Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Breve storia del catenaccio
25 mar 2020
25 mar 2020
Come si è sviluppata la tattica più amata dagli italiani.
(di)
(copertina)
Wikipedia
(copertina) Wikipedia
Dark mode
(ON)

Secondo una leggenda l’idea di aggiungere un giocatore dietro l’ultima linea del WM, il modulo inventato negli anni Trenta da Herbert Chapman definibile come un 3-2-2-3, viene a Gipo Viani durante una passeggiata lungo il porto in cui nota che i pescatori utilizzano una rete supplementare per tirare su i pesci che non sono finiti nella prima rete. Prendendo spunto dai pescatori, Viani pensa quindi di aggiungere un difensore dietro l’ultima linea in grado di intervenire ogni volta che i compagni davanti a lui non riescono a interrompere gli attacchi avversari. La storia della passeggiata al porto è senza dubbio romanzata, Viani però inventa davvero un nuovo sistema, così originale che viene definito “vianema”, che prevede un giocatore senza compiti di marcatura (il “libero”, secondo la definizione che gli darà Gianni Brera) dietro l’ultima linea del WM.

Il catenaccio è un’idea tipicamente italiana, è stato definito e portato al successo dal calcio italiano, ma tra i suoi padri c’è un allenatore austriaco che ha trascorso la carriera in Svizzera, Karl Rappan. Negli anni Trenta, mentre la nazionale austriaca è un riferimento in Europa giocando con il 2-3-5 in modo offensivo e spettacolare, Rappan si muove nella direzione opposta, inventando per le sue squadre - il Servette, il Grasshoppers e la nazionale svizzera, portata ai quarti nei Mondiali del 1938 dopo una storica vittoria per 4-2 sulla Germania nazista - un modulo che prevede innanzitutto di proteggere efficacemente la porta. Partendo dal 2-3-5, sposta due mediani di fianco ai terzini e crea quindi una linea di quattro difensori: i due più esterni marcano le ali avversari, uno dei due centrali marca il centravanti mentre l’altro resta in copertura.

L’idea è simile a quella che in Italia porterà all’invenzione del libero ma nel modulo di Rappan, chiamato “riegel” o “verrou”, la disposizione dei difensori è ancora in linea e le marcature richiamano quelle del Metodo, il modulo con cui l’Italia di Vittorio Pozzo ha vinto due Mondiali e un oro olimpico tra il 1934 e il 1938. Nel Metodo, definibile come un 2-3-2-3 o WW in contrapposizione al Sistema (o WM), sono infatti i mediani esterni a marcare le ali, mentre il centromediano si abbassa vicino ai difensori, senza comunque allinearsi a loro come nel WM, e può arrivare a marcare il centravanti avversario, liberando da compiti di marcatura i due terzini. Sia il verrou di Rappan che il Metodo di Pozzo scompongono insomma il 2-3-5 (conosciuto anche come la “piramide di Cambridge”) con l’idea comune di arretrare le linee per attaccare con azioni verticali di pochi passaggi, lanciando dalla difesa verso i giocatori più avanzati.

Nonostante il forte legame tra il calcio italiano e quello giocato nell’Europa centrale, il catenaccio in Italia si sviluppa comunque in modo autonomo, senza seguire la strada tracciata da Rappan. I primi esempi di squadre che schierano un libero sono i Vigili del Fuoco di La Spezia, allenati da Ottavio Barbieri (che Brera ritiene il primo allenatore a utilizzare il libero) e vincitori di un torneo di guerra nel 1944, e il Modena di Alfredo Mazzoni, terzo in Serie A nel 1947. È però Viani a introdurre un sistema originale che prevede un giocatore schierato dietro l’ultima linea del WM, diventato il modulo di riferimento nel calcio italiano grazie al Grande Torino, e a dare per primo popolarità al catenaccio.

Come Rappan, anche Viani aggiunge un giocatore in difesa togliendolo dalla linea mediana. La sua trovata è però ancora più sorprendente. In un’epoca in cui non esistono strumenti per studiare gli avversari nel dettaglio e le marcature seguono rigidamente i numeri di maglia, assegna la numero 9 a un mediano (Alberto Piccinini, padre di Sandro, ex telecronista di Mediaset) e lo abbassa a marcare il centravanti avversario, facendo scivolare più indietro il difensore centrale come libero. La sua Salernitana viene promossa per la prima volta in Serie A nel 1947 ma retrocede subito la stagione successiva, perdendo lo scontro diretto con la Roma alla penultima giornata.

