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Marco Gaetani

Classici: Estudiantes-Milan ’69

Ci siamo riguardati la partita della "Coppa insanguinata".

Il naso frantumato, il sangue rappreso ancora visibile sul volto, le manette ai polsi. Nestor Combin viene portato via così dalla Bombonera di Buenos Aires, come se fosse appena uscito da una rissa, con i lineamenti stravolti dai pugni e dagli sputi. È l’ultimo oltraggio di una serata surreale, la goccia che fa traboccare il vaso della sopportazione dei club europei nei confronti della Coppa Intercontinentale, così affascinante eppure così pericolosa per le formazioni del Vecchio Continente.

 

Il Milan ci era già passato nel 1963, con il discusso arbitraggio del mitologico Brozzi nelle sfide con il Santos; era poi toccato all’Inter contro l’Independiente nel 1965, e quindi al Celtic contro il Racing nel 1967 e al Manchester United un anno più tardi proprio con l’Estudiantes. Il quinto episodio della saga è il più brutale, quello che indurrà squadroni come Ajax e Bayern Monaco a disertare la competizione negli anni ’70, prima della svolta giapponese del decennio successivo. Estudiantes-Milan è una delle pagine più nere della storia calcio mondiale, una partita che si trasforma in un’aggressione indegna, la tanto decantata grinta sudamericana che fa il giro e diventa violenza fisica gratuita. Il 22 ottobre del 1969, i giocatori del “Diavolo” tornano a casa con la coppa e la sensazione di essere dei sopravvissuti. Per i posteri, diventa il “Massacro della Bombonera”.

 


Il match integrale con il commento della tv argentina.

 

L’Italia pronta ad esplodere

L’Italia è una pentola a pressione che rischia di esplodere da un momento all’altro. È appena iniziato l’“autunno caldo”, con trentadue contratti collettivi tra industria, agricoltura e trasporti prossimi alla scadenza e un malcontento sociale difficile da arginare, sull’onda lunga del ‘68. I salari viaggiano rasoterra rispetto al resto d’Europa. Sono anni in cui al nord prolifera la figura del cosiddetto “operaio massa”, generalmente proveniente dal sud, costretto a lavorare in condizioni precarie.

 

Nella cintura milanese si cementano legami di terra e di sangue, tra operai emarginati dal resto della città. Ci si ritrova insieme, magari, a tifare un Milan ancora dall’anima casciavit, per sentirsi un po’ più milanesi anche soltanto grazie al pallone. C’è tanto Milan e tanta fabbrica in uno dei capolavori di Mario Monicelli, uscito nel 1974: Romanzo Popolare è un gioiello partorito dalle sue mani, da quelle di Age & Scarpelli e dalla regia neanche troppo occulta di Beppe Viola, fuoriclasse assoluto del giornalismo italiano, andatosene troppo presto in un pomeriggio di ottobre del 1982 mentre montava il servizio di Inter-Napoli per la Domenica Sportiva. Insieme a Enzo Jannacci firma una colonna sonora struggente, Vincenzina e la fabbrica è un pezzo che entra nella pelle e nelle ossa, testo secco e melodia devastante. E anche lì c’è il Milan, un Rivera lontano dai fasti di un 1969 in cui sembrava volare, fino alla Coppa dei Campioni, all’Intercontinentale, al Pallone d’Oro.

 

Zero a zero anche ieri sto Milan qui

Sto Rivera che ormai non mi gioca più

Che tristezza il padrone non c’ha neanche sti problemi qui

 

Il Milan dell’anno precedente, con l’ossatura composta da cinque campioni continentali a Euro 1968 – Anquilletti, Lodetti, Prati, Rivera e Rosato – e guidato da Nereo Rocco, ha via via superato tutti gli ostacoli trovati sulla strada verso la finale di Madrid. Rivera contro l’Ajax non segna ma dipinge calcio, l’esitazione di un battito di ciglia prima del cross che fissa il 4-1 per la testa di Pierino Prati, eroe della serata con una tripletta, è arte applicata al meno nobile mondo della pedata. «Diventai milanista perché da piccolo trovai un giorno per terra il portafoglio di mio nonno. Lo aprii e vidi le foto ingiallite di padre Pio e Gianni Rivera, che io non conoscevo, non sapevo chi fossero. Lo chiesi a mio nonno e lui mi spiegò: uno fa i miracoli, l’altro è un popolare frate pugliese», recita una delle massime di Diego Abatantuono.

