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Federico Principi
Che fine ha fatto Quinzi?
27 lug 2016
27 lug 2016
Come sta la più grande promessa del tennis italiano, e soprattutto: è ancora una promessa?
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Federico Principi
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Mentre il 5 giugno del 2010 Francesca Schiavone vinceva il Roland Garros - 34 anni dopo l'ultimo trionfo azzurro in un Major firmato da Adriano Panatta, sempre a Parigi - l'ambiente tennistico stava seguendo da più o meno vicino le prestazioni di un giovanissimo ragazzo di Porto San Giorgio di soli 14 anni, pupillo di Nick Bollettieri.

 

Gianluigi Quinzi all'epoca era considerato il grande nome che avrebbe rappresentato la rinascita del tennis maschile italiano e che avrebbe potuto riportare in Italia qualche trofeo dello Slam anche nel settore degli uomini, a braccetto con i successi del settore femminile. La sua crescita è stata imperiosa e costante nei piani alti del tennis juniores, coronata dalla vittoria del torneo giovanile di Wimbledon nel 2013, con il quale ha affiancato nell'albo d'oro campioni come Roger Federer, Stefan Edberg, Björn Borg e Ivan Lendl, ma - bisogna precisare - anche numerosissimi casi di flop tra i professionisti - chi ricorda Florine Mergea, Thiemo De Bakker o Martin Fucsovics?

 

A distanza di anni si è di nuovo tornato a parlare di futuro del tennis italiano, sebbene con toni completamente diversi. Il ritiro di Flavia Pennetta e quelli imminenti di Schiavone e Vinci, la scissione della famiglia Giorgi dalla Federazione, l'età avanzata di Seppi, la lungodegenza di Bolelli, hanno aperto una fase interlocutoria e creato allarmi. Nel frattempo i risultati di Quinzi hanno continuato a deludere, fino a creare quasi un clima di abbandono, considerandolo ormai quasi un ex prospetto e portando avanti con più insistenza le candidature di altri profili, teoricamente anche meno dotati, come Napolitano, Donati, Sonego, Pellegrino.

 

 



 

L'opinione pubblica ha cavalcato l'onda della precocità di Quinzi nei successi nel circuito giovanile e con la stessa fretta lo ha etichettato come "bruciato", insistendo fin troppo sul paragone diretto con altri suoi più o meno coetanei (Coric,

,

, Edmund, Kokkinakis prima dell’infortunio) ora già stabilmente in top 100. Non si è tenuto conto del fatto che non è per forza automatico esplodere prima dei 20 anni e che magari Quinzi - per caratteristiche tecniche, fisiche o di personalità - potrebbe avere bisogno di più tempo per liberare il proprio talento.

 

Nato a Cittadella il primo febbraio del 1996, Gianluigi Quinzi è cresciuto nel circolo (presieduto dal padre Gianluca) del paese dove è poi vissuto e vive attualmente (Porto San Giorgio, nelle Marche). Dopo aver provato alcuni sport da bambino tra cui lo sci alpino, con buoni risultati, a sette anni decide di dedicarsi esclusivamente al tennis e già un anno dopo Nick Bollettieri gli offre una borsa di studio nella sua famosa Academy a Bradenton, in Florida.

 

Quinzi sale alla ribalta nazionale e internazionale vincendo il prestigioso Trofeo Bonfiglio nel 2012 - a 16 anni in un torneo under 18 - distruggendo tra l'altro Borna Coric in semifinale, e la Coppa Davis Junior nello stesso anno, vincendo in finale il singolare contro Thanasi Kokkinakis e trionfando in coppia con l'altra promessa Filippo Baldi nel doppio decisivo sugli australiani. L'anno successivo vince l'edizione junior di Wimbledon sconfiggendo Kyle Edmund in semifinale e Hyeon Chung in finale: la popolarità schizza alle stelle e i tempi per l'ascesa tra i professionisti sembrano imminenti. Le successive difficoltà - con un best ranking tuttora fermo alla posizione 301 e i primi due top 100 battuti solo quest'anno - hanno invece arrestato questo processo di crescita.

 


Trionfo sul campo 1 di Wimbledon.


