In MLS l’ultima giornata della Regular Season ha un nome altisonante, ottimo per una sceneggiatura di Hollywood ma molto meno, in effetti, per l’ultima giornata della MLS 2019: Decision Day.
Quest’anno, infatti, c’era davvero poco da decidere: qualche posto nei playoff , perlopiù il vantaggio di giocare la prima gara a eliminazione diretta in casa. In uno scenario del genere, la parola Decision ha finito per calzare come un bell’abito sartoriale su topic minori, tipo la corsa al Golden Boot, cioè il titolo di capocannoniere. In lizza c’erano due calciatori con una capacità di attrarre l'attenzione diversa, ma in entrambe i casi unica: Carlos Vela e Zlatan Ibrahimovic, le due stelle delle due squadre di Los Angeles (i Galaxy e i Los Angeles FC).
A vincere, alla fine, è stato il messicano, che ha staccato Zlatan di quattro gol grazie a una tripletta segnata contro i Colorado Rapids, cioè la squadra di Tim Howard: l’uomo che nel Mondiale 2014, contro il Belgio, ha fatto sedici parate nella stessa partita e che nel giorno del suo ritiro si è dovuto inchinare quattro volte ai LAFC - tre di fronte a questo ragazzo coi capelli scompigliati, le occhiaie, l’aria sufficiente di uno che ti sta facendo un favore a giocare, che sembra doversi sforzare a fare la faccia divertita anche quando palleggia con la figlia.
Voi direste che a Carlos Vela piaccia giocare a calcio?
La tripletta di per sé è anche molto bella (c’è un gol in rovesciata, per dire: ci arriviamo), ma soprattutto ha permesso a Vela di raggiungere quota 34 reti totali, sufficienti a sbriciolare il record di gol segnati in una sola stagione, che era appena dell’anno scorso e apparteneva a Josef Martínez. Altri numeri che ci restituiscono l’assurdità dell’annata di Vela? Trentaquattro è il doppio delle reti che Vela ha segnato nella sua stagione migliore in Liga, nel 2013-14, e 20 in più dell’anno scorso.
I 34 gol sono arrivati in 31 partite, in 160 tiri, di cui 71 nello specchio della porta: un tiro su due, praticamente, finiva nel sacco. Ah, e ha fatto anche 15 assist.
A essere sinceri tutta la stagione di LAFC è stata clamorosa. Gli aurinegros, soprannome che richiama l'oro e il nero della maglia, che l’anno scorso alla stagione inaugurale avevano già occupato la ferrovia su cui sferragliano i vagoni dell’hype, in questa annata hanno sbaragliato i record per il maggior numero di punti conquistati (72), di gol segnati (85) e la maggior differenza reti (+48). Era dal 1998 che una squadra (allora i Galaxy) non segnava così tanto. E Carlitos ha contibuito al 57,6% di quei gol, alzando anche il suo primo trofeo in carriera a livello di club, il Supporters’ Shield (ci sono rimasto male pure io, sì).
Foto di Shaun Clark/Getty Images
È buffo che il primo trofeo vinto da Vela porti nel nome la categoria maggiormente vilipesa durante tutta la sua carriera, e cioè i tifosi, prima di tutti i suoi, frustrati dal continuo mismatch tra aspettative e, dopotutto, la china che ha finito per prendere la sua parabola. Perché la stella che si annunciava al mondo come la next big thing nel Mondiale U17 del 2005 (vinto, e di cui è stato capocannoniere) non si è mai resa davvero visibile ai nostri telescopi, confinata nel limbo avvilente del ciò che poteva essere. E pensavamo ormai che ciò che ci eravamo figurati nelle nostre menti per il futuro di Vela, che nel frattempo è diventato presente, non si sarebbe più realizzato ormai. Così che quando Bob Bradley gli ha chiesto di essere come Messi, beh: ci è sembrato di essere di fronte a qualcuno che non avesse mai capito chi fosse Carlos Vela.
Quest’anno, invece, Vela ci ha smentiti, tutti: ha segnato 25 gol su azione, ed è davvero diventato, per LAFC, quello che Messi è per il Barcellona. In più, ha aggiunto una bella dose di commitment che non era lecito, né facile, prevedere.
Vi farà piacere conoscere questa versione thug life di Carlos Vela, straight outta Banc of California.
In fin dei conti la stagione di Vela conteneva i prodromi di quello che sarebbe stato fin dalle prime battute. A metà marzo, per esempio, ha segnato due gol allo Yankee Stadium, di cui il primo così:
Il gol in sé non è niente di troppo spettacolare: Vela ha molto spazio di fronte a sé, controlla con il sinistro, un controllo delicato da giocatore con una tecnica sublime, tre tocchi di cui l’ultimo, d’esterno, è un colpo di putter per metterla all’angolino. Di questa situazione, però, mi piace l’esultanza: Vela, il timido Carlos Vela, mima provocatorio un home run. Sul campo degli Yankee. Sembra addirittura divertito. Questa volta davvero.