 

Eppure, nella finale d’andata di Intercontinentale, giocata l’8 ottobre, Rivera è tra i meno ispirati. Nonostante la nomea difensivista di Rocco, il Milan si presenta in campo con l’“Abatino”, Prati, Sormani e Combin. Sono gli ultimi due a punire la formazione di Zubeldia: l’italobrasiliano apre e chiude le danze, l’ex granata realizza la rete del momentaneo 2-0. L’Estudiantes fa la figura della formazione disorganizzata e rissosa, nonostante il tecnico sia ritenuto da Rinus Michels l’inventore del calcio totale. Il punto di riferimento di Osvaldo Zubeldia in campo è un ragazzo nato da genitori siciliani, emigrati in Argentina per cercare fortuna. È uno studioso, non abbandona il sogno di diventare ginecologo nonostante gli ottimi risultati ottenuti nelle giovanili del San Lorenzo.

 

Quando incrocia il Milan in campo, è al tramonto della sua carriera da calciatore. «Non mi stancherò mai di dire che Zubeldia è stato il mio maestro, sia dal punto di vista calcistico che da quello umano», ha dichiarato spesso Carlos Salvador Bilardo. I prodromi della mattanza della sfida di ritorno si vedono già a San Siro, con Lodetti che rischia una gamba mentre Rivera, secondo Giulio Accatino de La Stampa, «in queste partite che sono più battaglie che sport gioca con molto timore, quindi con scarso rendimento: è senza dubbio il miglior centrocampista italiano ma non è un leone».

 

Già dopo il match d’andata, la stampa italiana inizia a temere il peggio per il ritorno.

 

Con un 3-0 in archivio, il Milan dovrebbe potersi limitare alla normale amministrazione in Argentina. Alla vigilia, per qualche ora, Rocco pensa a una mini rivoluzione, con Rivera fuori e una formazione più difensiva, rispondendo per le rime alle armi dell’Estudiantes. Il numero 10 e Malatrasi saltano il penultimo allenamento ma sono regolarmente in campo per la rifinitura della vigilia: Rivera ha smaltito un’infiammazione muscolare ed è pronto a partire titolare. I giornalisti lo placcano a bordo campo. «Vuole giocare veramente mercoledì o ha paura dei calci degli argentini?», gli chiedono. «Chi rinuncia a una finale mondiale stando bene? Mi sento davvero meglio», ribatte il fuoriclasse rossonero.

 

Rocco sa cosa accadrà sul terreno di gioco della Bombonera, e da giorni sta preparando la squadra al peggio. Le leggende sull’Estudiantes sono infinite, alcune delle quali confermate in seguito da Bilardo. Una squadra dotata di spilli da balia nei calzoncini, da sfoderare in occasione dei calci d’angolo per torturare gli avversari. La provocazione verbale è eletta ad arte, con alcuni giocatori addetti a studiare i dettagli della vita privata dei rivali per farli crollare psicologicamente. Lo stesso Bilardo, in un match contro il Racing, sfruttò le sue conoscenze mediche per far saltare i nervi a Roberto Perfumo, parlandogli di una cisti che sua moglie aveva appena dovuto togliere e del possibile sviluppo negativo della malattia, rimediando in cambio un calcione epocale che provocò l’espulsione di Perfumo e l’applauso silenzioso ma convinto di tutti gli anti-Bilardo disseminati in giro per l’Argentina.

 

Nel Racing si nascondevano diverse delle vittime preferite da Bilardo. Juan Presta ha raccontato a Jonathan Wilson la storia di un portiere preso di mira dal futuro c.t. dell’Argentina. L’estremo del Racing aveva un rapporto quasi morboso con la madre, che non voleva assolutamente vederlo sposato. L’uomo decise comunque di convolare a giuste nozze con la sua fidanzata, e nel giro di sei mesi la madre venne a mancare. Al primo incrocio in campo, Bilardo gli si avvicinò con un ghigno: «Congratulazioni, finalmente sei riuscito a uccidere tua madre».

