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Breve storia dello sport americano contro Trump
29 set 2017
29 set 2017
La protesta di questi giorni ha origini lontane, i tweet di Trump hanno fatto da megafono a un dissenso profondo.
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Quando venerdì scorso il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump è salito sul podio di una convention per sostenere la rielezione del Senatore Luther Strange a Governatore dell’Alabama, la sua riforma dell’Obamacare era nuovamente a rischio a causa del voto contrario di John McCain. Allo stesso tempo, Porto Rico era stata messa in ginocchio dall’Uragano Maria (in seguito Trump dirà che la colpa è dell’enorme debito pubblico dell’isola caraibica).

In quel momento, però, il suo interesse non si è rivolto a tali questioni, e neanche ai sussurri che riguardano suo genero, Jared Kushner, reo di aver utilizzato la propria mail personale per inviare materiale sensibile (la stessa accusa mossa da Trump verso Clinton in campagna elettorale, come scritto da Politico). La sua presenza nello Stato delle Camelie era dovuta alla mission impossible di spingere “Big Luther” verso una nuova candidatura per lo scranno da governatore, in una sfida tutta interna al partito Repubblicano con Roy Moore, outsider sponsorizzato sia da ex collaboratori di Trump come Steve Bannon, sia dall’establishment del GOP come la senatrice dell’Alaska Sarah Palin, e che i sondaggi danno in vantaggio sul candidato uscente.

Trump, esaltato dalla pugna, si lancia in una lunga invettiva che colpisce molti dei suoi bersagli preferiti, tra cui Russia, Little Rocket Man e i “Bad People” non identificati che minacciano la sicurezza dell’America. Tra questi ultimi, secondo il POTUS, ci sono i professionisti della NFL che rimangono seduti o inginocchiati durante l’esecuzione dell’inno nazionale.

“Non vi piacerebbe vedere i presidenti delle squadre NFL, quando uno dei loro giocatori non rispetta la bandiera americana, dire ‘Caccia quel figlio di p*****a dal campo? He’s FIRED!’”.

Il FIRED è ripetuto due volte, salendo di ottava in ottava come nel momento cruciale di una puntata di The Apprentice. Il pubblico risponde entusiasta intonando un ritmato coro “U-S-A, U-S-A”, autorizzando il Presidente ad insistere sul fatto che inginocchiarsi durante l’inno sia “una totale mancanza di rispetto verso le nostre tradizioni, una totale mancanza di rispetto verso tutto ciò per cui noi ci battiamo”.

Trump poi collega le proteste degli atleti e le nuove regole istituite per preservare questi ultimi dai rischi di Concussion con l’abbassamento degli ascolti delle partite della Lega, divenute scaramucce e non più sanguinose battaglie. È chiaro che a Trump non interessano le persone, interessa solo lo spettacolo.

Infatti, con grande senso scenico, il giorno dopo, a Wembley (UK), si è giocata la prima partita dei NFL International Games tra i Jacksonville Jaguars e i Baltimore Ravens. Entrambe le squadre si sono schierate sul prato dello storico stadio londinese intrecciando le braccia l’un con l’altro, con ventisette giocatori che si sono inginocchiati.

Per la prima volta la protesta non è confinata nel gesto di un singolo, ma entrambe le squadre esprimono un messaggio comune, forte, definito. Identitario.

L’omino con i baffi alla Hercule Poirot e il doppiopetto di Savile Row è Shad Kahn, il primo proprietario a unirsi ai propri giocatori. Nato in Pakistan, in passato ha donato anche un milione di dollari per la campagna elettorale di Donald Trump.

Il fuso orario di Londra ha anticipato quello che a breve sarebbe successo anche in America: nella gara tra Seattle Seahawks e Tennessee Titans le due squadre sono rimaste negli spogliatoi durante l’inno, così come i Pittsburgh Steelers a Chicago. In California l’intera linea d’attacco degli Oakland Raiders, l’unica composta interamente da afro-americani, si è inginocchiata seguita da tutto il resto della squadra. Gli avversari, i Washington Redskins, erano in piedi abbracciati.

A Phoenix i Dallas Cowboys, The American’s Team, guidati dal proprietario Jerry Jones, si sono inginocchiati tutti insieme prima dell’inno, per poi ascoltare in formazione “The Star-Spangled Banner”. Jones, amico e finanziatore di Trump, ha poi spiegato come l’obiettivo fosse di dimostrare unità e uguaglianza senza dover mancare di rispetto alla bandiera statunitense. Trump ha twittato descrivendo Jones come “un vincente che sa come fare le cose nel modo giusto” e che il boato di disapprovazione del pubblico durante le dimostrazioni delle due squadre a Phoenix è uno dei rumori più sonori che abbia mai sentito.

