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I Boston Celtics non piacevano neanche a loro stessi
09 mag 2019
Partiti come candidati numeri uno al trono della Eastern Conference, Kyrie Irving e compagni si sono schiantati ai playoff tra mancanze e contraddizioni.
(articolo)
18 min
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Boston, 6 maggio 2019

C'è uno strano silenzio al TD Garden mentre scorrono gli ultimi secondi di gara-4 delle semifinali della Eastern Conference. Il pubblico sciama verso le uscite, Kyrie Irving si rifugia negli spogliatoi prima ancora della sirena finale, gli altri si scambiano saluti poco convinti mentre, dagli spalti, arriva qualche ululato e qualche fischio. Il pensiero di molti è inevitabile: è stata l'ultima partita di Kyrie Irving in maglia Celtics al Garden?

Di sicuro è stata l'ultima partita casalinga della stagione di Boston, perché i Bucks - come era facilmente preventivabile - hanno poi chiuso le formalità in gara-5 al Fiserv Forum. Nel rotondo 4-1 che proietta Milwaukee verso le finali di conference c'è tantissimo merito per coach Mike Budenholzer e per i suoi ragazzi, ma dopo quella gara-1 dominata dai Celtics in territorio nemico è sembrato tutto troppo facile. Milwaukee si è rialzata aggiustando le percentuali da tre punti e ritrovando l'apporto fondamentale di Khris Middleton, ma anche architettando soluzioni tattiche a cui Boston, in quattro partite, non ha saputo adattarsi.

Per eludere la marcatura di Horford e il muro a tre uomini che attendeva le penetrazioni di Giannis, il greco ha variato il proprio modo di attaccare e ha sfruttato i blocchi dei compagni per generare accoppiamenti favorevoli, concessi con generosa frequenza dalla difesa Celtics. E quel che più conta, la second unit dei Bucks ha strapazzato i pari ruolo di Boston, chiudendo le due partite al Garden con un vantaggio di 67-23. Di solito si tratta di una statistica che indica un maggiore impegno, una maggiore dedizione alle effort plays, un maggiore investimento emotivo.

E se la panchina imbarca acqua contro George Hill e Pat Connaughton, assistere alla propria stella tirare 8/22 e 7/21 in gara-3 e 4 non aiuta. Parliamo di Kyrie Irving, autore dei peggiori playoff della carriera nel tiro dal campo (40%), tiro da tre (33%) e palle perse (3.1). E dire che la stagione, proprio con Kyrie nel ruolo di protagonista, si apriva con tutt'altre prospettive.

Il riassunto della gara-4 di Kyrie Irving.

Boston, 4 ottobre 2018

Mancano dodici giorni all'inizio della stagione NBA e Kyrie Irving occupa uno sgabello sul parquet del Garden accanto a Gordon Hayward e Brian Scalabrine, a suo agio sotto il fuoco incrociato dei riflettori. Si è presentato con un look nuovo al training camp - capelli e barba incolti, fascia sulla fronte - ma non si è ancora premurato di sciogliere l'interrogativo che tiene sotto scacco i Celtics: che intenzioni ha per l'estate 2019, quella in cui diventerà free agent?

Kyrie Irving sfoggia un sorriso luminoso: «Se voi siete d'accordo, ho in mente di restare qui», dice, mentre il pubblico tira un sospiro di sollievo – e nel petto sente già montare l'entusiasmo. Al momento dell'esordio stagionale, in trasferta a Philadelphia, quell'entusiasmo è cresciuto ulteriormente e le aspettative sono altissime. Brad Stevens vara un quintetto su cui testate specializzate e analisti si sono lambiccati il cervello per mesi. “Fantascientifico” era uno dei termini più gettonati per descriverlo, modellato sull'esempio dei Golden State Warriors e costruito per batterli. Kyrie Irving, Jaylen Brown, Gordon Hayward, Jayson Tatum, Al Horford: un lungo di riferimento, una guardia, e tre ali perfettamente intercambiabili. Cinque giocatori completi, tutti pericolosi dal perimetro, nonché validi difensori se si offre la dovuta protezione a Irving.