 

Il massacro

L’Estudiantes inizia a picchiare da prima del match. «All’uscita dagli spogliatoi ho ricevuto una pedata in uno stinco», racconta Pierino Prati, uno dei più tartassati. Rocco sceglie gli stessi undici dell’andata, invitando i suoi a stare coperti per colpire in contropiede. Ma è il Milan la prima squadra a essere colpita, anche se non da azioni calcistiche. Appena mettono piede sul terreno di gioco della Bombonera, alla fine del tunnel, Rivera e compagni vengono sommersi da caraffe di caffè bollente. «Scappammo di corsa a centrocampo – ricorda Giovanni Lodetti – e ci schierammo per la classica foto prepartita. Gli argentini sono entrati in campo con un pallone a testa e hanno iniziato a tirarci addosso delle bordate che la metà bastava. Ci siamo perfettamente resi conto del clima». Il gioco si ferma per la prima volta dopo 18 minuti, c’è Prati a terra per un contrasto di gioco. Intervengono i soccorsi e durante le operazioni, il portiere Poletti si avvicina all’attaccante milanista e, come se nulla fosse, gli rifila una “puntata” in piena schiena. L’arbitro, il cileno Massaro, invece di sanzionare il portiere se la prende con i medici del Milan, troppo lenti nel far uscire dal campo Prati.

 

 

 

Il gol che di fatto chiude la pratica – e apre ufficialmente la caccia al milanista – è un gioiello di Rivera, alla faccia delle paure sulla sua scarsa personalità. L’“Abatino” ruba palla a centrocampo, ottiene lo scambio con Combin ed è glaciale quando si presenta davanti a Poletti, che tenta vanamente di placcarlo. È una rete che condanna l’Estudiantes: sarebbero serviti ben quattro gol per portare la sfida alla “bella”, secondo la formula dell’epoca del torneo che prevedeva una terza sfida in caso di parità dopo le prime due, senza tenere conto delle reti segnate in trasferta. Senza avere più modo di rientrare in partita, agli argentini non resta che far saltare quante più tibie possono. Il primo a scamparla è proprio Combin in occasione del gol, rialzandosi dopo un’entrata da brividi.

 

 

Rivera inizia e conclude l’azione nobilitando il filtrante di Combin, che a un attimo dal tocco in profondità subisce il tentativo di amputazione di una gamba da parte di uno dei difensori avversari.

 

Pierino Prati alza bandiera bianca a tre minuti dal gol di Rivera. L’attaccante è a terra dopo una mischia in area rossonera, per qualche istante perde i sensi, viene trasportato fuori in barella. «Hanno colpito ogni parte del mio corpo. I fianchi, le gambe, poi una botta in testa. A un certo punto ne ho prese così tante che sono svenuto. Dico onestamente che non ricordo più nulla, mi sono ripreso soltanto negli spogliatoi. Questa vittoria ci è costata troppo cara, non è stata una partita di calcio ma una battaglia». Con due gol in chiusura di primo tempo, l’Estudiantes si riporta clamorosamente in carreggiata. Segnano Conigliaro e Aguirre Suarez, ma una delle stelle della formazione, la Bruja Veron, padre di Juan Sebastian, non è in serata. Nella ripresa le occasioni latitano, in compenso è un tripudio di calci e gomitate.

 

 

Una delle tante carezze della serata della Bombonera.

 

Rischia di saltare anche Anquilletti, colpito alla schiena a tradimento nell’ennesima mischia in area di rigore. Il difensore si rialza a fatica, passano pochi secondi e il bersaglio diventa Rivera. Si scatena una rissa nella quale diventa difficile distinguere gli aggressori, i contatti durano diversi secondi, c’è da attendere minuti per la decisione di Massaro. Quel che è certo è che Combin esce ferito al volto, il naso in mille pezzi, quel viso da pugile che per una volta non incute timore ma soltanto compassione per le botte ricevute. L’arbitro espelle Aguirre Suarez, che esce alzando il braccio al cielo per salutare la folla adorante sugli spalti.

 

 

 

L’Estudiantes prova a produrre l’ultimo sforzo per riaprire il discorso, Cudicini è sontuoso poco dopo la mezz’ora respingendo tre tentativi ravvicinati degli avversari. Più passano i minuti e più l’arbitraggio diventa surreale. In uno scenario a dir poco bizzarro, accadono eventi impossibili da descrivere. Al Milan, nel finale, viene negato questo rigore dopo un’entrata folle di Poletti. I rossoneri, pur di portare a casa la pelle, neanche protestano.

 

 

 

Giunti a questo punto, l’Estudiantes è già in nove per l’espulsione di Manera, reo dell’ennesimo fallo di serata su un Rivera insospettabilmente leonino. I giocatori del Milan, al triplice fischio di Massaro, si concedono il vezzo di festeggiare il successo appena ottenuto, sottostimando la carica nervosa degli avversari, che hanno nelle gambe ancora qualche sfuriata. Ne fa le spese Lodetti, colpito da un calcio sulla schiena mentre sta esultando a centrocampo. Si accende l’ultima mischia di una serata ancora ben lontana dalla fine.

 

 

 

Il caso Combin

 

Nella rosa del Milan, già dalla partita d’andata, c’è un uomo che attira più degli altri le attenzioni dei giocatori dell’Estudiantes. È Nestor Combin, nato a Las Rosas, nella provincia di Santa Fe. A San Siro, durante il netto successo rossonero, gli argentini iniziano ad avvisare gli avversari: «Combin è un infame, un traditore, un disertore». Sembrano parole in libertà, perché Combin ha svolto il servizio militare in Francia, dove si è trasferito poco più che ventenne. È un attaccante dagli strappi difficili da sostenere per le difese avversarie, Rocco lo ha fortemente voluto al Milan dopo averlo portato al Torino. Con la maglia granata, il suo nome era stato circondato da un alone mistico in seguito alla scomparsa tragica di Gigi Meroni. Nella stracittadina che seguì la morte della “Farfalla granata” toccò a lui trascinare i compagni di squadra verso un incredibile 0-4: «Ci vedevamo sempre: lui, io, Cristiana e mia moglie. Era un’amicizia profonda, vera. La sera dell’incidente lo avevo lasciato venti minuti prima. Era con Poletti, mi chiese di prendere un caffè con lui, di fronte a casa sua. Gli dissi di no, che era matto: avevamo giocato con la Samp, ero stanchissimo e già in clima derby. Mi prendeva in giro, diceva che non avrei mai segnato un’altra tripletta contro la Juventus, che con la Sampdoria ero stato fortunato. Scherzando, lo mandai dove sapete. Furono le ultime parole che ci dicemmo». Il Toro scese in campo con l’anima in disarmo, aggrappato alla rabbia cieca di Combin, capace di segnare una tripletta spettacolare prima del quarto gol a firma Carelli, in campo con la 7 di Meroni. Poi la chiamata del Milan, un ruolo da protagonista in una delle formazioni più forti del mondo.

 

Alla Bombonera lo aspettano tutti, Combin. Il disertore. In una delle tante mischie della serata Aguirre Suarez gli rifila un pugno a tradimento, mandandogli il naso in mille pezzi. Nestor perde i sensi, viene portato fuori in barella, è una maschera di sangue ed è ricoperto di sputi. Si riprende intorno alla mezzanotte, dopo aver superato una crisi di tremito nervoso. Ha le narici chiuse dai tamponi e il volto ancora sporco di sangue quando si riaffaccia nella pancia dello stadio, affiancato da Rocco. Si avvicinano sei strani personaggi, lo circondano, lo strattonano via. Viene spinto di peso in un’automobile verde, prova a salvarlo addirittura un tifoso milanista al seguito, che nelle cronache del giorno dopo viene citato per cognome: è il signor Barbaini, che si getta sulla macchina in corsa ed è prontamente malmenato dalle guardie. A portare via Combin sono dei poliziotti, gli stessi che non sono riusciti a catturare Manera, Poletti e Aguirre Suarez, scappati da una porta di servizio: l’ultimo è ricercato per lesioni, i primi due per infrazioni alle leggi sull’attività sportiva, la loro mattanza non è passata inosservata. Ma le manette sono ai polsi di Combin, che in campo non si è macchiato di alcuna reazione. La verità emerge alle 2.30: è in stato di fermo per renitenza alla leva. Viene spostato dalla Questura Central al distretto militare in Avenida Bullrich.