Trump, durante tutta la durata della giornata di football, si è affidato al suo canale di comunicazione preferito per commentare e stigmatizzare ciò che stava accadendo. Come già affermato in Alabama, “Mr. President” ha cristallizzato la protesta dei giocatori in un diretto attacco alle Forze Armate e all’idea di America che la bandiera configura. È ovviamente una distorsione delle reali ragioni che hanno mosso più di 150 atleti a inginocchiarsi, seguendo l’esempio che più di un anno fa aveva dato loro il quarterback di riserva dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernick.

Eric Reid, uno dei pochi ad inginocchiarsi accanto a Kaepernick lo scorso anno, ha scritto un articolo sul New York Times in cui racconta come lui e Colin abbiano scelto di scelto di inginocchiarsi perché lo consideravano un gesto di rispetto verso la bandiera, i militari e il loro paese. Reed cita James Baldwin, una delle grandi coscienze nere americane, quando dice di essere “orgoglioso di essere americano, ed esattamente per questa ragione insisto nel diritto di esprimere il mio dissenso”. A chi ritiene che tale dissenso non vada dimostrato nella sacralità dell’inno nazionale, Drew Brees, il quarterback dei New Orleans Saints, risponde che da americano sentirà sempre l’inno come un’opportunità per schierarsi insieme e per rispettare il proprio paese.

I segni di protesta non sono rimasti confinati solo durante l’esecuzione dell’inno: Odell Beckham Jr., dopo una miracolosa presa in end zone, festeggia alzando il pugno destro imitando Tommie Smith e John Carlos a Mexico ‘68.

Oltre a chiedere il licenziamento in tronco di ogni atleta che avesse appoggiato il proprio ginocchio sul prato da gioco e dopo aver esortato il pubblico a lasciare in massa l’impianto di fronte a tali scene, Trump si è appellato ai proprietari delle squadre e alle alte cariche dell’NFL di prendere provvedimenti drastici.

Una richiesta che è caduta inascoltata. Lo stesso Commissioner Roger Goodell, una delle figure più lontane dalla definizione di Liberal Democratico, si è congratulato con i giocatori e gli owners della Lega per il modo con il quale hanno reagito durante il weekend alle parole del Presidente. “Sono orgoglioso di questa Lega” ha concluso.

"U bum"

Mentre la più importante lega sportiva statunitense si schierava compatta contro le sue intempestive uscite, Trump ha pensato bene di gettare altra benzina sul fuoco cancellando in 140 caratteri l’invito dei Golden State Warriors alla Casa Bianca. Un gesto di ripicca dopo che Stephen Curry e altri suoi compagni avevano già declinato l’invito.

Pochi giorni prima il due volte MVP aveva dichiarato in conferenza stampa che non se la sentiva di festeggiare il titolo con una Presidente con cui non condivide alcuna posizione o dichiarazione. “Spero che il nostro gesto di rinunciare (alla tradizionale visita) ispirerà in seguito qualche cambiamento quando si tratterà di discutere cosa tolleriamo e cosa accettiamo in questo paese. Non è solo un nostro capriccio, ci sono cose che bisogna fare per trasformare un messaggio in un movimento”. E Curry aveva effettivamente ragione: il suo messaggio ha messo in moto un pericoloso effetto domino.

Sotto il tweet di Trump è arrivata dal nulla la risposta di LeBron James, imperiale quanto la stoppata su Iguodala in Gara-7, che ha definito Trump un “Bum” (dal Cambridge Dictionary: “Inutile o di scarso affidamento”). Oltre alla discutibile scelta di inimicarsi le due star più rappresentative dell’NBA un minuto dopo aver unito contro di sé decine di suoi finanziatori, Trump ha sbagliato anche il tempismo, facendolo a ridosso del Media Day, la giornata votata alla presentazione della nuova stagione durante la quale i giocatori sono a disposizione dei giornalisti per qualsiasi tipo di domanda.

E i giocatori non si sono fatti pregare. Chris Paul, una delle voci più ascoltate e Presidente dell’Associazione dei giocatori, ha prima citato LaVar Ball con un pregevole hashtag #StayInYoLane e successivamente ha dubitato che Trump abbia il coraggio di definire i giocatori “figli di puttana” avendoli davanti.

J.J. Redick ha definito l’intera presidenza una derisione delle istituzioni che nominalmente rappresenta, mentre Bradley Beal lo ha definito “un clown senza alcuna capacità di leadership”. Ma tutti i giornalisti erano in attesa della portata principale: i commenti del Re.