In verità, il quintetto aveva già fatto la sua prima comparsa, esattamente dodici mesi prima e per soli cinque minuti. L'infortunio di Gordon Hayward aveva stravolto i piani, costringendo Brown e Tatum a una crescita accelerata. Abbracciarono la responsabilità con successo, specialmente il secondo, fino all'apice di quelle finali di conference contro Cleveland – mancava per infortunio anche Irving – dove Tatum battagliò ad armi pari con LeBron James guadagnandosi la benedizione del Re. Per questo le aspettative erano così elevate: se una squadra priva di Irving e Hayward era arrivata così lontano, col roster al completo e una Eastern Conference indebolita dalla migrazione di James verso Ovest l'obiettivo doveva spostarsi inevitabilmente sulle Finals.

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La serie in cui Tatum ha fatto gridare a tutti “Ecco la nuova superstar della NBA”.

Portland, 11 novembre 2018

I Celtics hanno appena perso la sesta partita nelle prime tredici, mentre Bucks e Raptors hanno già preso il largo in cima alla Eastern Conference. Kyrie Irving non sta tirando bene - 2/14 nell'opener coi Sixers, tre miseri punti contro i Pistons una settimana dopo -, anche perché l'attacco non sembra in grado di aiutarlo a generare buoni tiri. La colpa dev'essere dei capelli lunghi e della barba, si scherza nell'ambiente. Quando si è ripulito il look, come per invitare tutti a concentrarsi su quel che accade in campo, ha in effetti mandato agli archivi una prestazione da 31 punti nella rivincita con Detroit del 30 ottobre, ma poi Boston è tornata a perdere arrendendosi a Pacers e Nuggets.

Appare evidente a tutti che Gordon Hayward non è quello della stagione da All-Star con gli Utah Jazz. È un giocatore diverso, e probabilmente anche un uomo diverso. Brad Stevens invitava alla pazienza e a valutare il recupero di Hayward mese dopo mese, ma intanto il coach doveva affrontare una difficile missione: ammorbidire il rientro in campo della sua stella senza tirare troppo il morso a Brown e Tatum, che scalpitavano per riavere i tiri e le responsabilità assaggiate nei playoff precedenti. Mettiamoci pure Terry Rozier, salito in cattedra con la gimmick di Scary Terry nella post-season del 2018, e desideroso di cavalcare l'onda per guadagnarsi un posto da point guard titolare in estate alla scadenza del contratto da rookie.

Il 19 novembre arriva un'amara retromarcia. Il quintetto da fantascienza non funziona – alla fine della stagione avrà registrato un Net Rating di -2, il terzultimo tra le lineup che Brad Stevens ha schierato per almeno cinquanta minuti. Hayward si accomoda in panchina, seguito a qualche giorno di distanza anche da Jaylen Brown. Al loro posto i due Marcus, Smart e Morris. I cronisti intanto chiedono pareri a Irving, che oltre al leader sta diventando il termometro emotivo della squadra, e lui non si preoccupa di nascondere i sospetti con la diplomazia. «Questi ragazzi non sanno cosa vuol dire giocare per l'anello. Pensano che sia dura adesso, ma come faranno quando arriveremo a giocarci le Finals?» dirà un paio di mesi più tardi. Nello spogliatoio dei Celtics, le sconfitte sembrano aver alimentato una disputa tra giovani e anziani.

Detroit, 15 dicembre 2018

I Pistons prevalgono sui Celtics alla Little Ceasars Arena, ma nonostante la sconfitta nel tabellino dei risultati i musi dei Celtics sono tutt'altro che lunghi. Finisce così una striscia di otto vittorie che ha riportato Boston a contatto coi primi posti della Eastern Conference e che ha visto la squadra di Stevens scalare posizioni in ogni categoria statistica. La scintilla, come l'anno precedente, parte dalla difesa: a fine 2018 erano secondi per defensive rating e durante la striscia erano migliorati anche nel rating offensivo - anche se poi a fine stagione sono scivolati rispettivamente all'ottava e quattordicesima posizione.

