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Chi ha perso il 2020
21 gen 2021
Marco Giampaolo, Novak Djokovic e gli LA Clippers, tra gli altri.
(articolo)
25 min
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Il 2020 è stato un anno negativo per tutti, ovviamente, anche per lo sport, che si è improvvisamente ritrovato in una crisi esistenziale che non pensava di dover affrontare. Nonostante la pandemia, comunque, la stagione sportiva è riuscita comunque ad andare avanti e con essa le sue inevitabili storie di fallimento. Qui trovate le più eclatanti, sempre considerando che una classifica è condannata di per sé ad essere incompleta.

Maurizio Sarri

Difficile credere che un allenatore che ha vinto il suo primo Scudetto nel 2020, dopo una gavetta più simile a un romanzo, possa essere considerato tra i perdenti dell’ultimo anno. Eppure, a pensarci, la reputazione dell’allenatore toscano è crollata negli ultimi 12 mesi, dopo aver toccato il picco quando nell’estate del 2019 la Juventus aveva deciso di puntare su di lui per il dopo Allegri.

Sarri ha guidato la Juventus al suo nono scudetto consecutivo ma non è quasi mai riuscito a dimostrare perché fosse stato scelto, e cioè per la sua capacità di costruire una squadra con un gioco accattivante e moderno. In un anno difficile, Sarri non ha mai trovato la perfetta quadratura tra la necessità attaccare in ampiezza e quella di restringere il campo. Raramente la Juventus ha mostrato un calcio esaltante, continuando a vincere le partite per la superiorità dei suoi migliori giocatori. L’esonero è arrivato dopo l’eliminazione agli ottavi di Champions con il Lione, un doppio confronto in cui i bianconeri hanno giocato male, ma che è stato anche disputato a cavallo tra due ere, in pratica, con l’andata a marzo e il ritorno in agosto, e in mezzo una pandemia.

Anche la scelta frettolosa di allontanare Sarri subito dopo la partita con il Lione non è sembrato un buon segno: si è parlato di problemi con lo spogliatoio (le immagini dei festeggiamenti per lo scudetto con l’allenatore ai margini sono abbastanza indicative) e di un’incapacità di adattarsi al cosiddetto stile Juventus. Ma forse il vero motivo per cui Sarri ha perso, più per un'esperienza storta da tutti i punti di vista da cui comunque ha ricavato uno Scudetto, è per la sensazione che potrebbe aver perso il treno dei top club. In estate si è parlato di lui solo per un suo possibile approdo sulla panchina della Fiorentina e nei prossimi mesi è difficile pensare possa finire ad allenare una delle migliori squadre del mondo.


Vincenzo Nibali

Nell’ultimo decennio il ciclismo italiano si è appoggiato quasi interamente sulle vittorie e il talento di Vincenzo Nibali. Fra alti e bassi, il ciclista siciliano si è portato sulle spalle il peso del nostro intero movimento e non è un caso che le emozioni più memorabili di questo periodo siano indissolubilmente legate alle sue vicende.

Ci siamo appoggiati alle sue vittorie quando non volevamo vedere il vuoto che si stava aprendo alle sue spalle, in un cambio generazionale che tarda ad arrivare. Ma nel 2020 Nibali non è riuscito, per vari motivi, a confermarsi sui livelli a cui ci aveva abituato durante tutta la sua carriera. Uno dei motivi, forse il principale, è l’età che avanza inesorabilmente. Nibali ormai ha 36 anni, non ha più l’esplosività di un tempo che gli ha consentito in questo decennio di essere competitivo anche nelle corse di un giorno. E da un punto di vista della resistenza, della tenuta fisica sulle lunghe distanze, sembra che Nibali abbia perso fisiologicamente qualcosa.

Ma il vero fattore per il suo 2020 così clamorosamente anonimo è da ricercare nello stravolgimento del calendario in seguito alla lunga pausa causata dalla pandemia. Se per un giovane questo stravolgimento poteva essere superato con più facilità, per un ciclista di 36 anni, abituato a un determinato calendario, adattarsi a questa situazione e recuperare la forma dopo quasi cinque mesi di stop è stato pressoché impossibile. E così, la stagione di Nibali è stata contraddistinta da un triste anonimato condito con un 7° posto al Giro d’Italia che per alcuni sarebbe oro colato, ma che per lui (e vista la concorrenza tutt’altro che impossibile) è stato l’ennesimo risultato deludente in una stagione da dimenticare.