Non è chiaro se sia stata la Salernitana di Viani a tracciare la strada, in quegli anni però diverse squadre con poche risorse trasformano il WM per guadagnare un giocatore alle spalle dell’ultima linea. Ad esempio la Triestina di un altro padre del catenaccio, Nereo Rocco, si fa notare proprio nel campionato in cui Viani non riesce a evitare la retrocessione della Salernitana. Arrivata ultima nel 1947 e ripescata per la delicata situazione politica a Trieste, ancora controllata dalle potenze alleate e da poco trasformata in territorio libero, dopo aver scelto Rocco come nuovo allenatore la Triestina arriva addirittura seconda alle spalle del Grande Torino la stagione successiva, con la quarta miglior difesa del campionato.

Il catenaccio nasce quindi come strategia per squadre con risorse limitate che cercano di compensare lo scarto tecnico e atletico con quelle più forti, ma è subito circondato da un'aura negativa. In Italia il calcio è ancora considerato un gioco d’attacco e i cambiamenti portati dal catenaccio - l’arretramento delle linee, l’accumulo di difensori, la presenza di un giocatore alle spalle di tutti con il solo scopo di interrompere gli attacchi e spazzare l’area - sono una sfida alle convinzioni radicate sulla tattica e sullo spirito del gioco. Non solo accendono discussioni pubbliche ma finiscono anche per creare conflitti violenti all’interno delle squadre. Quando passa al Milan e impone il suo credo tattico abbassando un mediano (Mario Bergamaschi) a fare il libero, Viani arriva ad alzare le mani su Nils Liedholm, sostenitore del Sistema e del gioco offensivo.

All’Inter è invece il presidente Carlo Masseroni a invitare l’allenatore, Alfredo Foni, a giocare in modo meno prudente, nonostante avesse vinto lo scudetto nel 1953. È la prima vittoria del catenaccio, un passo decisivo per la sua diffusione anche tra le grandi squadre. Più che imporre le sue idee, Foni asseconda uno sviluppo che viene a crearsi naturalmente durante le partite. A originarlo è Ivano Blason, un terzino abituato a giocare col Metodo, a restare cioè dietro la linea mediana e a presidiare l’area di rigore. L’Inter invece lo prende dalla Triestina di Rocco e lo schiera come terzino nel Sistema, cioè da difensore esterno della linea a tre con il compito di marcare l’ala sinistra avversaria. Blason però fatica a stare dietro l’ala e spesso è Gino Armano ad arretrare per marcarla. Foni allora rimedia creando per Armano un ruolo che verrà definito “ala tornante”, appunto perché rientra in marcatura sull’ala avversaria, e riporta Blason in area, come libero a spazzare i palloni che arrivano dalle sue parti. L’Inter vince il campionato con la miglior difesa (24 gol subiti) ma segnando appena 46 gol.

Negli anni Cinquanta arrivano le prime vittorie, ma è nel decennio successivo che il catenaccio raggiunge l’apice del successo, prima col Milan di Rocco e Viani e poi con l’Inter di Helenio Herrera. Giocando col catenaccio, le due squadre milanesi dominano gli anni Sessanta con le loro vittorie, mettendo insieme quattro Coppe dei Campioni e tre Intercontinentali.

Rocco passa al Milan nel 1961, affiancato da Viani come direttore tecnico. La convivenza tra i due è tutt’altro che serena. Per Brera, Viani è «un astuto Porthos senza pudori sociali di sorta», come Rocco ama il vino, è un affabulatore, un donnaiolo amante del poker, grazie al quale, all'inizio degli anni Quaranta a Siracusa in Serie C, vince di notte i soldi per i viaggi della squadra. Rocco ha invece un carattere più semplice, parla quasi solo in dialetto triestino, è bonario di aspetto ma domina lo spogliatoio con severità, utilizzando stratagemmi che abbattono la barriera tra calciatori e allenatore. In campo ci va in giacca e cravatta, ma con le scarpe da calcio, e dopo la partita fa la doccia con i giocatori, per controllarli e ascoltarne i discorsi più che per mostrarsi vicino a loro, anche se coinvolge i più esperti e influenti nella scelta della formazione.