Ad ogni modo, Gordon Hayward sembra aver affrontato nel modo giusto la retrocessione in panchina. Stevens lo impiega come guida della second unit e in due mesi il suo Net Rating schizza da +1.5 a +9.7: godendo più spesso del possesso del pallone, Hayward può riprendere confidenza con le dinamiche della partita e aiutare la squadra grazie alla sua propensione al playmaking, approfittando al tempo stesso della difesa meno severa messa in campo dalle riserve avversarie. Tocca i 30 punti in trasferta a Minneapolis, poi si assesta su una parabola composta da alti e bassi.

Jaylen Brown appare invece meno a suo agio nel nuovo ruolo. Quando escono i primi dati sul Real Plus Minus, Brown occupa la posizione 417 su 430. Marcus Smart intanto l'ha preso sotto la propria ala: tra caratteri spigolosi ci s'intende, e infatti i due mettono in scena un alterco in panchina, che alla fine diventerà fonte di motivazione per entrambi. Ma c'è fiducia che Brown comprenda la necessità di fare un passo indietro, rinunci a qualche responsabilità offensiva e ritrovi l'aggressività e l'energia dell'anno precedente. Boston mostra basi solide: forse Stevens è riuscito a far quadrare i conti anche a questo giro, si dice, mentre l'efficienza offensiva e la fluidità negli scambi in attacco arriveranno col tempo. Non sono molti quelli che si soffermano su un dettaglio: la striscia di otto vittorie è arrivata ai danni di squadre che chiuderanno l'annata ben al di sotto del 50%.

Orlando, 13 gennaio 2019

Mentre ci si avvicina al weekend dell'All-Star Game, l'NBA è travolta dall'affaire Anthony Davis, che raggiunge picchi grotteschi per colpa di indiscrezioni lasciate trapelare troppo facilmente. I Los Angeles Lakers sono quelli che hanno pagato le conseguenze più pesanti: dopo il rifiuto da parte della dirigenza Pelicans della godfather offer – che metteva sul piatto tutti i giovani del roster insieme a un ricco carnet di scelte – lo spogliatoio è sembrato disgregarsi, coi vari Ball, Kuzma e Ingram verosimilmente sfiduciati dalle voci di trade. Boston aveva le mani legate sulla faccenda: non è consentito avere sul libro paga due contratti stipulati con la “Rose rule”, e sia Irving che Davis ne sono titolari. Nondimeno, le macchinazioni di Danny Ainge sono sulla bocca di tutti in questo periodo, specialmente quando New Orleans si ostina a non cedere Davis ai Lakers: l’ipotesi che va per la maggiore è che si accorderanno con Boston in estate, quando Irving sarà libero di firmare un nuovo contratto.

A questo punto va inserito nell'equazione anche Jayson Tatum. Pochi mesi prima, dopo la già citata serie di playoff contro Cleveland, proporlo in una trade appariva un'idea folle: era il futuro della franchigia, non più un “semplice” rookie che aveva azzeccato l'annata giusta. A metà stagione 2019, alcune delle sue voci statistiche registrano un calo preoccupante o non mostrano i miglioramenti che ci si aspettava. Oggi Tatum segna due punti di media in più a partita, 15.7 contro 13.9, ma tira col 45% dal campo (nel 2018 era al 47.5%).

L'imprecisione al tiro è in parte comprensibile: anziché operare sugli scarichi, Tatum è chiamato più frequentemente a crearsi il proprio tiro in situazioni difficili, e in estate ha lavorato a fianco di Kobe Bryant proprio per migliorare questo aspetto del proprio gioco. La percentuale di canestri assistiti è scesa dal 66% al 58% mentre gli isolamenti salgono di due punti percentuali, ma la sua capacità di trasformare gli uno-contro-uno in canestri ne risente: dal 37% al 31%. Non basta l'allenamento in palestra per diventare il Black Mamba, insomma.

Il nuovo approccio di Tatum si traduce in una tendenza a scelte di tiro discutibili, in controtendenza con la lezione che insegnano le statistiche avanzate: è il 24° giocatore della lega per numero di tiri presi tra 14 e 19 piedi dal canestro, le cosiddette long twos che rappresentano il 28% delle sue soluzioni, e li converte col 37.7%. Un dato preoccupante, se consideriamo quanto il Tatum 2018 brillasse in efficienza nel fondamentale forse più importante della lega: 43.4% nel tiro da tre punti, sceso dodici mesi dopo al 37.3%. Spostandoci vicino al ferro, la seconda zona verso cui si polarizza il gioco NBA, Jayson Tatum realizza appena il 32% dei tentativi contrastati nel pitturato: un'evoluzione nel suo gioco che in molti si aspettavano, e che deve passare anche da un salto di qualità dal punto di vista fisico, e che invece non è arrivata.