I tifosi

In un anno in cui ci siamo lentamente e tristemente abituati all’eco dei palloni, alle urla dalle panchina, alle discussioni tra arbitri e giocatori, c’è stato un momento in cui il calcio è miracolosamente uscito dall’iperrealtà in cui non ci fa più così strano vederlo. Era il 6 dicembre e il governo Johnson, con una decisione con il senno di poi tanto commovente quanto incosciente, aveva temporaneamente riammesso una piccola frazione di tifosi negli stadi inglesi, a Liverpool ad esempio duemila. Un gruppo di persone che in qualsiasi altro momento ci sarebbe sembrato irrilevante (calcolando che Anfield ne può ospitare più di 53mila), e che invece dopo l’anno che abbiamo passato ci ha dato il peso di quest’assenza che prima non ci saremmo nemmeno mai sognati di dover quantificare.

Vedere Liverpool-Wolverhampton è stata un’esperienza dal calore straniante e nostalgico - forse la cosa più simile che ci possa essere in uno stadio alla sindrome dell’arto fantasma, quella “sensazione anomala di persistenza di un arto dopo la sua amputazione”. Da una parte è stata subito evidente la differenza rispetto alle altre partite che avevamo visto nel 2020 (anche nelle esultanze dei giocatori), dall’altra abbiamo provato una nuova sensazione di repulsione a rivedere così tante persone ammassate in così poco spazio (che poi, se ci pensate, è proprio quello ciò che intendiamo quando parliamo di stadio). È probabile che questo sentimento ambivalente non ci abbandonerà con il coronavirus e che il nostro rapporto con il pubblico (da spettatori dal vivo o da casa) non tornerà mai quello di prima. Di sicuro potremo tornare tutti allo stadio tra non molto tempo, ma quando torneremo a percepirlo come qualcosa di normale? In questo senso, il 2020 potrebbe metterci molto di più a passare dei canonici 365 giorni che ci abbiamo messo per mettercelo alle spalle.


Christian Eriksen

Il 29 gennaio del 2020 l’Inter presentava l’acquisto di Christian Eriksen con un video enfatico girato dentro la Scala che mostrava il trequartista danese sdraiato sul pavimento, dormiente, mentre una voce fuoricampo apriva un monologo con le parole: «I sogni possono portarti dove non sei mai stato prima». Oggi, a quasi un anno di distanza, possiamo dire che quella frase è stata profetica, ma non nel modo in cui i tifosi dell’Inter e gli amanti delle giocate di Eriksen si aspettavano. Effettivamente, nessuno si sarebbe mai immaginato che il trequartista danese sarebbe finito perennemente in panchina, spaesato nei pochi minuti che gli sono stati concessi in campo, quasi bullizzato personalmente da Antonio Conte, che ha fatto di tutto per fargli capire che la sua presenza a Milano non era più gradita.

Come ha scritto Emanuele Atturo: «Non solo Eriksen non gioca, ma Conte tenta di svuotarne l’interiorità con una manipolazione psicologica neanche troppo sottile. In sostanza aspetta che la partita arrivi agli ultimi minuti, poi lo lascia scaldare e quando si arriva agli ultimissimi minuti lo lascia entrare. Lascia che le telecamere inquadrino il suo viso, che i telecronisti si trovino costretti a commentare quel momento con imbarazzo. Solo ai giovani della Primavera tocca entrare nei minuti di recupero, per un giocatore del suo spessore invece equivale alla pratica del pubblico ludibrio».