James è sempre stato un veemente critico di Trump, tanto da aver rifiutato di alloggiare in Hotel di proprietà del Presidente oltre ad essersi speso in prima persona per Hillary Clinton in Ohio, usando il suo potere mediatico per accendere i riflettori sui problemi della società americana: l’anno scorso reclutò Dwyane Wade, Carmelo Anthony e Chris Paul per un toccante discorso in ricordo delle vittime afroamericane sul palco degli ESPYs.

LeBron ha scherzato in conferenza stampa, paragonando Trump ad un ragazzino viziato che non accetta i rifiuti alle proprie feste di compleanno, difendendo la scelta di Curry e dei Golden State Warriors - che in teoria dovrebbero essere i suoi maggiori rivali, ma davanti a certe cose non c’è divisione sportiva che esista.

Le prese di posizione più forti sono arrivate da tre allenatori. David Fizdale, coach dei Memphis Grizzlies, ha elencato tutte le occasioni nelle quali Trump ha insultato direttamente le forze armate, dai commenti su John McCain al “Transgender Ban” fino al mettere in pericolo i militari stanziati in Estremo Oriente giocando a braccio di ferro con Kim Jong Un.

Take that for data!

Come sempre sono stati Steve Kerr e Gregg Popovich ad essere chiamati a rappresentare l’umore generale della Lega e a prendere una posizione dura e chiara. I due hanno rilasciato profonde e affilate interviste, a cui ha fatto seguito la lettera di Kerr a Sports Illustrated nella quale ha precisato i motivi dietro la rinuncia dei suoi giocatori alla visita alla Casa Bianca. Entrambi hanno fatto riferimento a come il Presidente stia minando l’unità del Paese.

“Questo è il periodo storico con più divisioni che io ricordi dal Vietnam e a causa di tutte le differenze che esistono nel nostro paese il Presidente ha reso molto difficile per noi onorare l’istituzione che rappresenta” ha spiegato l’Head Coach della squadra campione ai microfoni dei giornalisti lunedì. La sua lettera termina con un eloquente appello: “Lei ci rappresenta tutti, non ci separi. Ci tenga uniti”.

Se Kerr cerca un contatto con Trump, chiedendogli di trasformare la rituale visita tutta strette di mani e sorrisi in un confronto necessario sulle tematiche che le recenti proteste hanno portato a galla, le parole di Popovich sono macigni. “Lo avete visto a Charlottesville come determinate persone (quelle che vorrebbero cacciare i giocatori che protestano dagli USA, ndr) si sentano abilitate a compiere certi atti dall’esempio che gli viene dato, trasformando il nostro paese in una vergogna mondiale”. Come per magia, appena le interviste non si svolgono a bordo campo, Coach Pop non scappa più dai microfoni ma punta il dito direttamente verso colui che ritiene essere il simbolo della xenofobia, del razzismo, della misoginia e della omofobia.

Tra la polvere alzata ci si è quasi dimenticati che per la prima volta si è unito alla protesta anche un giocatore della MLB, il catcher degli Oakland Atlethics Bruce Maxwell. Figlio di una coppia interrazziale, cresciuto in una piccola cittadina a stragrande maggioranza bianca, la sua storia in qualche modo ricorda quella di Colin Kaepernick: un grande talento costantemente alla ricerca di se stesso e che alla fine ha riscoperto le sue origini attraverso un gesto intimo quanto plateale.

La Via Crucis di Kaepernick

Sembra passato un secolo da quando un giornale locale di San José scriveva nell'agosto 2016 che durante l’inno c’era un giocatore seduto davanti ai frigoriferi per le bevande, dando inizio alla Via Crucis di Kaepernick. “Non cerco l’approvazione di nessuno” disse in una delle sue prime interviste, quando Barack Obama era ancora in carica. “È il mio modo di aiutare tutte le persone che vengono oppresse quotidianamente”.

Eravamo al culmine del movimento Black Lives Matter, sorto dopo l’uccisione di Michael Brown a Ferguson nell’agosto del 2014 e poi divenuto il network principale di contestazione dei numerosi omicidi per mano di agenti di polizia. Colin divenne il simbolo, anche forzatamente cristologico, dello sportivo di successo che immola la sua aurea, la sua carriera per qualcosa più grande di lui. In molti non apprezzarono il gesto: l’inginocchiarsi sull’erba mentre risuonava l’inno a stelle e strisce era visto come un inutile narcisismo fine a se stesso, un pericoloso radicalismo. Ora molti di quelli che si esprimevano contro Kaepernick sono in prima fila, braccia serrate e sguardi verso il prato da gioco.

