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→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
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(di)
Lorenzo Iervolino
La passione per il calcio di Bob Marley
18 mag 2018
18 mag 2018
La leggenda del reggae non perdeva mai occasione per giocare a pallone.
(di)
Lorenzo Iervolino
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«Al primo posto c’è la musica. Sopra ogni cosa c’è la musica, per me, e niente potrà mai superarla. Ma subito dopo c’è il calcio. Perché il calcio è libertà».






 

«Non c’è nessuno oggi, eh?»

«Con questo freddo, forse i lupi»

«Aspetta, aspetta. Chiediamo a quelli là»

«Gong, ma sei pazzo?»

«Perché?»

«No, Gong. A quelli proprio no»

 

Battersea Park, Londra. Cielo grigio e basso. Prato umido, pesante. Maniche lunghe e cappelli di lana. Robert Nesta Marley – Tuff Gong, per gli amici – ha da poco compiuto trentadue anni, ed è arrivato nella capitale inglese da tre mesi scarsi. Assieme agli Wailers (il suo primo gruppo) è andato al grande parco pubblico dietro la loro nuova casa, per espletare un rito quotidiano, una pratica che considera fondamentale per il suo benessere mentale e spirituale: giocare a calcio. Ma non c’è nessuno da sfidare stavolta. O meglio, quasi nessuno.

 



Fin dalla sua prima permanenza a Trenchtown, Giamaica, quando aveva appena nove anni, il piccolo Nesta – come preferiva chiamarlo sua madre – passava intere giornate a giocare per strada. Era in realtà un ragazzino di campagna, nato nel 1945 a Nine Miles, un villaggio rurale della contea di Saint Andrews, nel centro-nord dell’isola, dove suo nonno Omeriah Malcolm deteneva diversi campi agricoli, una drogheria e un banco di ortofrutta. Sua madre, Cidella detta Ciddy, si era invaghita di un facoltoso ospite di Big House, la grande casa colonica gestita dai Malcolm. L’uomo, un anglo-giamaicano di nobili origini, era un amministratore locale, e si faceva chiamare Capitano Marley. Era bianco, e aveva più o meno l’età di Omeriah – padre di Ciddy e futuro nonno di Bob – quando lei diede alla luce il bambino. La coppia, da subito attesa da una convivenza problematica, se non impossibile, bruciò vorticosamente la fiamma di un fugace matrimonio, dal quale il bambino prese il cognome del padre, ma nessuna delle sue ricchezze, dato che questi venne diseredato per aver messo incinta e poi sposato una campagnola appena maggiorenne, e dalla pelle nera.

 

Il primo soggiorno di Nesta a Trenchtown fu dovuto proprio al padre, che dopo un tempo infinito di latitanza dalla famiglia si era di nuovo fatto vivo: aveva chiesto e ottenuto che il bambino venisse spedito in città per studiare in scuole migliori. Norval Marley però sparì quasi subito dalla circolazione, nuovamente, affidando il figlio a una anziana governante, una certa signorina Green, con cui il piccolo Bob visse per circa sette mesi.

 

Trenchtown, sobborgo urbano di Kingston che si affaccia sul mare, è bucherellata nella sua architettura di lamiere, legno e cemento, dagli

, i cortili in cui sono raggruppate numerose famiglie. Ed è là, in quegli spazi circoscritti e affollati, in cui il pavimento è terra bagnata e ci si rincorre scalzi imitando la fuga del mitico bandito bambino Rhyging, che si giocano le prime partite. Bob ci si trasferì definitivamente a metà degli anni Cinquanta con Ciddy, all’epoca una donna ancora piuttosto giovane, a cui la vita di campagna iniziava a stare stretta. A Trenchtown, come in tutti i quartieri popolari delle città del mondo, c’è un solo linguaggio di accettazione da imparare per un ragazzino, ancora più diffuso e più vitale del sapersi difendere, o del non prenderle: il pallone.