Oggi è quasi grottesco ricordarsi di quelli che dovevano essere i segni dell’alba dell’esperienza di Eriksen all’Inter, e che invece sono rimasti come le rarissime tracce del trequartista danese sul suo 2020 maledetto. Il gol all’esordio in Europa League contro il Ludogorets, la rete direttamente da calcio d’angolo (la prima di un giocatore dell’Inter dai tempi di Recoba, nel 2007) che aveva riaperto la semifinale di Coppa Italia contro il Napoli, il bell’assist per Lukaku contro la Sampdoria nella scorsa stagione, in una delle pochissime partite di campionato in cui è partito da titolare. Questi momenti sbiaditi ormai giacciono sotto la coltre di incomprensioni e rancore che si è posato nel tempo sul suo rapporto con Conte. Dopo la netta vittoria contro la Juventus per 2-0, ha fatto impressione rivedere il viso quasi imbarazzato di Eriksen nella foto delle celebrazioni post-partita, come se fosse uno spettro riesumato in una casa che non gli appartiene più. Il trequartista danese sta cercando disperatamente una nuova squadra (si è parlato soprattutto di un ritorno al Tottenham o di un approdo al PSG, dove ritroverebbe il suo mentore Pochettino) che trasformi questa sensazione in realtà.


Krzysztof Piatek

Esultava scivolando con le ginocchia sul prato, braccia incrociate, le dita trasformate in canne di pistole fumanti. Segnava spesso, in tutti i modi. Vinceva partite da solo, spostava più in là l’asticella delle nostre aspettative. Poi è arrivato il 2020. A dire il vero da qualche mese i gol di Piatek si erano diradati, i suoi difetti erano diventati troppo più evidenti dei suoi pregi. Non succede spesso, ma ogni tanto succede: alcuni giocatori, quasi da un giorno all’altro, sembrano essere privati dei loro poteri senza alcuna spiegazione logica evidente. Nel 2020 al Milan è arrivato Zlatan Ibrahimovic: una Lamborghini rispetto alla quale Piatek è sembrato una Fiat Duna. Il 27 gennaio ha giocato, nel contesto periferico della Coppa Italia, la sua ultima partita con la maglia del Milan. Tre giorni dopo si è trasferito all’Hertha Berlino. Da quel giorno il suo rendimento non è stato disastroso come in rossonero, ma il fatto che si sia, come dire, “normalizzato”, è quasi peggio. Oggi Piatek è un attaccante di riserva di una squadra di mezza classifica in Bundesliga. Ogni tanto risolve qualche partita, il più delle volte non combina niente. Non è il calciatore più talentuoso della sua squadra, neanche uno dei tre più talentuosi. Non ci si aspetta più niente da lui, se non che - rievocando un antico istinto - ogni tanto segni un gol.

Eppure ogni tanto si parla ancora di lui in chiave mercato. La Fiorentina, ora persino la Juventus, sembrano interessate al giocatore. Come se rincorressero la vecchia immagine di Piatek onnipotente, che ora però non esiste più.


Novak Djokovic

Immaginavamo Novak Djokovic in disparte in un angolo ad allisciarsi dei baffi immaginari, tramando nell’ombra. Il 2020 doveva essere il suo anno, quello in cui sarebbe diventato il tennista più vincente della storia. C’erano veramente pochi indizi per credere che non sarebbe successo, con Federer semi-ritirato e Nadal non al meglio della forma. A gennaio ha iniziato a divorare i suoi avversari. Alla ATP Cup ha portato la Serbia in finale, dove ha maciullato la Spagna di Rafa Nadal. Agli Australian Open - casa sua, di fatto - gli avversari gli si sono sgretolati davanti come un castello di sabbia. Sembrava un predatore, uno che si stava prendendo le sue cose con la disperazione della fame.

Poi è arrivata la pandemia, e forse nessun tennista è andato più fuori controllo di lui. Durante il lockdown ha aperto Instagram e mandato in onda dirette con i suoi amici santoni, per dimostrarci di poter modificare le molecole dell’acqua col solo pensiero. Sapevamo che era un po’ pazzo, ma non così pazzo. Ha dichiarato che avrebbe rifiutato il vaccino obbligatorio per il Covid, poi ha organizzato un torneo di tennis accompagnato da blande misure sanitarie. Il famigerato torneo di Adria è stato uno dei momenti più grotteschi dello sport del 2020, ma non ha niente di casuale, anzi: ha la forma degli incubi di Djokovic.

