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Point God, addio
25 nov 2025
Elogio del talento e della longevità di Chris Paul, ora che ha annunciato il ritiro.
(articolo)
8 min
(copertina)
IMAGO / ZUMA Press
(copertina) IMAGO / ZUMA Press
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A 40 anni e alla sua ventunesima stagione in NBA lo sapevamo già che sarebbe successo, ma sentirselo dire ha comunque fatto male: Chris Paul si ritira a fine stagione. Sono ormai tre stagioni che cambia squadra in estate, in un lungo funerale vichingo. Prima è andato a giocare col suo vecchio rivale Stephen Curry, poi agli Spurs del nuovo fenomeno Wembanyama per acclimatarsi all’idea di fare l’allenatore e infine ha chiuso il cerchio ai Clippers, la sua vecchia squadra.

Paul ha dato l’annuncio del ritiro quando ha capito di non poter veramente aiutarli, né in campo, né fuori, come maestro Yoda che prepara i giovani del futuro (che ai Clippers non ci sono). Non essere più in grado di aggiungere qualcosa, per uno con il suo orgoglio e la sua carriera, deve essere sembrato un insulto. Perché CP3 ha raggiunto l’eccellenza nelle tre fasi di una carriera NBA: da giovane rampante con New Orleans, a superstar con Los Angeles a venerabile maestro nelle ultime esperienze, soprattutto con Thunder e Suns. Un traguardo raggiunto da pochissimi altri, che però non gli è bastato per vincere il titolo.

Chris Paul, a meno di miracoli, che non avverranno, si ritirerà entrando nella lista di quei giocatori che hanno fatto la storia della NBA, senza però mai vincere il titolo. È in buonissima compagnia va detto: solo per fare qualche nome Charles Barkley, Allen Iverson, Steve Nash. Rispetto a loro Chris Paul non ha vinto neanche il premio di MVP, ma parliamo comunque di un giocatore di quel livello e per tante stagioni.

La sua longevità rende anche difficile stabilire quale sia stata la versione migliore di Chris Paul. Parliamo di un giocatore che ha quasi vinto il premio MVP nel 2008 e poi è arrivato alle NBA Finals da giocatore decisivo nel 2021, tredici anni dopo. Un giocatore che ha attraversato così tanto basket, che oggi è anche difficile ricordarsi la sua versione giovanile, quella dal primo passo bruciante e una verticalità nel salto irreale per quel fisico, grazie a una forza spaventosa nelle gambe e un baricentro particolarmente basso.

Paul ha posseduto tutte le arti di una point guard: poteva arrivare al ferro battendo l’avversario quando voleva, tirare dal mid-range, di cui è stato uno dei massimi esponenti, eseguire un pick and roll alla perfezione. Poteva segnare o far segnare, essere una minaccia in tutti gli aspetti del gioco, grazie a una velocità di pensiero fuori scala rispetto agli avversari. Sembrava una macchina costruita in laboratorio per vincere la classifica degli assist e quella delle palle rubate. Tant'è che ha chiuso per cinque stagioni in testa alla classifica degli assist e per sei in testa a quella delle palle rubate, e per due volte - nel 2008 e nel 2009 - è arrivato primo in entrambe.

È la serie dei playoff del 2008 contro gli Spurs di Duncan, Parker e Ginobili che ne lancia le ambizioni al trono di miglior playmaker della NBA. Gli Hornets lo hanno circondato di giocatori funzionali: Chandler come centro per portare blocchi e ricevere i suoi assist al ferro, Stojakovic come tiratore sui suoi scarichi, West come valvola di sfogo in post. A quella serie ci arrivano dopo aver battuto 4-1 Dallas. Contro gli Spurs perdono solo in gara-7, Paul chiude con una media di 24 punti, 11 assist, 5 rimbalzi e 2 rubate a partita.

Quella sembra una squadra in rampa di lancio, ma si mettono di mezzo gli infortuni. Lo stesso Paul è limitato da un brutto infortunio al menisco, che ne frenerà l’esplosività, restituendoci un giocatore diverso, comunque dominante.

Così dominante, che deve intervenire la NBA ad annullare la famosissima trade che lo avrebbe portato ai Lakers di Kobe Bryant, con cui avrebbe creato una delle coppie più forti nella storia del gioco. È un momento spartiacque per la NBA e per la sua carriera, visto che poco dopo finisce dall’altra parte di Los Angeles, ai Clippers. Qui è il braccio e la mente della memorabile Lob City. Paul è la mente di una squadra tanto divertente quanto forte, in cui alle braccia sopra il ferro di Blake Griffin e DeAndre Jordan, si aggiungono le triple di JJ Redick e la capacità di segnare entrando dalla panchina di Jamal Crawford. CP3 gestisce tutti, attivandoli di volta in volta come i tasti di un pianoforte. È lui che cambia il corso di una delle franchigie più sfigate della NBA, rendendola sexy e competitiva. L’intesa che raggiunge con Griffin e compagni è praticamente telepatica e ci ha regalato alcune delle giocate più belle del basket degli anni ‘10. All’apogeo della Lob City è ancora vicino a vincere il premio di MVP, nel 2012 arriva terzo dietro LeBron e Durant. Quando Chris Paul ha la palla in mano, si gioca al suo gioco nonostante sia sempre il più basso in campo.