 

Quando vinse Wimbledon, Quinzi si presentava come un ragazzo alto e fisicamente più sviluppato dei suoi coetanei (oggi si è assestato a 1,91 m). Nonostante dicesse di ammirare Nadal e molti lo accostassero ingiustamente per caratteristiche tecnico-tattiche allo spagnolo, Quinzi aveva in comune con lui solo l’essere mancino. Era invece un giocatore diverso, sia nell'esecuzione dei colpi che nella ricerca della posizione in campo.

 


È vero che Nadal con gli anni e soprattutto sul veloce ha avanzato progressivamente la sua posizione in campo, ma all’età in cui Quinzi vinse Wimbledon junior (qui nei quarti contro Milojevic) non era così proiettato in avanti come il marchigiano.


 

Il colpo sicuramente più naturale di Quinzi è il rovescio, con cui ha sempre posseduto un timing che gli permette di mantenere delle aperture brevi e una ricerca della palla quasi sempre in avanzamento, in cui si appoggia alla velocità del colpo avversario. Anche la spalla sinistra in fase di preparazione non sempre si chiude tantissimo sul mento, segno che non ha grande bisogno di caricare il colpo ma solo di trovare il tempo dell'impatto: la palla che gli esce è molto piatta e rapida. L'attacco con il rovescio lungolinea è forse la vera arma principale del bagaglio tecnico di Quinzi, con la quale molto spesso capovolge l'inerzia dello scambio a proprio favore e che secondo Bollettieri dovrebbe seguire molto più spesso a rete.

 


Esattamente così.


 

Il rovescio è un colpo sicuro in tutte le fasi: in risposta, in difesa in corsa, nello scambio sulla diagonale o nel cambio in lungolinea per spezzare l’equilibrio del punto. Nella mente di Quinzi è talmente radicata la convinzione della solidità del proprio rovescio bimane che in alcune occasioni in corsa ci arriva in allungo sicuro di ribattere efficacemente la palla, quando sarebbe sicuramente molto più consigliabile un back anche per rifiatare e riprendere campo.

 


Soprattutto sull’erba, dove il back scivola molto e colpire in corsa è ancora più difficile.


 

L'impostazione del dritto mancino è completamente diversa rispetto al rovescio. L'apertura è molto più elaborata e porta subito dietro il gomito durante l'apertura (una caratteristica comune a Kyrgios, Kokkinakis ed Edmund, che sia una prerogativa della nuova scuola?). Il movimento della testa della racchetta è molto meno lineare e crea molto più top spin rispetto al rovescio, anche se la palla che ne esce non è estremamente pesante: non sempre è colpita in modo pieno e a volte sembra in lift piuttosto che in top spin. Il suo ex coach Giancarlo Petrazzuolo dice in ogni caso che il dritto è il «colpo che gli permette di variare con maggiore facilità angoli e altezza della palla», fedele a una tendenza comune praticamente a ormai tutti i professionisti.

 

Quando ha tempo di aprire e comandare il gioco Quinzi è molto efficace anche con il dritto ma soffre maggiormente in situazioni di difesa (compresa la risposta) per la sua apertura. Soprattutto non riesce con continuità a comandare nella diagonale sinistra che - affrontando quasi sempre avversari destrorsi e che hanno il rovescio in quella zona di campo - dovrebbe essere la maggiore fonte del gioco: per questo motivo sposta spesso lo scambio giocando un dritto lungolinea per muovere l'avversario, temendo che troppi dritti incrociati gli facciano perdere campo per primo sulla diagonale.

 


Un estratto dalla sfida al Bonfiglio 2012 contro Coric. Il croato è sicuramente più solido dalla parte del rovescio e il dritto di Quinzi non è pesante e nemmeno profondo: per sfuggire al duello in diagonale Quinzi cerca subito di cambiare gioco con un dritto lungolinea.


 

Quinzi non ha una gran varietà nelle soluzioni al servizio ma ha un'ottima velocità con la prima: già tre anni fa superava costantemente i 190 km/h. La seconda è più leggera e incostante e gli causa spesso numerosi doppi falli. Il movimento del servizio sembra raccolto in un'unica fase, senza la famosa pausa di caricamento, e questo dovrebbe teoricamente creargli qualche problema nell'accumulare più energia possibile da trasferire poi sulla palla al momento dell'impatto.