Foto con i fan senza distanziamento, pubblico presente senza mascherine, feste in discoteca a torso nudo con le bandiere serbe sventolanti. Immagini che hanno messo a disagio chiunque. Come contrappasso inevitabile, Djokovic è risultato positivo al Covid insieme ad altri tennisti politicamente affini a Nole: Grigor Dimitrov, Victor Troicki, Borna Coric. All’inizio Djokovic si era persino rifiutato di sottoporsi al tampone. Poi sono arrivate le scuse: Djokovic con la coda tra le gambe, stranamente scosso, per una volta non in pieno controllo di sé. Confuso, spaesato. Anche stavolta la realtà ha preso la forma del suo cervello, ma per una volta si è reso conto forse che quella forma poteva essere tossica per gli altri.

Il tennis è uno sport che nasce prima dalla testa che dalla racchetta. Figuriamoci per Djokovic, che ha trasformato questo sport in una specie di esercizio di telecinesi. Non sappiamo quanti fattori contribuiscono alla solidità psicologica in campo dei tennisti, fatto sta che le certezze di Djokovic hanno cominciato a sgretolarsi lentamente, per poi crollare in modo spettacolare.

Quarto turno degli US Open, Djokovic deve giocare una partita con Pablo Carreno Busta che sembra di passaggio. C’è un primo set piuttosto tirato, ma niente di troppo teso, Nole è comunque in vantaggio quando tira una pallina verso i teloni di fondo. Un gesto di routine dei tennisti che restituiscono la palla ai raccattapalle. Questa pallina però non è né lenta né bassa e colpisce alla gola una giudice di linea. Sentiamo un piccolo grido, la donna accasciarsi a terra portandosi le mani al collo, colpita e spaventata. Verrà portata in ospedale per difficoltà respiratorie. È stato un momento bizzarro, in grado di stravolgere lo schema esperienziale di una partita di tennis, fatto di molti momenti morti e di piccole ritualità rassicuranti. È stato anche un momento di grande ambiguità: Djokovic voleva davvero colpire la giudice di linea? Questo dovrebbe o non dovrebbe fare la differenza?

Di certo un tennista professionista calibra i propri gesti, anche i più involontari, all’interno di una mappa percettiva - quella del campo - che conosce alla perfezione. Anche senza indugiare nello psicologismo, una parte del cervello di Djokovic probabilmente voleva compiere un gesto irrituale, mandando la pallina in una zona del campo dove sa di non dover colpire. Una spia del fatto che Nole non era perfettamente sereno, che c’era un piccolo nugolo di rabbia da dover espellere da qualche parte?

Si è subito reso conto del guaio: colpire un ufficiale di gara comporta la sconfitta e la squalifica dal torneo. Djokovic ha accettato il verdetto dicendosi triste e rammaricato, mentre i contorni del suo personaggio da villain si facevano sempre più definiti. C’è un altro risvolto. Per un uomo criticato per avere una scarsa considerazione delle donne, colpire una donna con una pallina non è certo una grande pubblicità. Il suo percorso al Roland Garros è ineluttabile fino al terzo set della semifinale con Stefanos Tsitsipas. In quel momento qualcosa pare rompersi. Il greco rimonta prendendosi uno spazio che il serbo di solito non concede a nessuno. Poi perde, ma Djokovic è invincibile finché non lo è più. In finale viene demolito da una prova magistrale di Nadal, che al Roland Garros pratica semplicemente un altro sport, di cui lui solo conosce codici e dinamiche.

La terra francese non è il suo territorio di caccia, ma sul cemento indoor delle Finals può rifarsi. Prima fa in tempo a perdere da Lorenzo Sonego a Vienna. A Londra succede che perde nettamente contro Medvedev, e poi combattendo contro Thiem, ma perde. Perde in modo chiaro partite in cui non riesce a entrare, perde in modo tirato partite che un tempo non avrebbe mai perso. Questo non significa che Djokovic è finito: a 33 anni, con la nuova età biologica del tennis, è praticamente un ragazzo. Nel 2020 però il suo percorso ha subito una battuta d’arresto imprevista e spettacolare, mostrando una fragilità schizoide che forse non immaginavamo possibile. Tutti elementi che hanno aumentato le sfaccettature di un personaggio a suo modo drammatico, di certo il più interessante del mondo del tennis, e da cui ci si aspetta un grande 2021.


La Ferrari

Il 2020 è stato l’anno zero della Scuderia Ferrari, sotto ogni punto di vista: sportivo, manageriale e comunicativo.

