabilmente per Calabasas.

Magari poi James perderà in finale per la settima volta in carriera, attizzando nuovamente il dibattito su chi sia più grande tra lui e Michael Jordan come se davvero a) interessasse sul serio a qualcuno; b) ci sia necessità di un titolo in più o in meno per cambiare davvero la sostanza della sua carriera. Certo, vincere il quarto anello con tre squadre diverse — magari anche con il premio di MVP — lo metterebbe in una categoria a parte, visto che nessuno ci è mai riuscito da miglior giocatore della sua squadra. E riportare i Lakers in Finale dopo averli risollevati dal periodo peggiore della loro storia recente è un’impresa già di per sé.

Ma mai come quest’anno James è sembrato giocare per un motivo superiore, anche al di là di tutto quello che è successo a Kobe Bryant che sicuramente ha un peso enorme nelle teste di tutti i Lakers. LeBron quest’anno ha dato l’impressione di giocare per farsi amare da qualcuno che non lo amava. Non è un caso se in più di un’occasione ha sottolineato quanto gli sia pesato giocare nella bolla di Orlando (pensando più volte di andarsene, per sua stessa ammissione) e quanto anche un momento storico come il buzzer beater di Anthony Davis avesse avuto un retrogusto agrodolce perché non c’era nessuno sugli spalti con cui condividerlo.

Ma ci sono circostanze che nemmeno uno con il suo potere può controllare: l’unica cosa che gli è rimasta da fare è finire il lavoro che ha cominciato, conquistando le quattro vittorie che lo separano dal titolo NBA più tumultuoso della sua carriera.

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