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Foto di Francois Nel / Getty Images
Sport Andrea Minciaroni 7 maggio 2019 8'

Il caso Semenya e il problema del genere nello sport femminile

L’atleta sudafricana non è la sola ad aver sollevato il problema dei livelli di testosterone nelle gare.

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Caster Semenya è un’atleta sudafricana di 28 anni che nel 2009 ha fatto molto parlare di sé, fino a diventare un caso internazionale, dopo aver vinto la medaglia d’oro negli 800 metri femminili ai Mondiali di atletica leggera di Berlino. Quella vittoria è stato messa in discussione da molti a causa dei suoi tratti mascolini, uniti all’impressionante prova grazie a cui demolì le sue rivali. In sostanza, Caster Semenya fu accusata di essere un uomo. E, quindi, di aver truccato la gara. A causa di queste accuse, l’atleta fu anche sospesa.

 

Dopo aver effettuato dei test di DNA (mai rivelati al pubblico per rispetto della sua privacy) Caster Semenya è stata successivamente riammessa alla competizioni e, nel 2012, è riuscita a vincere anche un oro alle Olimpiadi di Londra nella sua specialità: gli 800 metri femminili. A quanto pare, Caster Semenya non era (e non è) un uomo, ma una donna con iperandrogenismo: condizione fisiologica in cui il corpo di una donna produce naturalmente una eccessiva quantità di ormoni androgeni, come il testosterone, rispetto alla media.

 

La IAAF – l’Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica Leggera – per tutelare ogni atleta e rendere le competizioni sportive il più possibile “ad armi pari”, nel 2011 ha imposto una regola che obbliga le donne con iperandrogenismo a sottoporsi a una terapia ormonale per abbassare la produzione di ormoni androgeni, che ritengono possano falsificare le competizioni sportive. Poco dopo, in accordo con la sua Federazione, quella sudafricana, Caster Semenya ha fatto ricorso al TAS – il tribunale arbitrale internazionale dello sport di Losanna – contestando questa misura, considerandola discriminatoria e lesiva nei suoi confronti.

 

Ma la settimana scorsa abbiamo assistito a quella che sembra essere una svolta definitiva dell’intricata vicenda: Il TAS ha respinto il ricorso dell’atleta sudafricana, dando ragione al regolamento della IAAF. Così, se Caster Semenya avrà intenzione di continuare a gareggiare tra le atlete professioniste, dovrà sottoporsi  obbligatoriamente a una terapia per ridurre i livelli di ormoni androgeni. Il TAS ha respinto il ricorso perché ha ritenuto questa misura come “necessaria, ragionevole e proporzionata” per assicurare la validità e la competitività delle gare nel rispetto delle atlete avversarie.

 

A seguito di questa misura, l’atleta ha dichiarato con un tweet: «Io sono e sarò sempre questa. Ho finito». Parole che lasciano presagire un possibile ritiro dalle competizioni.

 

https://twitter.com/caster800m/status/1123876503694057477

 

Il caso Semenya è utile per sviluppare un riflessione che dominerà il futuro di molti sport: com’è possibile conciliare il diritto di prendere parte a una competizione sportiva senza ledere i diritti di un’atleta – eterosessuale, transenssuale o intersessuale – garantendo una competizione equa ad armi pari?

 

Un altro esempio significativo

Il 17 ottobre 2018, la ciclista canadese Rachel McKinnon ha vinto i Mondiali Master di ciclismo su pista a Los Angeles. Rachel McKinnon è diventata così la prima atleta donna transgender nella storia dello sport a vincere un titolo mondiale.

 

La notizia per certi versi è passata inosservata, probabilmente anche a causa della scarsa attenzione mediatica riservata alla competizione in sé. Ma come era prevedibile, dopo la vittoria di Rachel Mckinnon non sono mancate le polemiche, e a sollevarle stavolta non sono stati gli osservatori e i giornalisti ma i protagonisti coinvolti. La medaglia di bronzo, Jennifer Wagner-Assali, dopo la gara ha twittato: «Sono la ciclista giunta terza, ma è un risultato non corretto», suggerendo di aver giocato a un gioco con le regole truccate.

 

La risposta  di Rachel McKinnon non si è fatta attendere: «Mi alleno da 15 a 20 ore la settimana, due volte al giorno, cinque o sei giorni la settimana. Ciò che ottengo, me lo conquisto faticando. E voi che criticate siete solo dei bigotti transfobi».

 

Intervistata da USA Today qualche mese prima della sua vittoria, Rachel Mckinnon aveva già risposto a chi riteneva inopportuno che un atleta ancora biologicamente maschio gareggiasse con atlete donne: «Concentrarsi sul vantaggio nelle prestazioni è in gran parte irrilevante, perché si tratta di una questione di diritti. Non dovrebbe preoccuparci che le persone trans partecipano alle Olimpiadi. Dovrebbe invece preoccuparci che vengano rispettati i diritti umani».