Rocco e Viani condividono l’idea di utilizzare il catenaccio ma si scontrano spesso su altre questioni. Ad esempio su Jimmy Greaves, centravanti inglese acquistato dal Chelsea da Viani e poco apprezzato da Rocco. A Greaves piace bere e uscire la sera, segna molto ma non suda quanto vorrebbe il suo allenatore. Rocco allora lo esclude dopo appena 13 partite, in cui comunque Greaves segna 9 gol, e forza il suo ritorno in Inghilterra, al Tottenham per la cifra simbolica di 99.999 sterline, qualche mese dopo il suo arrivo a Milano.

Greaves è ancora oggi il miglior marcatore del campionato inglese, con 357 gol.

Almeno all’inizio, Viani e Rocco hanno idee diverse anche su Rivera. Rocco vorrebbe mandarlo in prestito, lo esclude nelle prime partite e non sa bene in che ruolo farlo giocare. Viani invece ama Rivera, vorrebbe vederlo sempre in campo e sfrutta l’esclusione di Greaves per convincere Rocco a ridisegnare la squadra in modo da esaltare il talento del suo protetto. La mossa decisiva è l’acquisto di Dino Sani, un regista, dopo la cessione di Greaves. Con un centrocampista di qualità a gestire gli attacchi di fianco a Rivera, il gioco migliora e, al primo campionato con Rocco, i rossoneri vincono lo scudetto. L’anno successivo il Milan è la prima squadra italiana a vincere la Coppa dei Campioni, ma al termine della stagione Rocco lascia, preferendo andarsene al Torino.

Rocco forma la squadra bilanciando con precisione matematica giocatori difensivi e offensivi. In cinque si occupano di difendere (i due terzini, un mediano e il difensore centrale marcano a uomo, alle loro spalle c’è il libero, Cesare Maldini), gli altri cinque gestiscono gli attacchi. La suddivisione dei compiti è rigida, chi difende avanza di rado per partecipare all’azione e chi attacca arretra in fase difensiva ma non segue in modo sistematico gli avversari di riferimento. I terzini marcano le ali avversarie e quindi stanno larghi, permettendo alle ali di non abbassarsi troppo. In mezzo al campo Sani gioca più indietro rispetto a Rivera, ma nemmeno lui ha fisico e attitudini da recuperatore di palloni e quindi a centrocampo si crea spesso un buco.

Nereo Rocco e Gianni Rivera.

È un rischio che accomuna le squadre che giocano col catenaccio (avere un giocatore alle spalle di tutti senza compiti di marcatura inevitabilmente libera un avversario), accentuato al Milan dalla presenza di due giocatori lenti e tecnici come Sani e Rivera, poco adatti a correre indietro e sacrificarsi per ristabilire la parità numerica in mezzo al campo senza perdere lucidità nelle giocate. Ogni marcatura saltata rende quindi vulnerabile lo schieramento e impone a Maldini di leggere velocemente lo sviluppo dell’azione per intervenire.

Un esempio è il gol subito da Eusébio nella finale di Coppa dei Campioni del 1963. Trapattoni sbaglia un passaggio a centrocampo e non fa in tempo a tornare indietro per marcare il suo giocatore di riferimento, il centravanti José Augusto Torres. Allora Víctor Benítez deve a sua volta lasciare il suo uomo (Eusébio) per provare a intervenire ma non riesce a evitare che Torres gli passi la palla. A quel punto, con la possibilità di correre da solo verso la porta, Eusébio è imprendibile. Trapattoni lo insegue ma non riesce ad avvicinarsi, Maldini non prova nemmeno a ostacolarlo. Arrivato in area, Eusébio può quindi segnare senza problemi con un tiro in diagonale verso l’angolo più lontano.