La Ferrari non solo non ha vinto un singolo Gran Premio, non ha neppure mai concluso un singolo giro in testa. Eppure, di occasioni, Mercedes e Red Bull ne hanno lasciate sul campo, ma ci hanno pensato outsider come Alpha Tauri e Racing Point ad accaparrarsele. La Ferrari non è mai andata così male in un Mondiale di Formula 1, ad esclusione della singola stagione del 1980, poco più di 40 anni fa.

Il progetto tecnico portato in pista si è rivelato subito non competitivo, al punto che già dopo i 6 giorni di test invernali, Mattia Binotto, Team Principal della Ferrari, ha iniziato a raffreddare le aspettative dei tifosi. È difficile anche solo stabilire una singola causa del naufragio del progetto. La macchina avrebbe dovuto avere una disponibilità infinita di carico aerodinamico, almeno nelle intenzioni. Il carico sarebbe stato poi rimodulato nelle piste più veloci, che è un po’ la filosofia di Red Bull. Nei fatti la macchina aveva più resistenza all’avanzamento che carico, risultando lenta in rettilineo e inguidabile nelle curve. C’è poi tutta la questione che riguarda il motore, intorno alla quale si è tenuta un’aura da spy story. Nel giro di un anno, il propulsore Ferrari ha perso la bellezza di 100 cavalli, secondo le stime, e questo per via di un’irregolarità trovata dalla Federazione Internazionale. In cosa consisteva la violazione di regolamento e quanta parte dei 100 cavalli sia recuperabile già dal prossimo anno, non è dato sapere.

Il progetto tecnico è il frutto di un albero malato. Il management della Ferrari ha imboccato una serie di decisioni sbagliate, alcune quando ancora c’era Sergio Marchionne alla guida. Una macchina da corse è un oggetto complesso, al suo sviluppo partecipano centinaia di persone. Riunire le responsabilità del coordinamento di queste persone sotto un unico capo, secondo un organigramma piatto, s’è rivelato un errore. L’assenza di investimenti nel simulatore di guida ha penalizzato gli sviluppi in corso d’anno e la preparazione degli assetti di pista in pista. La scelta di avere solo tecnici italiani forse nasconde la difficoltà di pescare sul mercato i talenti migliori. Aver avuto una mente illuminata in ambito Automotive alla guida di Ferrari non ha dato nessuna garanzia in fatto di Motorsport.

Affidare la direzione sportiva a Mattia Binotto è un errore che tante aziende italiane commettono, quando credono di poter fare di un eccellente tecnico un altrettanto eccellente manager. Un top manager ha nella comunicazione uno dei suoi punti di forza, Binotto invece ha fatto errori marchiani. Ha iniziato l’anno gestendo malissimo l’uscita di un quattro volte campione del mondo, Sebastian Vettel, di fatto messo alla porta prima che il Mondiale 2020 iniziasse e senza uno straccio di spiegazione plausibile. Lo ha concluso promettendo di fatto il sedile di Carlos Sainz a Mick Schumacher, durante la conferenza stampa di presentazione di Carlos Sainz.

Il 2021 sarà per Ferrari un anno di passione, potrà essere migliore del 2020 soltanto perché sarà difficile scendere più in basso di così.


Arkadiusz Milik

Difficile ricordarselo oggi, dopo che non ha visto il campo per quasi sei mesi, ma Milik non aveva mai fatto così bene a livello realizzativo come nella stagione 2018/19: 20 gol stagionali, di cui 17 in campionato. All’inizio della stagione 2019/20, numeri alla mano, era lecito attendersi che l’attaccante polacco potesse finalmente affermarsi come il degno erede di Higuain, realizzando il sogno per cui era stato comprato. Eppure già nell’estate del 2019 la sua permanenza a Napoli era stata messa in discussione, in un modo incredibilmente simile a come accadrà un anno dopo, quando la frattura con il club di Aurelio de Laurentiis diventerà insanabile.