 

Anche nelle esecuzioni a rete Quinzi mostrava margini di miglioramento. L’attacco in controtempo in avanzamento in corsa sembrava più che buono ma necessitava di un colpo quasi definitivo e di un conseguente passante lento in difesa dell’avversario. Quando veniva chiamato a rete e non poteva giocare un attacco efficace, il posizionamento e la difesa della rete erano un problema che per sua fortuna condivideva anche con i suoi coetanei.

 

Ricordo di aver assistito ad un match al Challenger di Recanati contro Flavio Cipolla, poche settimane dopo la vittoria a Wimbledon: il tennista romano si era umilmente reso conto di non poter fare partita pari con Quinzi sulla velocità di palla e soprattutto nel terzo set aveva iniziato a chiamarlo a rete attraverso velenosi back di rovescio molto bassi e corti; Quinzi continuava a correre per tentare di eseguire la volée più avanti possibile, senza effettuare lo split step, e il posizionamento si rivelava errato, venendo così passato la maggior parte delle volte, preso in controtempo sulla corsa in avanti.

 


Se non poteva giocare la volée a campo aperto Quinzi mostrava dei limiti nella ricerca dei passi in avanzamento verso la rete e nell’esecuzione della volée d’approccio.




 



 

La vittoria di Wimbledon ha aperto a Quinzi una seconda parte di carriera, paradossalmente la peggiore. La luminosità del futuro atteso dall’Italia intera è stata oscurata dall’ombra pesante della pressione, delle aspettative da mantenere, della giungla del circuito maggiore ricco di vecchie volpi.

 

In

a Ubitennis dell’ottobre del 2015 Quinzi diceva: «Dopo la vittoria a Wimbledon ho cominciato a sentire la pressione perché tutti mi volevano come se fossi una star, anche se in realtà non avevo vinto ancora nulla. Infatti da lì agli ultimi due anni le mie prestazioni sono un po’ calate, non sono riuscito ad esprimere il mio tennis».

 

Già senza consultare i risultati è perfettamente visibile da alcuni match recenti la differenza di atteggiamento sul campo e di autostima rispetto al periodo d’oro nel circuito giovanile. L’accumulo di risultati giudicati negativi se rapportati alle attese (e a quelli dei coetanei che le loro aspettative le hanno più o meno mantenute) ha eroso progressivamente la fiducia in Quinzi, causandogli dei peggioramenti nell’approccio alle partite. Quindi gioca sempre più lontano dalla riga di fondo e sembra sempre più incapace di comandare il gioco.

 


Dopo la risposta di Meister, Quinzi potrebbe comandare ma è titubante e finisce chiuso nella morsa dei colpi del suo avversario, non proprio irresistibile.




Di recente ho avuto l’opportunità di osservarlo dal vivo ai quarti di finale del Challenger di San Benedetto del Tronto contro il francese Constant Lestienne, numero 205 delle classifiche mondiali prima del torneo. Quinzi ha condotto un primo set senza sostanziali sbavature fino al tie-break, perso quando era in vantaggio per 4-2. Anche nel secondo set il livello medio espresso dal marchigiano è stato buono con l’eccezione di un mezzo black out verso le fasi centrali - decisivo per il break che ha consegnato la partita in mano a Lestienne – nel quale ha sbagliato troppo spesso dei rovesci lungolinea che teoricamente dovrebbe giocare in automatico, e troppe conclusioni in generale. In tutti i punti meno importanti Quinzi ha espresso un buon tennis, in tutti quelli decisivi si è sciolto in preda all’insicurezza.

 


Sempre contro Meister, un rovescio di Quinzi (suo colpo migliore) decisamente rigido e trattenuto che finisce lungo. La reazione del marchigiano fotografa la frustrazione di quel momento.




In quella intervista Quinzi aveva detto di non essere più riuscito ad esprimere il proprio tennis. Verrebbe da pensare che ci sia un Quinzi-livello-allenamento e un Quinzi-livello-partita e che i due livelli di gioco siano differenti per motivazioni prevalentemente psicologiche. In realtà, a distanza di tre anni, non si riscontrano evidenti miglioramenti sulle qualità tecnico-tattiche di Quinzi nemmeno nei momenti più rilassati del match: il dritto continua a fare fatica se pressato con una palla pesante e il rovescio piatto su terra non fa malissimo, la seconda palla non è incisiva e continua a causargli doppi falli, la velocità della prima è rimasta la stessa (piuttosto alta) ma le traiettorie del servizio disponibili nell’arsenale di Quinzi sono rimaste molto limitate. Sembra essere un po’ progredito nell’agilità degli spostamenti laterali ma la sua posizione in campo non è più così brillante, proiettata in avanti come nei giorni in cui scoppiava di fiducia in sé stesso.

 

Ma le questioni tecniche, tattiche e fisiche sono un aspetto secondario dello stallo in cui è precipitato Quinzi. Nella stessa intervista di prima Quinzi mostrava una certa umiltà nell’analizzare i propri tasselli mancanti: «I top 100 rispetto a me sono più intelligenti tatticamente, più freddi nei momenti importanti e più maturi di me quando si trovano in campo. Sto perdendo fiducia nelle mie capacità, devo migliorare soprattutto mentalmente». Forse non è un caso che uno dei suoi tanti ex allenatori, mariano Monachesi,

 che Quinzi «potrà diventare un grande tennista» e che «ha bisogno di trovare la maturità per potersi tranquillizzare, iniziare a vincere le partite, avere fiducia in se stesso».

 

In

a

 dell’agosto 2015 il marchigiano ammetteva il fatto che stava giocando «troppo difensivo» e confermava la necessità di seguire più spesso i colpi a rete (soprattutto il rovescio) prospettatagli da Bollettieri: «Ha ragione. Io sono un tennista da 5-6 colpi per scambio, mi piacciono le condizioni veloci». Ma non era tanto un salto di qualità tecnico ad essere chiamato in causa quanto soprattutto uno schema mentale, bloccato dai problemi di autostima.

 

 



 

Quinzi ha detto di aver iniziato a sentire la pressione dopo la vittoria di Wimbledon, generando frettolosi giudizi sulla sua incapacità mentale di gestire la propria crescita e la propria notorietà, necessaria per diventare un campione. La brillantezza psicologica con la quale gestiva le partite e usciva dalle situazioni più difficili (come dopo il secondo set della finale del Bonfiglio contro Ismailov) si è esaurita e Quinzi è entrato in un tunnel dal quale non è facile uscire.

 

Le motivazioni con cui Quinzi ha giustificato la perdita di fiducia sono state praticamente nulle: il marchigiano ha solo parlato di pressione, sfiducia, necessità di migliorare psicologicamente. Sarebbe stato più interessante sapere da lui o da chi lo segue o lo ha seguito dal punto di vista mentale (uno psicologo?) quale meccanismo ha portato un ingranaggio che sembrava essere ben funzionante ad incepparsi.

 

Recentemente

ha detto che la sua ricetta per scacciare la pressione (lo stesso Federer ha assicurato che la pressione sul giovane tedesco è fortissima) è quella di «pensare soprattutto a migliorare partita dopo partita, senza pensare troppo ai singoli risultati e soprattutto alle classifiche». In

 lo scrittore David Wong dice a un certo punto: «Ho fatto lavori noiosissimi per anni solo perché sapevo che stavo migliorando una specifica abilità. Molti non capiscono che l’obiettivo è il processo stesso».

 

Un motivo della crisi psicologica di Quinzi potrebbe quindi risiedere proprio nell’eccessiva concentrazione sui risultati, sul bisogno immediato di certificare anche nel circuito dei grandi le proprie qualità attraverso il biglietto da visita della partita vinta. Quinzi potrebbe aver messo in secondo piano la concentrazione al miglioramento costante e progressivo di ogni singolo aspetto del gioco, rimanendo attanagliato dalla bramosia di ottenere costanti risultati che non sono altro in realtà che la logica conseguenza del lavoro. Non si spiegherebbe altrimenti il suo sostanziale immobilismo di progressi tecnici nell’arco di 3 anni, per di più in età estremamente giovane.

 

Giancarlo Petrazzuolo, dopo essere stato allontanato dallo staff del marchigiano, aveva infatti detto: «La mia idea era quella di far vivere a Gianluigi partite e tornei come un percorso di crescita, lungo e impegnativo, da affrontare con serenità e non come un esame».

 

Sarebbe interessante invece capire se Quinzi abbia in realtà perso entusiasmo nel momento in cui ha percepito che, magari poco dopo la vittoria a Wimbledon, la curva del miglioramento non tendeva più a schizzare verso l’alto ma ad appiattirsi, allarmandolo sul fatto che lui pensasse di aver raggiunto il limite - quando in realtà è fisiologico a volte interrompere il proprio processo di vertiginosa crescita. O magari nella sua mente aveva già programmato di esplodere quasi subito e non accettava di dover fare troppi anni di gavetta nei tornei minori: questo potrebbe averlo deluso dall’assenza di riscontri tangibili immediati e per questo motivo sarebbe ora sempre più frustrato.

 


Tipo così. Non imitatelo.


 

La frustrazione è infatti il sentimento principale che si percepisce allo stato attuale di Quinzi, sempre più protagonista di episodi di ira nei confronti di se stesso (con tanto di racchette lanciate a terra) e degli ufficiali di gara. Sempre nei quarti del Challenger di San Benedetto il marchigiano ha contestato platealmente una chiamata sulla penultima palla - peraltro corretta - a match già ormai compromesso e si è rifiutato di stringere la mano al giudice di sedia, quasi cercando un alibi esterno a una sconfitta in realtà maturata per via delle sue incertezze oltre che delle abilità di un avversario di classifica migliore, fino a prova contraria.

 

Gli esempi offerti dalle scalate verticali compiute dai suoi rivali storici del circuito juniores potrebbero averlo ulteriormente caricato di pressione da un lato (e qui andrebbe valutata la capacità di isolarsi dal confronto con altri che hanno storie e caratteristiche diverse) ma incoraggiato dall’altro ad emularli, memore delle sfide giovanili dalle quali usciva spesso vincitore. L’esempio degli italiani che maturano tutti in età avanzata potrebbe essere uno stimolo ulteriore a credere di poter avere ancora margine per esplodere.

 


La coppa a Quinzi e il piattino a Chung, ma contro il coreano - che pochi mesi fa ha raggiunto il best ranking di numero 51 - oggi una loro sfida avrebbe esito nettamente diverso.


 

È chiaro però che la sua continua e quasi ossessiva centrifuga dei coach al suo angolo (tale da averlo perfino etichettato come lo “Zamparini” del tennis azzurro) dimostra forse una certa fretta e insicurezza. Lo stesso Mariano Monachesi diceva di augurarsi di «avere la fortuna di poterlo accompagnare per un processo di qualche anno, perché sono convinto che con me o con qualunque altro allenatore potrà diventare un grande tennista».

 

In realtà il percorso di Monachesi come coach di Quinzi durerà pochi mesi, non sufficienti a dare la giusta continuità di percorso necessaria per un giovane in teorica ascesa. Così come lo stesso Petrazzuolo aveva detto che insieme al giovane tennista «si stava cercando di aiutarlo a interpretare il tennis in maniera più aggressiva, concentrandosi specialmente sul servizio e sulle prime palle che toccava». Di certo cambiare costantemente voce tecnico-tattica alle spalle contribuisce a spezzettare sempre di più un percorso che in questo modo non sembra mai prendere definitivamente il via.



 

I risultati del 2016 di Quinzi sembrano un po’ più incoraggianti rispetto al passato: tralasciando i Futures che sono tornei ormai da abbandonare, il marchigiano ha ottenuto due quarti di finale a livello Challenger a Caltanissetta e San Benedetto e ha battuto i suoi primi due top 100 in carriera, Lukas Lacko e Facundo Bagnis. Anche nel 2015 aveva sconfitto ottimi giocatori come Blaz Rola e Igor Sijsling e aveva sfiorato la semifinale al Challenger di Napoli perdendo al tie-break decisivo contro un giocatore molto robusto come Marco Cecchinato, ma a questi buoni acuti aveva accompagnato una preoccupante serie di primi turni persi contro avversari tutt’altro che irresistibili.

 

Qualche base per riprendere il percorso è stata gettata e per riaffermarsi di nuovo Quinzi non avrà probabilmente bisogno di una nuova promessa azzurra che gli tolga pressione dalle spalle. È abbastanza ridicolo escludere categoricamente il suo nome dalla lista di quelli che potrebbero rappresentare la futura élite del tennis italiano, ma il livello attuale non è certo sufficiente per un avvenire roseo.

 

 

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