 

E ancora: «Quando si tratta di estendere i diritti a una minoranza, perché dovremmo chiedere un parere alla maggioranza? Scommetto che molti bianchi siano stati in disaccordo quando abbiamo “de-segregato” gli sport consentendo la partecipazione ai neri».

 

La questione di fondo però non può non tenere conto del diritto di ogni atleta, a prescindere dal genere di appartenenza e dall’identità sessuale, di partecipare a una competizione equa, con regole precise.

 

Sono le regole, in fondo, che definiscono gli sport e lo sport in generale, e in questo caso le regole non stabiliscono delle condizioni chiare. L’affermazione dei diritti degli atleti transessuali in ambito sportivo è un argomento di difficile interpretazione non solo da parte del pubblico, ma anche degli addetti ai lavori e di chi deve prendere decisioni importanti: nel corso degli anni sono stati fatti passi in avanti, ma le nuove regole restano prive di una reale oggettività scientifica e, proprio per questo, sono soggette a continui cambiamenti.

 

Le regole non servirebbero solo a vietare o a escludere ma, ad esempio, senza un regolamento chiaro è anche più semplice che si creino delle zone grigie che gli atleti e il pubblico possono contestare. Creando casi di discriminazione. Innanzitutto va capito quali siano le regole che oggi disciplinano la partecipazione di un atleta, in questo caso transessuale, in una competizione sportiva.

 

Cosa dice il regolamento delle Olimpiadi?

Rachel Mckinnon è un’atleta iscritta alla federazione USA Cycling ed è tenuta a rispettare determinate regole. In particolare, come atleta trans femminile nata biologicamente maschio, per gareggiare in una competizione tra donne è tenuta a rispettare i regolamenti emanati dal CIO – Comitato Olimpico Internazionale – che stabilisce i diversi criteri da seguire.

 

Il Comitato Olimpico Internazionale attualmente stabilisce che gli atleti trans (uomo—>donna, ovviamente) per competere negli eventi femminili devono  prima di tutto dichiarare la loro identità di genere, che non può essere modificata per scopi sportivi per quattro anni. Devono in seguito dimostrare che il livello totale di testosterone nel siero sanguigno è stato inferiore a 10 nanogrammi per litro almeno nei 12 mesi precedenti alla competizione sportiva. Per regolare il livello di testosterone entro certi parametri, gli atleti devono sottoporsi a una terapia per sopprimere il testosterone naturale (detto endogeno) nei loro corpi al fine di soddisfare le linee guida dei regolamenti vigenti. Gli atleti trans (donna—>uomo, invece) possono gareggiare fra i maschi senza alcun tipo di restrizione.

 

Fino al 2004, il regolamento del CIO era ancora più coercitivo e stringente, perché stabiliva che le atlete transessuali per gareggiare in una competizione femminile dovevano obbligatoriamente sottoporsi a un intervento chirurgico. Queste regole sono state abolite nel 2015, quando appunto è stato introdotto l’obbligo della soglia di testosterone endogeno.

 

Il testosterone naturale nelle donne transgender viene testato con la stessa metodologia utilizzata per misurare il testosterone innaturale creato dal doping negli uomini e nelle donne cisgender.

 

Nell’intervista a USA Today citata sopra, Rachel McKinnon ha affermato che il limite di 10 nanogrammi per litro è un numero arbitrario: la canadese è anche un docente universitario che si occupa di questi temi e sostiene che alcune donne cisgender (come Caster Semenya) hanno dei livelli di testosterone oltre la soglia consentita, e che alcuni uomini cisgender hanno invece dei livelli inferiori. Rachel McKinnon fa un paragone: un ciclista più alto è per natura avvantaggiato rispetto a uno più basso. Un vantaggio naturale che non è regolamentato, come non dovrebbe essere regolamentato – secondo la ciclista – la soglia di testosterone.

 

La questione è così complessa che il Tribunale Arbitrale per lo Sport, come anche il CIO per le prossime Olimpiadi di Tokyo, sta prendendo in considerazione di revisionare questa regola, basandosi su alcuni casi di atleti definiti intersessuali (ovvero individui biologicamente donne ma che sviluppano alcune caratteristiche maschili, inclusi alti livelli di testosterone). E non è escluso che il precedente giuridico rappresentato dal caso di Caster Semenya non possa dare una svolta al futuro di queste regole anche per quanto riguarda le Olimpiadi di Tokyo nel 2020.