Allora si parlava di un incastro di mercato che avrebbe portato Icardi al Napoli, Milik alla Roma e Dzeko all’Inter che si dissolse alla fine di agosto, lasciando però nell’aria presagi funesti sul futuro della punta polacca al fu San Paolo. Milik ha saltato una buona fetta della prima parte di stagione per via di alcuni indelebili problemi muscolari (pur continuando a segnare con grande continuità: 7 gol in 10 partite giocate nel girone d’andata), e quando nel 2020 sembrava finalmente arrivato il tempo di tornare in campo per convincere Napoli - la squadra, il club, la piazza - della propria legittimità come numero 9 degli “azzurri”, il campionato è stato interrotto per la pandemia di Covid-19.

La storia, come si dice, non si fa con i se e con i ma. Immagino, però, che molti se e molti ma avranno abitato la testa di Milik quest’estate, che sarebbe dovuta essere quella del rinnovo del suo contratto, con i suoi gol a pesare sul tavolo delle trattative, e che invece ha passato spesso in panchina, con solo due reti segnate da quando la Serie A è ufficialmente ripresa. Con il contratto ormai prossimo alla scadenza, è sembrato quasi naturale che Milik si ritrovasse intrappolato in quelle stesse identiche voci di mercato che avevano infestato anche l’agosto dell’anno prima. Una serie di conferme e smentite senza fine, che lo hanno visto prima a un passo dalla Juventus e poi a un passo dalla Roma, fino a ritrovarsi due passi fuori dalle liste del Napoli. Oggi, dopo sei mesi che ne hanno fatto lentamente svanire il ricordo, Milik sembra ormai un giocatore di un Marsiglia in crisi alla ricerca di un attaccante che lo salvi da un grigiore da cui non riesce ad emergere. Chissà, quella che oggi ci sembra una notizia di mercato insapore potrebbe essere l’inizio di una storia d’amore inaspettata. Di sicuro, per Milik, sarebbe la fine di un 2020 da dimenticare in fretta.


Gli L.A. Clippers

Nel momento stesso in cui Kawhi Leonard e Paul George hanno deciso di unire le forze e giocare per i Clippers, la storyline principale della NBA è diventato il loro derby di Los Angeles contro i Lakers - che peraltro fino all’ultimo erano convinti di avere una chance di mettere Leonard al fianco di LeBron James e Anthony Davis, aggiungendo un ulteriore layer alla loro nascente rivalità. Lungo tutta la regular season le due squadre si sono “annusate” e punzecchiate da lontano, con i loro incontri che si sono immediatamente presi gli slot più importanti del calendario (opening night e Natale su tutti) e la lega che ha messo in moto la sua impressionante macchina di marketing per “pompare” un loro incontro ai playoff che appariva inevitabile.

Nonostante la sospensione della stagione legata al coronavirus, tutto sembrava apparecchiato affinché le due squadre si affrontassero in classifica, in una serie che tutto il mondo NBA aspettava da praticamente un anno. I Clippers, però, hanno pur sempre scritto Clippers sulla maglia e hanno trovato un modo davvero molto Clippers per mandare tutto in frantumi. Perché non solo hanno sprecato una posizione di 3-1 nella serie contro i Denver Nuggets, ma hanno buttato via un vantaggio in doppia cifra in ciascuna delle ultime tre sconfitte - sciogliendosi in maniera sempre più imbarazzante e diventando il bersaglio principale delle battute di tutta la NBA. Se si dovesse riassumere il loro 2020 in un’immagine, sarebbe certamente il “palo” colpito da Paul George nel quarto quarto di gara-7 contro Denver, il nadir di una prestazione da 4/16 al tiro con 2/11 da tre.

Paul George qualche anno fa si era auto-soprannominato “Playoff P” nonostante il suo curriculum in post-season non fosse poi così eclatante. Dopo questa prestazione, è diventato “Pandemic P”.

Neanche LeBron James, dopo aver vinto il titolo nella bolla, è riuscito a trattenersi: «Erano nella posizione migliore per realizzare finalmente l’obiettivo che avevano sbandierato in lungo e in largo per tutto l’anno: affrontarci e batterci ai playoff. E ancora oggi non riesco a capire, anzi faccio fatica proprio a realizzare, come non siano riusciti ad afferrare quell’opportunità quand’era ormai quasi cosa fatta, sopra 3-1». I Clippers hanno poi chiuso il loro anno orribile prendendo 50 punti in un tempo dai Dallas Mavericks due giorni dopo Natale, una partita che - nonostante il resto della stagione sia stato più che soddisfacente - li ha resi di nuovo bersaglio delle prese in giro del mondo NBA. Perché non importa quello che fanno: fino a quando non vinceranno un titolo, i Clippers saranno sempre considerati la squadra più sfigata della NBA. Ma nel 2020 si sono proprio impegnati molto.