L’unico che non ha cambiato idea su Kaepernick è il Presidente degli Stati Uniti, che già quando il quarterback era alla ricerca di una squadra si vantava che nessuno volesse dargli una chances per paura di incappare in un suo tweet. Ed in effetti aveva ragione lui. Kaepernick è al momento senza contratto, nonostante i suoi numeri e il suo talento dovrebbero indicare il contrario.

Ora che la sua battaglia da individuale è diventata globale, Trump non si è di certo perso d’animo. Per tutto il fine settimana i tweet sono piovuti senza tregua, dall’alto, come se arrivassero da un’altra dimensione. Gran parte di questi condannava la gestualità scelta dagli atleti per esprimere il loro dissenso, dissertando di puro e semplice formalismo come se si stesse descrivendo una cassapanca rococò. Delle ragioni o degli scopi della manifestazione, nessuna parola.

D’altronde non servivano, visto che Trump, con una sola mossa da brillante politico, ha asciugato la portata dialogica della protesta, inaridendola in un becero scontro noi-contro-di-voi. Da una parte il Presidente e gli autodefiniti “patrioti”, dall’altra gli stupratori della sacralità nazionale, ingrati miliardari che dovrebbero pensare allo sport e non alla politica. Il messaggio di Trump è molto chiaro: è maggiormente disgustato dalla vista di atleti di colore che protestano pacificamente contro il razzismo presente nel loro Paese, piuttosto che dal razzismo stesso.

Più volte il Presidente in questi giorni ha ribadito come il suo scagliarsi contro gli atleti non avesse nulla a che vedere con questioni razziali, ma fosse solo una strenua difesa dei valori fondanti della nazione - decidendo di fatto quale fosse il terreno del confronto e decidendo il linguaggio da utilizzare. Trump è un esperto nel scegliere le narrazioni con le quali spaccare l’opinione pubblica nazionale, sapendo quanto creare conflitti sia l’unico modo che ha di mantenere il potere. Così l’NFL questa settimana è servita allo stesso scopo di ESPN nella settimana precedente: ad evitare che l’attenzione cadesse sui problemi politici del suo Governo o sulle sue beghe legali.

Il suo personaggio da sbruffone machista e ipocrita ha ormai costruito un personale Zibaldone da cui strappare qualche pagina con cui infuocare gli spiriti ad ogni evenienza. Questa volta ha caricaturato il movimento dei diritti umani disegnando gli atleti come dei bambocci ricchi e viziati, incapaci di cogliere la fortuna di vivere in America, affilando le armi usate in campagna elettorale.

Come scrive Ta-Nehisi Coates in “We Were Eight Year In Power”, l’essere bianco in America per Trump non ha una valenza speculativa o simbolica: è semplicemente l’idea stessa di potere. Per questo LeBron o Curry, che guadagnano milioni facendo la cosa che sanno fare meglio, sono degli ingrati. Perché per Trump questo non è un diritto, è una concessione.

Una discrasia che ha chiarito Trevor Noah durante il suo Daily Show (commentando il tweet di un Senatore Repubblicano che accusava Stevie Wonder di essere “un altro ingrato multimiliardario afroamericano”).

“Questa idea che le persone di colore debbano essere grate contiene un fastidiosissimo razzismo; infatti, quando un miliardario bianco (Trump ovviamente n.d.r.) passa un anno a urlare come l’America sia diventata un disastro, viene percepito come uno che si interessa al proprio paese”.

Per Trump e i suoi accoliti è facile essere dalla parte giusta della Nazione; per chi invece esiste dentro una minoranza razziale o religiosa l’aderenza completa ai valori puri dell’America non sarà mai possibile, per il semplice fatto che il patriottismo non è mai stato disegnato per essere un’esperienza simmetrica. E nonostante ciò gli atleti inginocchiati nei campi di mezza America assumono a loro modo il loro ruolo nella società.

Kaepernick lo scorso anno non ha mai mancato di rispetto alla bandiera o ai militari che rischiano la propria vita per difendere il paese, anzi il gesto di inginocchiarsi invece che di rimanere seduto gli fu consigliato proprio da alcuni veterani. I centinaia di sportivi che questa settimana hanno protestato in silenzio non lo hanno fatto contro il Presidente; è stato Trump a mettersi in prima persona al centro del dibattito pubblico, perché è l’unico punto di vista che conosce. Non è in contrapposizione con le star dell’NFL o dell’NBA: è completamente su un altro piano. Mentre i primi chiedono a gran voce una discussione significativa sulla razza e i privilegi in America, Trump cerca solo il consenso, l’adulazione popolare.

Il vero problema non è che degli atleti parlino di politica, il problema è che degli atleti parlino di politica, razza e integrazione con maggior profondità, cognizione di causa e senso critico del Presidente degli Stati Uniti.

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