Nel complesso, invece, la squadra si muove verso un'idea di attacco più moderna e efficiente, nonostante la clamorosa mancanza di punti ad alto valore generati dai tiri liberi (29° nella lega per liberi tentati). I Celtics sono settimi per triple tentate e sesti per percentuale dall'arco, così come settimi per punti in contropiede. Un buon passo avanti, considerando che le squadre di Stevens non hanno mai avuto la nomea di forze offensive trascinanti.

Troppe volte in questa stagione si sono visti possessi come questo.

Intanto, i Celtics sono tornati all'altalena di risultati di inizio stagione e bazzicano stabilmente a metà della zona playoff. Innervosito dalle voci di trade, Tatum interviene con un'affermazione che non aiuta a coltivare quella fiducia così carente nello spogliatoio Celtics: «Anch'io scambierei me stesso per Anthony Davis, se potessi».

Nella notte i Celtics giocano in casa degli Orlando Magic. Con tre secondi sul cronometro hanno una rimessa in zona d'attacco, ma il sorpasso non riesce. Brad Stevens è uno dei più apprezzati ideatori di After Timeout Plays, ma stavolta qualcosa va storto. Irving non riceve il pallone, Hayward preferisce passarlo a Jayson Tatum per un jumper contestato sulla linea di fondo, e Kyrie non fa nulla per nascondere il disappunto nei confronti del compagno sia in campo che fuori dal campo. Nel post-partita si esprimerà così: «Ci manca esperienza e abbiamo ancora tanto da imparare. So per certo che siamo meglio di tante altre squadre, ma dobbiamo dimostrarlo ogni singola sera. Fino a quando non lo faremo, fino a quando non capiremo che la profondità del nostro roster è un bene e fino a quando non mettiamo da parte i nostri desideri personali, non saremo una squadra migliore. Altrimenti continueremo ad avere i nostri alti e bassi, specialmente in trasferta».

Il possesso finale che ha fatto arrabbiare Irving.

Boston, 1 febbraio 2019

Appare ormai chiaro che la Eastern Conference è una corsa a due tra Milwaukee e Toronto, coi 76ers che si assicureranno i servizi di Tobias Harris per un finale in crescendo. Boston si ritrova a navigare pericolosamente vicina all'ottava piazza, ma alla fine si divide quarto e quinto posto con gli Indiana Pacers – agguerriti e ben allenati, ma tragicamente poveri di talento dopo l'infortunio di Victor Oladipo. In tutto questo, a Boston continua a serpeggiare il malumore. La leadership di Irving barcolla: non potrebbe essere altrimenti, perché Uncle Drew non sfoggia la coerenza e l'altruismo propri di un leader. Fa addirittura marcia indietro rispetto alla promessa di inizio anno sul firmare un nuovo contratto coi Celtics: «Chiedetemelo di nuovo il primo luglio, ma non devo un ca… a nessuno». Poi tira fuori un atteggiamento passivo-aggressivo quando si tratta di distribuire critiche e responsabilità. «Non metterò mai più in discussione i miei compagni pubblicamente in quel modo» dirà, ritrattando le critiche rivolte ai suoi dopo la sconfitta contro i Magic, e dopo aver incassato la reprimenda di Jaylen Brown, ma intanto qualcosa sembra essersi rotto. In uno sprazzo di nostalgia, giunge persino a rispolverare la relazione con LeBron James, confessando di avergli telefonato in cerca di consigli.