 

A questo punto, però, dobbiamo farci la domande forse più importante di tutte, da cui dipende il modo in cui decidere di affrontare la questione: lo sport è prima di tutto una competizione, dove l’esito è determinato non solo dalla tecnica ma anche da parametri fisiologici che incidono sul risultato finale, ed è fondamentale che tutti gli individui gareggino ad armi pari, anche a costo di intervenire sulla natura di un individuo; oppure lo sport rappresenta e si deve conformare ai valori della nostra società?

 

Dov’è il punto di equilibrio?

In questo lungo articolo, Riccardo Rimondi, raccontava anche il caso della sprinter indiana Dutee Chand, costretta al ritiro dalla Federazione Indiana prima di partecipare ai Giochi del Commonwealth perché il suo livello di testosterone era troppo elevato.

 

La Federazione Indiana ha provato a obbligare l’atleta a sottoporsi a un trattamento ormonale per sopprimere il livello di testosterone e farla prendere parte alla competizione, ma a differenza di altre atlete Dutee Chand si è rifiutata, definendo questa norma discriminatoria nei confronti delle donne, anche perché agli uomini non viene controllato il livello endogeno di testosterone prodotto, e la soglia oltre la quale non si può gareggiare è arbitraria.

 

Dutee-Chand

Dutee Chand ai Giochi asiatici della scorsa estate. Foto di Jewel Samad / AFP / Getty Images.

 

Come riporta Rimondi, a luglio 2015 il TAS, a cui si era appellata l’atleta indiana, ha dato  ragione al suo rifiuto: non ci sono prove sufficienti che le donne con iperandrogenismo abbiano un vantaggio tale da rendere necessario escluderle dalle gare femminili.

 

Ma oggi è lo stesso TAS ad aver cambiato idea nel caso di Caster Semenya, respingendo il ricorso della sudafricana e accettando la regolamentazione che costringe atlete con cromosoma XY (quindi con genotipo maschile e fenotipo femminile) a ridurre il livello di testosterone attraverso una terapia ormonale per partecipare a gare sopra i 400 metri.

 

Sono questioni che hanno risvolti umani, etici e scientifici, ed è evidente che senza chiarezza su certi elementi la legislazione sportiva è soggetta a continue revisioni o a ricorsi. Se nel 2016 è stato fatto un passo in avanti da parte del CIO, abolendo la norma che obbligava gli atleti transessuali a sottoporsi a un intervento chirurgico, è anche vero che la nuova regola della soglia minima di testosterone resta incerta e di difficile interpretazione.

 

La Carta Olimpica, che disciplina l’organizzazione dei Giochi Olimpici, nell’ottavo principio stabilisce che la pratica dello sport è un diritto umano e che ogni individuo «deve avere la possibilità di praticare lo sport secondo le sue necessità». Eppure, secondo il The Times, per le prossime Olimpiadi di Tokyo il CIO sta valutando una revisione del regolamento della soglia di testosterone minimo per gli atleti transessuali, riducendo la soglia da 10 a 5 nanogrammi, finendo potenzialmente per mettere fuori regola ancora più donne (trans o cis che siano).

 

È chiaro che va trovato un punto di incontro tra le varie istanze, che l’affermazione dei diritti degli atleti transessuali, intersessuali ed eterosessuali deve procedere di pari passo a uno studio scientifico il più oggettivo possibile sul vantaggio che un singolo atleta potrebbe avere sugli altri.

 

Certo, è paradossale se pensiamo che a Semenya viene rimproverato di essere nata in un certo modo (che potrebbe anche essere visto come una specie di superpotere), ed è una violenza troppo ovvia la richiesta di intervenire medicalmente per modificare la sua natura, ma in ambito sportivo la questione della parità di condizioni con cui si partecipa a una competizione è comunque centrale.

 

Riusciremo in futuro ad affermare appieno i diritti di tutti garantendo, attraverso delle regole certe, una competizione che sia il più possibile equilibrata e proporzionata, senza costringere nessuno a modificare la propria natura?

 

Al momento ci troviamo a dover scegliere tra una regola discriminatoria nei confronti di un genere o di donne dotate di una natura fuori dai canoni e la possibilità che altre atlete partano naturalmente svantaggiate. È una questione troppo complessa per pensare di poter dare una risposta che non sia ideologica, o semplicista, e forse la più grande sfida che il diritto sportivo ha davanti è proprio questa: riuscire a interpretare la complessità della realtà sociale contemporanea attraverso dei regolamenti che tutelino tutto e tutti.

 

Tags : atleticacaster semenyarachel mckinnon

Andrea Minciaroni vive a Roma, dove gira con vecchie biciclette usate sfidando le buche e il famoso traffico della capitale.

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