[embed]

Anche se la presenza di Sani e Rivera dovrebbe in teoria dare maggiore razionalità agli attacchi, in quella partita il Milan finisce spesso per cercare subito il centravanti (Altafini), con verticalizzazioni immediate difficili da controllare. L’idea alla base del catenaccio è di attaccare innanzitutto in contropiede con pochi passaggi, a volte però questa strategia può trasformarsi in un limite, perché può rendere le azioni poco lucide e isolare il centravanti, costretto a grandi sforzi per far diventare giocabili i palloni che arrivano dalle sue parti.

Le azioni del Milan nella finale col Benfica diventano più ragionate solo quando tocca la palla Rivera. Famoso per la visione di gioco illuminata e la precisione dei suoi passaggi, Rivera rende più manovrati i contropiedi ed è il più abile a conservare la palla in situazioni complicate, a guadagnare i secondi necessari a far avanzare i compagni. In entrambi i gol segnati da Altafini che ribaltano il risultato dopo il vantaggio di Eusébio, c’è il suo contributo. Nel primo caso un suo tiro respinto finisce sui piedi di Altafini, che gira subito il pallone in porta con un tiro molto rapido. Nel secondo Rivera recupera la palla dopo un calcio d’angolo battuto dal Benfica e lancia Altafini verso la doppietta in una metà campo priva di avversari.

[embed]

Il Milan segna molto nel suo primo campionato con Rocco (83 gol in 34 partite), raggiunge grandi traguardi, ma a volte il suo gioco è fin troppo rigido e gli attacchi sono essenziali. In più dura solo due anni, poi Viani e Rocco non riescono più ad andare avanti e quest’ultimo scappa al Torino. Rocco tornerà al Milan alla fine degli anni Sessanta, ma nel frattempo la squadra di riferimento, per successi e livello di gioco, è diventata l'Inter di Helenio Herrera.

Forse Herrera non ha tutti i meriti che si attribuisce nella diffusione del catenaccio, nessuno però lo ha interpretato meglio della sua Inter, in ogni sua sfumatura. L’Inter ha aggiunto flessibilità al catenaccio e lo ha perfezionato dal punto di vista tattico, è stata un simbolo di dedizione e disciplina ma, più di ogni altra squadra, ne ha anche rappresentato gli aspetti peggiori, i trucchi e le scorrettezze, incluse accuse di doping rilanciate da Ferruccio Mazzola, fratello minore di Sandro, e finite in un processo per diffamazione che ha assolto Mazzola.

Anche Herrera non sfugge a questa rappresentazione multiforme e controversa. A seconda dei punti di vista può essere considerato un innovatore o un furbo che si è limitato a riprendere idee sviluppate da altri, un leader illuminato o un tiranno, un abile psicologo o un manipolatore che usava trucchetti e frasi motivazionali di scarsa efficacia. Di sicuro è stato tra i migliori allenatori di tutti i tempi, uno dei pochi in grado di rivoluzionare il mestiere.

Herrera arriva all’Inter nel 1960, con uno stipendio da record offerto da Angelo Moratti, e da subito accentra su di sé un potere in pratica sconfinato. Cambia gli allenamenti, controlla la dieta dei giocatori, introduce il ritiro prima delle partite, cura nel dettaglio l’aspetto psicologico e diventa famoso per i cartelli con frasi motivazionali che appende nello spogliatoio, si relaziona con furbizia con i giornalisti e non si fa problemi a inventare storie per abbellire la propria immagine. È così difficile riconoscere verità e bugie in quel che dice che non è chiara nemmeno la data di nascita. Per alcuni è il 1910, Herrera invece sostiene sia il 1916. Insomma controlla ogni dettaglio con un unico obiettivo, vincere.

Nereo Rocco e Helenio Herrera (Foto ©Ravezzani/Lapresse).

Per farlo ci mette tre anni, durante i quali calano di continuo i gol fatti e diminuiscono in modo ancora più drastico quelli subiti. Nel primo anno con Herrera l’Inter segna 73 gol e ne subisce 39, al terzo i gol segnati sono 56 ma quelli subiti appena 20. Herrera arriva per gradi alla versione definitiva del suo catenaccio, e anzi all’inizio cerca di proporre un calcio offensivo schierando il WM. Poi però trasforma Picchi in libero e ha un paio di intuizioni fondamentali per costruire la squadra che passerà alla storia come la “Grande Inter”. Nel 1961 viene raggiunto a Milano da Luis Suárez, già allenato al Barcellona, e lo inserisce come regista. L’anno successivo arrivano Burgnich e Jair ed entrano definitivamente tra i titolari Facchetti e Mazzola, entrambi ventenni. La struttura portante della Grande Inter si è formata e a partire dal 1963 iniziano ad arrivare i successi. Tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Intercontinentali in tutto.