Marco Giampaolo

Giampaolo è stato esonerato dal Milan l’8 ottobre 2019, quindi non è che il 2019 fosse finito alla grande, ma almeno il suo successore, Pioli, non era sembrato in grado di fare molto meglio, spostando il focus dalle colpe dagli allenatori alla rosa (e quindi anche della società). Nel 2020 però il Milan è diventato, numeri alla mano, una delle migliori squadre d’Europa, trovando con Pioli (e Ibrahimovic, arrivato a gennaio) un’identità di gioco peculiare oltre che vincente.

Mentre quello che doveva essere il suo Milan brillava come una supernova nelle mani di un altro, Giampaolo in estate aveva accettato la corte del Torino, sempre alla ricerca di un progetto in grado di stabilirlo nella media borghesia del calcio italiano. Quello tra il Torino e Giampaolo fin dall’inizio non era apparso come un matrimonio ideale, tra un allenatore abituato negli ultimi anni a giocare con il 4-3-1-2 e una squadra che negli ultimi anni aveva costruito una rosa per un gioco diverso.

Il Torino aveva fatto un mercato impegnativo, ma non brillante, eppure nessuno poteva aspettarsi un Torino così catastrofico. Fin dall’inizio del campionato si è assestato intorno alle ultime posizioni con il solo Belotti a dare segni di vita. Giampaolo ha addirittura abiurato al suo credo passando dalla difesa a 4 a quella a 3 senza però migliorare la propria situazione, neanche con successi morali come nel derby, quando la squadra è stata rimontata dopo essere andata in vantaggio (subire rimonte è stata una costante del Torino di Giampaolo). La chiosa della sua esperienza, arrivata nel 2021 a dire il vero, è stata più tragica che mai: dopo un pareggio con lo Spezia nonostante la superiorità numerica per 82 minuti di gioco, Giampaolo ha provato a giustificare le difficoltà avute con la necessità di fare la partita, una caratteristica non della sua squadra. Per tutti è sembrato dicesse che avere un uomo in più li avesse penalizzati. Due giorni dopo è stato esonerato.


Il Parma

Immaginate di avere una squadra che al secondo anno in Serie A migliora il proprio rendimento. Guadagna tre posizioni e otto punti rispetto la stagione precedente. Immaginatela esprimere un’identità tattica chiara, capace di mettere in difficoltà squadre più forti e di esaltare il talento a disposizione. Immaginatela migliorare persino il proprio gioco: alzarsi un po’ sul campo, prendere coraggio, sperimentare cose nuove, e riuscirci. Immaginate la proprietà di questa squadra, a fine anno, cacciare allenatore e direttore sportivo e sostituirli in blocco - una nuova proprietà, a dire il vero. Assumere un allenatore interessante ma dall’efficacia contestabile in Serie A (insomma: Liverani era pur sempre retrocesso col Lecce), fare un mercato in cui non viene sostituito il proprio miglior giocatore della stagione prima (Kulusevski, tornato dal prestito). A quel punto, come ve la immaginate in classifica?

C’erano tutte le premesse per cui il Parma di Liverani diventasse un fallimento clamoroso, e infatti lo è stato. O per lo meno, 12 punti e 13 gol segnati in 16 partite bastano a decretare un fallimento? La storia dell’addio di Roberto D’Aversa e Faggiano al Parma è una delle più clamorose sul management dei club italiani, ma la sua assurdità è così spiccata che è difficile credere che sia tutto lì, che non ci sfugga qualcosa di cui non siamo realmente a conoscenza.