 

Il medico sociale del Milan, il dottor Scotti, chiede a gran voce il ricovero per le lesioni subite, senza successo. Combin, che ha passaporto francese, deve dimostrare alle autorità di aver svolto il servizio militare in terra transalpina: portare i documenti giusti gli permetterebbe di tornare in libertà, grazie a un accordo siglato anni prima da Italia, Francia, Spagna e Argentina. Il foglio necessario spunta dopo un paio d’ore, sul passaporto di Combin si legge: «Milano, 18 settembre 1969. Il titolare del presente passaporto, Nestor Aubin Combin, tiene in corso per interessamento di questo consolato generale la pratica del duplicato del suo libretto di arruolamento numero 6029941 nell’esercito francese. Alberto Julian Caride, console generale a Milano». Insieme al passaporto spuntano il libretto militare di Combin, un foglio di congedo e una cartolina precetto con l’indicazione del luogo dove presentarsi in caso di richiamo alle armi. Si è in piena notte, ma Combin rimane in stato di fermo. Bisogna aspettare il giudice federale di Rosario, il Milan smuove tutto quello che può, e il vicepresidente Sordillo arriva fino a Juan Carlos Ongania, il presidente argentino. A mezzogiorno è finalmente libero, e si scopre che nei suoi confronti era stata sporta denuncia dal magistrato di Rosario di Santa Fe, nel lontano 1963.

 

Per l’Argentina è il momento della vergogna. Il più duro è il già citato Ongania: «Come presidente della Repubblica ho osservato con sorpresa e grave preoccupazione il deplorevole spettacolo, in contrasto con le norme elementari di etica sportiva. Si è compromesso e danneggiato il prestigio argentino nel mondo con una condotta vergognosa, stigmatizzata da tutta la cittadinanza, la quale si rende conto che la cultura sportiva di tutto il Paese è stata offuscata da alcuni irresponsabili». Sull’onda di queste dichiarazioni, Aguirre Suarez, Manera e Poletti si costituiscono, mentre la Federazione argentina li sanziona rispettivamente con 30 e 29 giornate di squalifica (e cinque e tre anni di stop negli incontri internazionali), riservando ad Alberto Poletti la squalifica a vita, poi revocata.

 

Il Milan torna in patria, l’atterraggio è previsto a Malpensa dopo uno scalo a Lisbona. Oltre a Combin, è Prati a preoccupare, visto il trauma cranico rilevato dagli esami effettuati subito dopo il match. In Italia circolano voci incontrollate, secondo cui Pierino la peste sarebbe addirittura morto in volo. La moglie Anna vive ore drammatiche nello scalo lombardo, nonostante il tentativo dei dirigenti rossoneri di tranquillizzarla con le telefonate da Lisbona. L’abbraccio tra i due è commovente, i giornalisti chiedono a Prati un commento sulle sanzioni riservate ad Aguirre Suarez, Manera e Poletti. «Andavano fermati prima, questo non è più calcio». Combin racconta il suo incubo: «Appena sono entrato in campo hanno cominciato a sputarmi addosso, poi calci da tutte le parti, soprattutto quando avevo la palla. Aguirre Suarez è venuto spesso a insultarmi, avvisandomi che mi avrebbe spaccato una gamba. Per me erano drogati, altrimenti non si spiega la cattiveria, la premeditazione. C’è da vergognarsi a essere argentini. Se non fosse intervenuto il Presidente, sarei a Buenos Aires con una divisa militare addosso».

 

Sistematicamente, anche a distanza di quasi cinquant’anni, i protagonisti di quella notte da tregenda vengono interpellati per ricordare 90 minuti che sembrarono un’eternità. Lasciamo che sia Gianni Rivera a chiudere il discorso: «Estudiantes-Milan è la madre di tutte le finali ed è stato un grande successo tornare vivi. Avevano una cultura diversa del calcio. Sapevano che non potevano farci quattro gol in condizioni normali. Hanno creato la peggiore condizione ambientale, aggredendoci e facendo tutto quello che non si potrebbe fare nel calcio e neppure nella vita normale. Siamo stati bravi a non farci trascinare nella rissa, non so come sarebbe finita altrimenti. Forse non saremmo tornati vivi».

 

 

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Marco Gaetani è romano, classe 1987. Giornalista, si occupa prevalentemente di calcio, basket e ciclismo. Per 66thand2nd ha scritto “Roberto Mancini, senza mezze misure”.