A livello tattico, il catenaccio dell’Inter è rivoluzionario e anticipa il futuro. Per certi versi è ancora più difensivo del Milan di Rocco, perché impone maggiori sforzi nei rientri ai giocatori offensivi. Le azioni dell’Inter sono però più elaborate e le posizioni dei giocatori quando attaccano sono sorprendentemente flessibili. Il libero (Picchi) non si limita a spazzare ma ha visione di gioco e sa trovare soluzioni complicate con i suoi passaggi. A destra Jair copre in pratica tutta la fascia, rientra in zone profonde e poi è capace sia di portare la palla avanti per molti metri che di essere un riferimento nelle fasi finali dell’azione, tagliando in area. A sinistra si impone invece Facchetti, riconosciuto unanimemente come il primo terzino offensivo del calcio italiano. Facchetti non si limita a marcare l’ala destra avversaria, ma avanza spesso per partecipare all’azione e riesce anche a garantire un buon numero di gol.

Nel primo gol di Mazzola al Real Madrid nella finale di Coppa dei Campioni del 1964, ad esempio, Facchetti sale e appoggia la palla a Mazzola.

A fargli spazio sulla fascia è Corso, sulla carta l’ala sinistra e in realtà senza un ruolo fisso. Tecnico e indolente, ama abbassarsi in ogni zona del campo e scambiare la palla con i compagni vicini. Il centravanti poi non è uno specialista nella finalizzazione come Altafini nel Milan, anzi si muove creando spazi per gli inserimenti del giocatore più pericoloso e miglior marcatore della squadra, Mazzola, schierato da mezzala sinistra.

Il ciclo dell’Inter si chiude nel 1967 con due sconfitte ravvicinate, prima nella finale di Coppa dei Campioni contro il Celtic e poi a Mantova, una caduta che consegna lo scudetto alla Juventus. Più in generale, il canto del cigno del catenaccio è il successo in Coppa dei Campioni del Milan di Rocco nel 1969, in finale contro l’Ajax di Cruijff. Pochi anni dopo sarà proprio Cruijff il protagonista principale di un calcio totalmente diverso, libero e offensivo, che diventerà un riferimento per diverse generazioni, e non solo dal punto di vista tattico. In Italia invece il catenaccio continuerà a influenzare il gioco per molti anni ancora, ma evolvendosi fino a non poter più essere definito come tale.

Il catenaccio ormai non definisce più un sistema preciso ma è etichetta appiccicata in modo vago a squadre che difendono vicino alla porta e attaccano soprattutto in contropiede, a prescindere dai loro sistemi e principi di gioco. Parlare di catenaccio nella sua essenza non ha più senso da qualche decennio, anche se è vero che alcune delle innovazioni introdotte dalle squadre che lo praticavano - il libero, l’ala tornante, il terzino fluidificante, l’ala, solitamente quella sinistra, che si accentra per giocare in pratica da attaccante - si sono diffuse fino a diventare tratti caratteristici del calcio italiano fino agli anni Ottanta.

Fin dalle sue prime apparizioni il catenaccio è stato disprezzato e avvolto da un’aura negativa, ma nel contesto in cui si è sviluppato è stato una rivoluzione che ha messo in discussione abitudini e concetti considerati intoccabili. Era insomma un’idea di gioco moderna che si imponeva su modi ormai superati di pensare il calcio e di giocarlo. Quando la spinta innovatrice si è esaurita a sua volta, il catenaccio è stato superato da modi nuovi di intendere il gioco, più in grado di rappresentare la modernità e gli sviluppi del calcio in ogni suo aspetto. Anche se spesso si sente parlare di catenaccio per le squadre che curano molto la fase difensiva, associato addirittura a squadre iperorganizzate e con princìpi di gioco complessi come ad esempio l'Atlético Madrid, nessuna squadra può pensare seriamente di competere avendo come modello un sistema di gioco superato già mezzo secolo fa.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura