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Dario Saltari
Sarebbe giusto escludere l'Iran dai Mondiali?
09 nov 2022
09 nov 2022
L'Ucraina lo ha chiesto alla FIFA ma la questione è spinosa.
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Dario Saltari
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Mohammad Karamali/Getty Images
(foto) Mohammad Karamali/Getty Images
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Per favore adesso concentriamoci solo sul calcio! L’esclamazione quasi futurista viene da una lettera firmata dal presidente della FIFA, Gianni Infantino, e dalla sua Segretaria Generale, Fatma Samoura, e inviata pochi giorni fa alle federazioni dei 32 Paesi che parteciperanno ai Mondiali in Qatar. “Sappiamo che il calcio non esiste nel vuoto e allo stesso tempo siamo consapevoli delle molte sfide e difficoltà di natura politica che agitano il mondo. Ma per favore non permettete che il calcio venga trascinato in ogni singola battaglia ideologica o politica. Qui alla FIFA cerchiamo di rispettare tutte le opinioni, ma senza dispensare lezioni morali al resto del mondo”. Nella lettera, che è stata pubblicata da Sky Sport grazie al prezioso lavoro di Rob Harris, non si parla però di nessuna “battaglia ideologica o politica” in particolare, e questo ha permesso a chiunque di vederci dentro un richiamo a una delle molte istanze che potrebbero essere sollevate in Qatar, dove quello che sta per cominciare rischia di essere il Mondiale più politicizzato almeno dal 1978 (se non di sempre).

A cosa si riferiva la FIFA, quindi? In Europa, dove si è da sempre convinti che il proprio ombelico sia il centro del mondo, la lettera è stata ricondotta alla possibilità molto concreta che alcuni giocatori durante il Mondiale possano prendere posizione, forse anche in campo, contro il regime repressivo di Doha. Poche ore dopo la pubblicazione della lettera un gruppo di Paesi europei ha fatto sapere con un comunicato che non si concentrerà solo sul calcio ma che al contrario “continuerà a fare pressione” su alcuni temi caldi, per esempio la creazione di un fondo per i risarcimenti alle famiglie dei lavoratori migranti morti per la costruzione delle infrastrutture necessarie allo svolgimento dei Mondiali in Qatar. Del gruppo in questione fanno parte i Paesi che già avevano preso posizione sul rispetto dei diritti umani durante le qualificazioni ai Mondiali (come Belgio, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia) ma anche Svizzera, Portogallo, Inghilterra e Galles. Questi ultimi due, in particolare, hanno confermato che la loro Nazionale scenderà in campo con una fascia con un cuore arcobaleno e la scritta One Love, a sostegno della comunità LGBTQ+ che in Qatar è di fatto perseguitata - e ad alimentare il dibattito ci ha pensato l'ex calciatore Khalid Salman, oggi tra gli ambasciatori del Mondiale, che ha definito l'omosessualità una "malattia mentale".

Quella dei Paesi europei in questione è da una parte un’iniziativa nobile e inusuale per uno sport solitamente ignavo come il calcio, ma dall’altra anche un tentativo di controllo delle federazioni nei confronti di possibili gesti politici spontanei da parte dei calciatori, e questo da solo dà la misura di quanto questa possibilità sia concreta come mai successo in passato. C’è un’attesa tale di fronte a questa eventualità che nei giorni scorsi la frase che ha fatto più discutere nel calcio europeo è quella di Jurgen Klopp, secondo cui «i giocatori non dovrebbero essere messi nella posizione di dover mandare un messaggio». In questo senso, iniziative come quelle di Inghilterra e Galles proteggono i calciatori, permettendogli di mandare un messaggio politico senza la prospettiva di ritrovarsi da soli di fronte alle conseguenze, ma al tempo stesso li deresponsabilizzano, inserendoli loro malgrado in una comunicazione ufficiale che in quanto tale non può avere il potere dirompente che un gesto politico dovrebbe avere (tanto più in un contesto autoritario e repressivo come quello del Qatar).

Il Mondiale in Qatar è talmente inusuale da questo punto di vista che i fronti politici sono molti e a volte contraddittori. Come si fa a non pensare a temi politici e sociali guardando al girone B, dove il caso ha messo l’Iran nello stesso gruppo di Stati Uniti, Inghilterra e Galles? Da metà settembre l’Iran è attraversato da proteste e manifestazioni a volte anche piuttosto violente di protesta nei confronti del controllo sempre più stretto del regime islamico sui costumi delle donne, con l’hijab diventato simbolo di una repressione sessuale mal sopportata dalla complessa società iraniana. Questi tumulti sono stati accesi dalla morte della ventiduenne Mahsa Amini, probabilmente per mano della polizia religiosa che l’aveva arrestata per aver indossato “non correttamente” l’hijab, ma quello che è più interessante ai fini di questo pezzo, che non vuole andare alla radice dello scontento in Iran, è che hanno trovato nello sport una valvola di sfogo molto in vista.

Sono fatti noti anche a noi, pubblico occidentale, proprio per questa ragione: perché lo sport può arrivare a un pubblico generalista e internazionale che la stampa specializzata sugli esteri non si sogna nemmeno. Alcuni esempi. La decisione della campionessa di arrampicata, Elnaz Rekabi, di gareggiare ai Giochi Asiatici di Seul senza velo. Il gesto di tagliarsi i capelli di Saeid Piramoon, calciatore della Nazionale iraniana di beach soccer, dopo aver segnato il gol del 2-1 contro il Brasile che ha regalato alla Nazionale mediorientale la Coppa Intercontinentale. Il rifiuto della Nazionale di pallanuoto di cantare l'inno. La decisione dell’Esteghlal, uno dei più grandi club d’Iran, di non festeggiare dopo aver vinto la Supercoppa. Quella del club rivale Persepolis di indossare in una partita di campionato dei braccialetti neri in segno di supporto alle proteste.

La lunga lista di calciatori della Nazionale iraniana, del presente e del passato, che hanno espresso critiche, a volte anche molto dure, nei confronti del modo in cui le autorità del loro Paese hanno gestito le proteste, da leggende come Ali Karimi, Mehdi Mahdavi Kia e Ali Daei, fino ad arrivare a importanti giocatori di oggi come Sardar Azmoun (ci torneremo più avanti). O ancora, la lettera inviata alla FIFA da alcuni atleti iraniani, tra cui l’ex campione di karate, Mahdi Jafargholizadeh, che chiedono di escludere l’Iran dai Mondiali.

Lo sport, e il calcio in particolare, in Iran è diventato talmente rilevante a livello politico che il governo ha deciso di chiudere gli stadi di alcune partite di campionato per evitare che potessero diventare delle casse di risonanza per le proteste di piazza.

Che gli stadi fossero materia politica in Iran non è certo una novità, vista la lunga battaglia delle donne per poter vedere le partite dal vivo. Sulla questione potete approfondire con questa puntata di Trame, il nostro podcast di sport e geopolitica.

In questo contesto, la possibile esclusione dell’Iran dai Mondiali in Qatar ha assunto una concretezza che sembrava impensabile fino a poche settimane fa. Non tanto per le richieste che venivano da dentro l’Iran, come la lettera già citata o l’appello della ONG sui diritti umani Open Stadiums, quanto per quella che viene da una federazione che inevitabilmente tocca un nervo scoperto dell’opinione pubblica internazionale, e cioè quella ucraina.

Il 31 ottobre le autorità sportive di Kiev hanno chiesto ufficialmente alla FIFA di escludere l’Iran dai Mondiali, e chissà cosa hanno pensato quando Infantino gli ha indirettamente risposto invitando tutti a concentrarsi solo sul calcio. In ogni caso, è interessante che la federazione ucraina abbia cercato di motivare la propria richiesta da un punto di vista legale, di dimostrare cioè che l’esclusione dell’Iran dai Mondiali sarebbe giusta alla luce delle norme che regolano lo sport internazionale e non solo. Secondo Kiev, infatti, la sua esclusione sarebbe giustificata non solo dalla violenza con cui sta reprimendo le proteste, che «potrebbe violare i principi e le norme dello Statuto della FIFA», ma anche dal suo coinvolgimento nell’invasione russa dell’Ucraina, attraverso i celebri droni kamikaze che stanno devastando la rete energetica del Paese, cosa che violerebbe la Risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Rimanendo sul primo punto (tirare in ballo il diritto internazionale necessiterebbe di un pezzo a parte), è probabile che quando parla di “principi e norme dello Statuto della FIFA” l’Ucraina faccia riferimento agli articoli 3 e 4, cioè quelli sulla “lotta contro la discriminazione e il razzismo” e la “promozione di relazioni amichevoli”. In particolare il primo, quando dice che ogni discriminazione è “espressamente vietata, pena la sospensione o l’esclusione”, e il secondo quando dice che “la FIFA promuove le relazioni amichevoli in senso alla società civile, a fini umanitari”.

Come si può vedere, però, i principi e le norme della FIFA sono molto vaghi e generici, e non impongono necessariamente all’organizzazione di escludere l’Iran, per quanto violenta possa essere la sua repressione (e sicuramente lo è). Con un’interpretazione così rigida del proprio statuto la FIFA potrebbe cancellare per motivi diversi tutto il gruppo C, composto da Argentina (che ancora non riesce a fare i conti a livello giudiziario con il proprio problematico passato), Arabia Saudita (i cui problemi sul rispetto dei diritti umani sono noti), Messico (in cui ogni anno spariscono decine di persone con la probabile complicità delle forze dell'ordine) e Polonia (probabilmente il Paese più repressivo in Europa per quanto riguarda i diritti delle donne), e allargandola ulteriormente potrebbe escludere anche tutte le altre 28 squadre che parteciperanno al Mondiale.

La FIFA non è un’organizzazione che si è certo mai fatta scrupoli morali ma la sua storica ritrosia a entrare nel dibattito politico è anche giustificato dal tentativo di proteggere fin dove possibile l’universalità delle sue competizioni, tanto più da quando al massimo scranno sono arrivati Havelange e i suoi “figli”, Blatter e Infantino, che in modi diversi hanno tutti puntato sulla globalizzazione del calcio. È interessante in questo senso che anche nelle sue mosse più motivate politicamente, come per esempio l’esclusione della Russia e della Bielorussia per l’invasione dell’Ucraina (che pure ha cambiato il contesto politico dello sport internazionale), la FIFA abbia voluto, come dire, mantenere le apparenze.

Quando ha escluso la Russia dai playoff delle qualificazioni ai Mondiali, la FIFA nelle sue comunicazioni ufficiali non ha citato motivazioni politiche o legali ma i rischi per la sicurezza (per ovvi motivi) e l’integrità delle proprie competizioni, dato che l’avversario della Russia, cioè la Polonia, si era rifiutata di scendere in campo. È chiaro insomma che il contesto politico intorno allo sport abbia un peso di molto maggiore alle regole che lo sport si è dato al suo interno nel motivare le decisioni della FIFA, e alla luce di questo viene da chiedersi perché, se sono così interessati al benessere dei cittadini e delle cittadine iraniane, i governi di Stati Uniti e Regno Unito non abbiano chiesto alle proprie Nazionali di rifiutarsi di scendere in campo contro l’Iran. L’occasione è proprio lì davanti a loro.

Se il piano politico è più rilevante di quello legale, è lecito anche chiedersi se escludere l’Iran dai Mondiali sia giusto al di là dalle norme e da ciò che farà la FIFA. È un interrogativo che si lega alla già citata importanza politica del calcio nel Paese mediorientale. Escludere l’Iran, infatti, sicuramente provocherebbe un’eco internazionale senza precedenti e quindi un danno politico per la repubblica islamica che si ripercuoterebbe sia sulle sue relazioni internazionali che sulla sua stabilità interna, vista la popolarità del calcio all’interno del Paese.