Non è casuale che, in questo periodo, siano due gregari a ergersi come figure chiave della squadra, sia dal punto di vista tecnico che da quello emotivo: Marcus Smart, a cui i tifosi sono affezionatissimi, e Marcus Morris. Giocano rispettivamente 27.5 e 27.9 minuti a partita, e mentre Smart è il capofila della difesa, Morris si prende la bellezza di 11.3 conclusioni di media e viene spesso chiamato in causa quando gli schemi sono rotti e c'è da inventare in isolamento. Ma non basta il loro apporto per risollevare gli animi, perché a Boston quest'anno non si ride. Dopo una serata in cui i Celtics dilapidano un vantaggio di 28 punti arrendendosi agli L.A. Clippers sul parquet del Garden, Marcus Morris dirà: «Guardo le altre squadre, giocano insieme e giocano per vincere. Noi invece siamo solo delle individualità. È da molto tempo che non ci divertiamo».

Oakland, 5 marzo 2019

Andando a spulciare i tabellini della stagione biancoverde, emerge un dato interessante. I Celtics hanno concesso qualche sconfitta di troppo in partite abbordabili, ma hanno ottenuto buoni risultati contro le big – vale a dire, le dirette avversarie per il titolo, se consideriamo ancora valide le aspettative di inizio stagione: 3-1 con Philadelphia, 2-2 con Toronto, 1-2 con Milwaukee, 1-1 con Golden State. Più ci avviciniamo ai playoff e più questa statistica acquista peso, almeno secondo le parole dei protagonisti e le opinioni dei commentatori.

Tra gli inesperti Bucks, gli inconcludenti Raptors e una Philadelphia dalla chimica di squadra ancora da consolidare, in molti pronosticano una rimonta dei Celtics fino al titolo di conference. D'altra parte sono un gruppo smaliziato, reduce da due finali di conference consecutive, e Irving è pur sempre l'uomo che mise a segno il game winner per l'anello del 2016. Nella notte sembra arrivare una lieta conferma: la trasferta a Oakland è un trionfo, 128 a 95. Golden State non ha messo in campo il massimo dell'impegno, ormai indirizzata col pensiero alla post-season, ma Hayward si guadagna una piccola vendetta personale eguagliando il season high di 30 punti. Qualche tempo prima, una fonte anonima aveva diffuso la voce secondo cui un giocatore dei Warriors avrebbe definito Hayward “un peso per i Celtics sia in attacco che in difesa”. Hayward invece conclude la stagione in maniera positiva, sempre più sicuro nell'attaccare il ferro, dando credito alle professioni di pazienza di coach Stevens. Sul finire della regular season, però, uno scricchiolio: si ferma Marcus Smart per un problema muscolare, i playoff cominceranno senza il suo apporto.

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Il miglior Gordon Hayward stagionale.

Milwaukee, 28 aprile 2019

I Celtics hanno passeggiato sui Pacers eliminandoli al primo turno in quattro partite che definire “poco spettacolari” è un eufemismo. Tutti i limiti offensivi di Indiana sono emersi di fronte all’ordinata difesa di coach Stevens, ma la serie non scioglie i dubbi sul reale stato di salute dei Celtics.

Gara-1 della semifinale coi Bucks sorprende il mondo cestistico, non tanto per il risultato a favore di Boston, quanto per il modo in cui arriva. I Celtics impongono il proprio piano partita in maniera dominante: nulla di rivoluzionario in realtà, l'avevano già proposto lo scorso anno su Ben Simmons e sullo stesso Antetokounmpo. Ingabbiare il greco con Horford che lo accompagna verso un muro composto da tre uomini, invitarlo verso quelle zone del campo da dove incontra più difficoltà nel servire i compagni e dopodiché disturbarlo al tiro sotto canestro. Al tempo stesso, massima attenzione alla difesa in transizione per evitare i letali contropiedi condotti da Giannis; piuttosto, Stevens è disposto a concedere qualche metro di spazio in più ai tiratori sul perimetro.