Due settimane più tardi, a San José, LAFC sfracella gli Earthquakes: vince 5-0 e Vela segna una delle sue due triplette stagionali. Il primo gol fortifica l’immagine di un Vela irridente, tronfio, fondamentalmente stronzo che ci siamo già fatti a New York. Su un lancio apparentemente innocuo il portiere di SJ, Vega, si produce in una bruttissima uscita a vuoto. Vela trotterella verso la porta sguarnita, potrebbe appoggiarla e invece controlla, si porta avanti ancora un po’ la sfera. Da dietro Guram Kashia (con il quale, non so voi, ma io non farei neppure una rhyme battle) sopraggiunge come se avesse idea di portarsi a casa lo scheletro di Vela per appenderlo in salotto nel Día de los Muertos. E invece Vela lo aspetta fino all'ultimo momento disponibile prima di depositare la palla in rete.
E in quella partita c’è stato anche tempo anche per un altro a suo modo irrispettoso, questa volta per manifesta superiorità tecnica: una specie di arcobaleno disegnato sui cieli della California.
Dopo quel gol, Vela esulta allargando le braccia, mimando un gesto di supremazia che non è uno scimmiottamento di Zlatan (per il quale alla fine Carlos invece nutre un profondo rispetto, a quanto pare) ma l’ingenua eppure onesta constatazione del prodigio che prende forma. Il prodigio è passare quasi letteralmente attraverso due avversari come se fossero un casello autostradale e lui avesse il telepass, oppure l'ipnosi con la quale fa accasciare difensori a terra come fossero ubriachi.
Questo è già il 17oesimo gol stagionale, e eravamo solo a inizio luglio. Nel mezzo ci sono stati un sacco di gol con un tocchetto morbido, involate solitarie, qualche tap-in, e soprattutto la sua più classica signature move, cioè il movimento a rientrare dalla fascia destra con il tiro a giro di sinistro, sul palo opposto. LAFC a questo punto è diventato un oggetto che, con buona pace di Bob Bradley, trascende dalla tattica, dai moduli, e poggia quasi esclusivamente sulla presenza di Carlos Vela.
E ora dovreste vedere il gol numero 18, segnato a Vancouver.
Avete presente lo stop, no? Ecco, quel tipo di giocata è esattamente la cifra di ciò che Carlos Vela, quest’anno, a quel punto, era diventato: un giocatore che cammina sulle acque, al quale riesce tutto e tutto riesce bene, anzi benissimo. Uno che è a un tale livello di fiducia in se stesso che, se lo volesse, potrebbe pure dribblare ogni singolo avversario e passeggiare fin dentro la porta. Che è esattamente ciò che fa giusto sei settimane più tardi.
Il modo con cui Vela elude prima l'uscita e poi l'intervento da dietro con cui Mario Vega, portiere argentino dei San José Earthquakes, cerca di ucciderlo con un colpo sulla noce del collo, ha una bellezza eterea. Un tipo di leggerezza che somiglia, per come la vedo io:
- alla discesa con cui Alberto Tomba vinse lo slalom gigante a Sierra Nevada 1996
- a un giro per Lumbard Street in skate con la Go-Pro sul caschetto
- al fascino ipnotico dell’andatura dell'ex giocatore di hockey su ghiaccio Wayne Gretzky
A questo punto, bisogna chiedersi se le tre reti di Vela segnate nel Decision Day, e la conseguente vittoria del titolo di capocannoniere, rimettono in discussione l'idea che avevamo di Vela all'inizio del pezzo. Perché sollevano ancora più quesiti su di lui: è un giocatore che ha performato sotto le sue possibilità per tutti questi anni? È un giocatore troppo tecnico per la MLS? O semplicemente ha deciso che il 2019 doveva essere l’anno in cui avrebbe lasciato un ricordo luminoso di sé, dopo una carriera tutto sommato grigia?
Potete cliccare qua, invece, se siete in astinenza da rovesciate.
«Sono molto contento delle decisioni che ho preso lungo la mia carriera», ha detto all’inizio di questa stagione. «Possono essere state buone o cattive, ma in fondo ho sempre scelto ciò che mi rendeva felice».
A questo punto dovremmo chiederci, allora, se tra le cose che non rendono felice Carlos Vela ci siano la competitività, o lo stare sotto la luce dei riflettori. In un’intervista per Canal Plus, nel 2014, disse che a essere del tutto sinceri il calcio non è che lo appassionasse poi così tanto. Che non avrebbe giocato un Mondiale neppure alla PlayStation, e che preferiva il basket «ma mille volte di più».
A maggior ragione il suo talento lascia sbalorditi, perché è cresciuto da solo come una pianta infestante, come i capperi tra le rocce scoscese, senza particolare cura, senza premeditazione: eppure è vivo e ben osservabile dall’esterno, se è vero che l’anno scorso, prima che decidesse di virare su Kevin-Prince Boateng, anche il Barcellona lo aveva cercato.
I 34 gol (e mancano ancora i playoff, badate bene) di Carlos Vela quest’anno non ci restituiranno mai appieno un’immagine totalmente ripulita, forse, del fantasista messicano. Continueremo a chiederci perché Carlitos ha deciso di non darci soddisfazione, di fare di testa sua.