Il già citato Mahdi Jafargholizadeh ha dichiarato che «il calcio è il miglior modo di far sentire le nostre voci» e che «una delle ragioni più importanti per cui la FIFA dovrebbe escludere l’Iran è che tutti in giro per il mondo si chiederebbero: che sta succedendo?». Proprio per la carica politica che ha assunto il calcio in Iran, però, non è così peregrino sostenere anche il contrario, e cioè che escludere l’Iran toglierebbe ai suoi giocatori un palcoscenico irripetibile per esprimere il proprio dissenso nei confronti del regime. Lo ha scritto ad esempio l’editor di Inc. Magazine, Bill Saporito, sul Washington Post, e in Italia lo storico dello sport Nicola Sbetti.

A questo proposito, sarebbe anche un errore pensare alla Nazionale iraniana come un blocco politicamente monolitico, che sia pro o contro il regime degli ayatollah. Il Guardian ha raccontato di come al contrario lo spogliatoio dell’Iran si sia fratturato quasi esattamente a metà sulla questione, tra chi ha espresso esplicitamente delle critiche al regime come Sardar Azmoun (ancora fedele al tecnico croato Dragan Skocic, che ha guidato l’Iran fino agli inizi di settembre) e chi invece ha dimostrato di essere meno sensibile a ciò che avveniva in patria, come Mehdi Taremi, apparentemente più vicino al “nuovo” tecnico Carlos Queiroz secondo cui «la maggior parte del popolo iraniano vuole la Nazionale ai Mondiali».

La tensione in Iran su ciò che faranno i calciatori della Nazionale in Qatar, e non solo in campo, è palpabile, in un contesto in cui la completa libertà d’espressione è tutt’altro che assicurata. Taremi è stato molto criticato per aver esultato dopo un gol in amichevole contro l’Uruguay lo scorso 23 settembre, nello stesso periodo in cui invece in patria l’Esteghlal in segno di protesta aveva deciso di non festeggiare la vittoria di un trofeo. Allo stesso modo Azmoun, che inizialmente sul proprio profilo Instagram aveva inneggiato alle proteste anche a costo di essere cacciato dalla Nazionale («un piccolo prezzo in confronto anche a una singola ciocca di capelli delle donne iraniane»), poco dopo è stato costretto a ritrattare. Il capo della magistratura iraniana, Gholam-Hossein Mohseni-Ejei, in questo senso è stato chiaro: «chi è diventato famoso grazie all’aiuto del sistema e si è unito al nemico ora che i tempi sono difficili» verrà punito.

In un contesto in cui nemmeno i calciatori della Nazionale possono dirsi del tutto al sicuro di fronte alle ritorsioni del potere politico dovremmo dare ancora meno per scontati eventuali gesti di dissenso. Un’esultanza particolare, una maglietta o un braccialetto avrebbero un peso enorme per le proteste in Iran, non solo per la visibilità assicurata dal Mondiale, ma anche per le squadre che l'Iran si ritroverà ad affrontare. Una vittoria contro gli Stati Uniti, per dire, sarebbe un’opportunità propagandistica senza precedenti per il regime di Teheran, ma cosa succederebbe se arrivasse con un’esultanza a sostegno delle manifestazioni di piazza? Farebbe più danno questo o un’esclusione dal Mondiale? E se nessuno dei giocatori trovasse il coraggio di fare qualcosa di simile, il regime iraniano ne uscirebbe rafforzato?

Difficile rispondere a queste domande da qui, dove abbiamo ancora il lusso di poter giudicare queste scelte in astratto, senza essere costretti a farle in una realtà in cui uno dei nostri familiari e amici potrebbe fare una brutta fine. Quel che è certo è che alla luce di tutto questo appare ancora più grottesca l’esortazione della FIFA alle Nazionali che parteciperanno al Mondiale. Come possono i giocatori iraniani concentrarsi solo sul calcio?

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