I Bucks si fanno trovare impreparati, forse con le mani tremanti, forse un po’ sorpresi dal cambio di intensità rispetto alla serie con Detroit. Giannis non ha risposte, i tiratori si avvicinano alla media stagionale del 35.3% dall'arco solo nel finale ma non basta, anche perché molte delle soluzioni sono aperte e dovevano fruttare di più. Nella metà campo offensiva, Boston riesce persino a sbugiardare le statistiche avanzate investendo in maniera efficace sui tiri dal mid-range (54% dal campo con ben quindici soluzioni da quell'area del campo), che spesso diventano tiri aperti punendo i closeout aggressivi o le rotazioni tardive della difesa Bucks. Alla sirena sarà 112 a 90 con Giannis contenuto al 7/21 dal campo, e nel post-partita un sempre equilibrato Paul Pierce sentenzia: «La serie è già finita, il gap di talento è troppo ampio». Sarà questo il momento più alto della stagione dei Celtics.

La difesa dei Celtics in gara 1 su Antetokounmpo alla sua massima efficienza.

Estate 2019

Dalle ore 5 di questa mattina, il nome più importante per i Boston Celtics è quello di un giocatore che indossa la divisa di un'altra squadra, alla quale è peraltro ancora legato da un anno di contratto. Al momento Danny Ainge ha altro a cui pensare, alle prese coi postumi di un lieve attacco cardiaco, ma trascorsi i primi due giorni sotto osservazione, da Boston dicono di aver già avvistato il General Manager che riprendeva possesso della propria scrivania. Avrà Anthony Davis sul proprio taccuino, giorno e notte: potrà offrire a New Orleans un pacchetto di giocatori e scelte al Draft praticamente ineguagliabile, ma dovrà stare attento a muovere le pedine giuste senza lasciar spegnere l'interesse dei Pelicans.

Il secondo nome più importante è invece quello di un giocatore che, forse, la maglia dei Celtics non la indosserà più. Kyrie Irving arrivò a Boston quasi per caso, semplicemente perché Ainge fu il più bravo a chiamare i numeri giusti sulla rubrica quando emerse la notizia che Irving aveva richiesto una trade da Cleveland. Un po' per colpa degli infortuni e un po' per colpa della condotta incostante di Kyrie, la storia d'amore non è mai realmente sbocciata; a volte ci si impara ad amare col tempo, anche senza il colpo di fulmine, ma ci sarebbe stato bisogno di una lunga avventura ai playoff che invece è mancata – anche per responsabilità di Irving, è evidente dai 102 punti con 104 tiri della serie con Milwaukee. Sarà cruciale capire quale dei due obiettivi si muoverà per primo, tra Irving e Davis, per invogliarli a giocare l'uno con l'altro, a meno che Irving non abbia già optato per una decisione irrevocabile, magari quel trasferimento a New York - che siano i Knicks o, a fari spenti, i Nets - su cui si fantastica da tempo.

Se l'annata 2018 aveva in un certo senso inflazionato il valore dei vari Rozier, Brown e Tatum – nonché dello stesso Brad Stevens capace di spremere dai suoi interpreti prestazioni superiori alle loro reali capacità –, la stagione 2019 ci restituisce un roster che torna coi piedi per terra, con il rischio di sprofondare fino alle caviglie. Parlando di mero valore di mercato, le quotazioni di Brown e Tatum sono calate, ma il punto più grave è che Boston non è più così sicura di appoggiarsi su di loro come pietre angolari del futuro.

Su Gordon Hayward, poi, resta la grande incognita delle condizioni fisiche: che tipo di giocatore sarà dopo un'altra estate di lavoro per tornare al 100%? Un recupero pieno, come quello a cui Paul George è giunto dopo due-tre anni di purgatorio, significherebbe moltissimo per il futuro dei Celtics. Anche coach Stevens ha mostrato qualche incrinatura nella reputazione dorata che si era finora costruito, svelando i limiti della sua giovane età e della sua fresca formazione NCAA: a suo agio quando si trova a lavorare con giocatori malleabili e dalle basse pretese, più a disagio quando si tratta di accomodare le richieste di superstar o superstar in the making. La vulnerabilità tattica esposta nelle quattro sconfitte coi Bucks è un segnale d'allarme molto luminoso, ma è ragionevole rinnovare la fiducia a lungo termine per coach Stevens, con la dirigenza che ha chiaramente ipotizzato per lui uno scenario à la Popovich.

Ma oltre a questo, Boston si ritrova ai margini di un'annata deludente con poche certezze da cui ripartire: questa estate finirà per dire molto di quello che vogliono costruire per gli anni a venire.

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