Kyrie Irving

Il 2020 doveva essere l’anno in cui Kyrie Irving rimetteva in sesto la sua reputazione ai Brooklyn Nets, dopo un passaggio non proprio felice ai Boston Celtics. In attesa del ritorno di Kevin Durant dopo la rottura del tendine d’achille, gli era chiesto di prendere per mano un roster giovane ma interessante e di portarlo verso la stagione successiva, quando avrebbero dovuto competere per l’anello. Dopo un buon inizio, però, Irving era tornato a mostrare i vecchi problemi: prima di tutto gli infortuni, che praticamente gli hanno fatto saltare tutto il 2020, ma anche un rapporto con i compagni e l’allenatore non proprio idilliaco, tanto che si è vociferato che ci fosse lui dietro il licenziamento di Atkinson arrivato a marzo, prima che la pandemia fermasse la NBA.

Questa nuova stagione non è iniziata al meglio. In pre-stagione Irving è stato autore di uno sciopero verso i giornalisti, rifiutandosi di rilasciare dichiarazioni almeno fin quando non è intervenuta la NBA a fargli cambiare idea, ma soprattutto sparendo all’improvviso per non specificate questioni familiari. Proprio mentre era assente dal campo, è stato ripreso in video mentre partecipava alla festa della sorella con altre persone senza mascherina, infrangendo i rigidi protocolli della NBA e ricevendo una multa salata (dovuta anche alle partite saltate). Nel frattempo i Nets hanno aggiunto al loro roster James Harden, spostando gli equilibri della squadra. Se nel 2019 l’idea era che Irving e Durant avrebbero dovuto rendere Brooklyn una contender, ora è più facile immaginare come siano Durant e Harden i due giocatori principali della squadra. Tuttavia stiamo parlando di tre dei migliori giocatori di basket del pianeta e non c’è nessuna ragione perché le cose non debbano funzionare. Se il 2020 è stato da dimenticare, il 2021 - se Irving avrà voglia di dedicarsi completamente al basket - potrebbe essere l’anno del riscatto.


Tony Ferguson

La prima volta Khabib si è rotto una costola in allenamento. La seconda volta Tony ha avuto problemi ai polmoni. La terza, Khabib è finito all’ospedale durante il taglio del peso. La quarta, Tony è inciampato in dei cavi e si è rotto i legamenti del ginocchio. Ad aprile 2020 era in programma il “quinto” incontro tra Nurmagomedov e Ferguson e ci si chiedeva cosa sarebbe successo stavolta, perché evidentemente una forza invisibile voleva evitare che i due si affrontassero nell’ottagono. Ci ha pensato una pandemia, che ha bloccato Nurmagomedov in Dagestan e costretto Ferguson ad affrontare la miglior versione mai vista di Justin Gaethje, che lo ha mandato KO alla fine di cinque durissime riprese.

Tony Ferguson veniva da 12 vittorie consecutive, non perdeva un incontro da sette anni. Sul piano umano però aveva dato segnali preoccupanti. Un anno prima erano emersi i dettagli che avevano portato la moglie a rivolgersi alle autorità: tra le altre cose: una notte ha portato la moglie e la figlia di due anni in mezzo al deserto, sicuro che sarebbe arrivata un’alluvione; in un’altra occasione ha distrutto i muri della propria casa sicuro che ci fosse una porta nascosta. L’incontro con Gaethje ha segnato l’inizio di quella che, oggi, sembra la sua fine sportiva. «Tornerà a combattere e qualcun altro lo batterà di nuovo», ha commentato Nurmagomedov, «Perché quando subisci tutti quei danni non sei più la stessa persona».

E Khabib aveva ragione: il 12 dicembre Tony è tornato a combattere con Charles Oliveira ed è stato completamente dominato per tre riprese passate prevalentemente a terra. Alla fine della prima, Oliveira ha provato a finalizzarlo con un armbar, e con il braccio in iperestensione e sul punto di rompersi Ferguson non ha battuto, salvato alla fine di lunghissimi secondi dalla sirena. Vederlo nelle riprese successive, senza più poter usare quel braccio, è sembrato davvero vulnerabile e prossimo alla fine.

Magari non è così e a 36 anni ha ancora delle sorprese in serbo, ma il 2020 è stato un anno tremendo per Tony Ferguson e per noi. Ha perso per sempre la possibilità di combattere con Khabib, che nel frattempo è entrato nella leggenda, e forse ha cominciato la parte discendente della propria parabola.




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