Il titolo sembra solo questione di tempo, ma poi arriva un terremoto in NBA: Steph Curry e i suoi Golden State Warriors, con tutto quello che significa. Paul è quello che più subisce l’emergere di questa nuova forza: sia perché i Clippers soccombono nella rivalità con gli Warriors, sia perché Curry va ad occupare proprio il suo posto come simbolo di riferimento per come deve essere una point guard in NBA. Paul diventa allora, suo malgrado, l’alfiere della tradizione, il famoso playmaker-classico, che gioca a basket come dovrebbero farlo le point guard. Che poi, non è così: è stato proprio lui a dar via alla selezione naturale nel ruolo, dandogli un’impronta molto più moderna, prima di vedere gli epigoni di Curry la sua evoluzione.

Con l’avvento del tiro da tre punti il campo si allarga, la velocità aumenta e il suo stile di gioco diventa desueto. Paul è considerato “troppo” cerebrale, vede il gioco con tre mosse avanti all’avversario, ma sceglie quasi sempre quella meno rischiosa. I Clippers con lui al comando arrivano sempre tranquillamente ai playoff, ma poi si sciolgono: un vero e proprio meltdown contro i Rockets di Harden al secondo turno nel 2015, poi al primo turno contro i Blazers nel 2016 e al primo turno contro gli Utah Jazz nel 2017. Rimane però il giocatore che ha battuto gli Spurs di Leonard, Parker e Duncan campioni in carica nel 2015 con una gara-7 da ricordare.

Una delle più belle partite di playoff degli ultimi 15 anni, chiusa con il tiro decisivo "in faccia" a Tim Duncan, alla sua ultima partita.

È questa la fase in cui si trasforma in un “perdente di successo”, un leader che quando conta non sposta come le altre stelle della NBA. Un’etichetta che gli rimane attaccata anche negli anni successivi, nonostante stagioni sempre eccezionali per produttività ed efficienza. Paul infatti non si è mai fermato: negli anni ha aggiunto il tiro da tre punti al suo arsenale, ha continuato a vivisezionare difese sempre più grosse e veloci. Ai Rockets, insieme ad Harden, nel 2018 stabiliscono il record di vittorie in regular season della franchigia (65). Ai playoff, dopo due turni vinti facilmente, affrontano gli Warriors di Curry e Durant. È una serie intensissima, i Rockets vanno in vantaggio 3-2, ma Paul si infortuna e Golden State rimonta vincendo le ultime due partite. Gli infortuni al momento sbagliato sono forse il singolo più grande limite della sua carriera.

Dopo una stagione a fare il maestro di Shai Gilgeous-Alexander agli Oklahoma City Thunder, quando forse nessuno se lo aspettava più, Paul raggiunge le prime Finals della sua carriera, nel 2021 ai Suns. Siamo nella fase da venerabile maestro. Paul è il secondo violino di Booker, ma si può dire che è molto di più per quella squadra. Con un atletismo ormai ridotto al minimo, esce ancora più evidente la sua capacità di gestire tutto e tutti grazie alla sua intelligenza cestistica. Il percorso dei Suns in quei playoff è memorabile: prima eliminano i Lakers di LeBron, poi i Nuggets dell’MVP Jokic battuti 4-0, infine i “suoi” Clippers. Paul è ovunque. Chiude la partita decisiva per arrivare alle Finals con 41 punti, a cui aggiunge 8 assist e 4 palle recuperate a quasi 36 anni.

Ancora una volta, però, si mettono in mezzo gli infortuni. Paul arriva alle Finals contro i Bucks in condizioni tremende. I Suns vanno sopra 2-0, ma finiscono per perdere le successive 4 partite. Paul commette una serie di errori cruciali nella gara-5 giocata in casa, che indirizza la serie. Non gioca male, nel complesso, ma le scelte sbagliate in quel finale di partita rimangono come un macigno a confermare l’etichetta da perdente. Uno famoso per non sbagliare mai, che perde un titolo per degli errori.

A mettere la parola fine alla sua carriera ad alto livello ci pensa l’anno dopo Luka Doncic, nella disastrosa gara-7 che spazza via quella squadra, e cementifica l’immagine da perdente di Paul, chiudendo ogni ambizione da titolo.

Al suo meglio Paul ha rappresentato la sublimazione del concetto di point guard: è stato un playmaker dispotico, gli statunitensi hanno una definizione che calza a pennello per descriverlo ed è floor general, non a caso soprannominato Point God. Quando è in campo lui, i compagni sembrano muoversi come guidati dai suoi fili invisibili e gli avversari sembrano sempre un passo indietro. È rimasto probabilmente per tutta la carriera il giocatore più intelligente in campo, ma dall’arrivo degli Warriors le regole del gioco sono cambiate e da quel momento è stato lui a doversi adattare al gioco e non il contrario.

Nonostante questo da giocatore di intelligenza sublime qual è ci è riuscito anche meglio di quanto gli viene riconosciuto, nonostante il grande problema della stazza minuta e dell'atletismo sempre più carente. La sua trasformazione in cecchino anche oltre il mid-range non era scontata e va ricordata perché lo ha portato tra i grandi. Non ha vinto il titolo, ma è stato in grado di rimanere rilevante più a lungo di quanto il fisico doveva permettergli: questo gli va riconosciuto. L’assenza di un anello non toglie la realtà: Paul è stato la miglior forma possibile assunta da un playmaker con il fisico di un agente assicurativo.

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