 

Ovviamente, per immaginarvi la situazione, alla parola "pallone" (ma soprattutto all’oggetto rotondo e gonfio, così come lo conosciamo), bisogna sostituire diverse altre, più o meno possibili, specificità materiali: lattine ammaccate, cumuli di stracci legati con lo spago, una bottiglia di plastica di latte in polvere vuota o un’arancia da toccare piano, magari con la pianta del piede, per non farla spappolare dopo pochi scambi.

 

Ricorderà Carl Brown (per dieci anni titolare nella nazionale giamaicana, di qualche anno più giovane di Marley), che Bob passava l’intera mattinata al campetto della Boys’ Town – un centro di educazione giovanile voluto dalla YMCA – al quale è ancora oggi collegata una squadra della

(che, a onor di cronaca, attualmente occupa l’ultimo posto in classifica): «A volte stava là dall’alba fino alle tre del pomeriggio. Ma era normale, perché tutti i ragazzini cresciuti a Trenchtown sognavano di giocare un giorno per la Boys’ Town». Anche Bob lo sognava, ma non riuscì nel suo intento, come del resto non giocò mai per nessun club ufficiale, se non in quelli che lui stesso inventava, come ad esempio la

, il mucchio selvaggio di musicisti e amici con i quali, nella primavera del 1977, sta gironzolando per Battersea Park, in cerca di avversari cui lanciare una sfida.

 

«No, Gong. A quelli proprio no», gli viene detto, e allora Marley chiede spiegazioni e, nuovamente, da qualcuno che poteva essere Seeco o Neville Garrick, si sente dire: «Gong, questi qua sono del National Front».

«Che cazzo è il National Front?»

«Sono i fascisti inglesi»

«Fascisti inglesi?» ripete Marley, iniziando già a saltellare con il pallone tra i piedi: «Perfetto, allora. Sfidiamo loro!»

 

Per il poco che si sa della partita, pare che i giovani estremisti bianchi cercarono di gestire il pallone, di portarlo sulle fasce, ma si scontrarono da subito con il tornado caraibico. Sembra di poterli vedere, di poter vedere Bob, che non rinunciava mai ai contrasti, lanciandosi in tackle tremendi. Lo immaginiamo andare su tutte le seconde palle, un tamburino, le gambe forti, il baricentro basso. Gli piaceva spostare la palla a destra con l’esterno, lo faceva di continuo; e trattenere la sfera con la suola e, ancora, sempre con la suola di entrambe gli scarpini, arretrare col pallone, farlo scomparire dalle attenzioni dell’avversario. Un contrasto, un altro! Collisioni tremende, che avevano il chiaro scopo di sostituire – in un linguaggio condiviso e accettato – lo scontro politico.

 

I giamaicani in Inghilterra vivevano tutte le contraddizioni e le sofferenze del post-colonialismo. “Invitati” in Gran Bretagna con la facilitazione della cittadinanza, avevano unicamente accesso ai lavori più umili. E alle abitazioni fatiscenti delle periferie urbane. Marley e gli Wailers se ne erano già resi conto, e in loro stava crescendo il desiderio di usare tutta l’energia ribelle di quella generazione, per far nascere un nuovo suono, capace di parlare al sottoproletariato giovanile di ogni latitudine. E questo suono fu il risultato dell’incontro, proprio in quell’anno, con il punk, con Don Letts e soprattutto con i Clash, un suono nuovo, una festa aggressiva e radicale: un Punky Reggae Party.

 



 

Non ci sono fonti scritte, ma la leggenda (elemento di non trascurabile importanza quando si parla di Giamaica e giamaicani), ha tramandato la performance calcistica contro i razzisti del National Front come «tutto sommato corretta, entro i limiti delle regole»; il risultato, invece, un’autentica goleada: 0 – 12 per i "rude boys". Nelle parole dello stesso Tuff Gong Marley, però, quella partita non fu altro che una schiacciante vittoria politica:

(Porc*** Ca**##@@ Porc***##@@@)

(Abbiamo distrutto il National Front!)».

 



Chiunque abbia avuto a che fare, professionalmente o per rapporti personali, con Bob Marley e con gli Wailers, sa bene che un pallone da calcio era sempre presente nelle loro giornate. Il primo campo da gioco era quello della casa di Hope Road numero 56, a Kingston, una sorta di Kalakuta Republic, la comune di Fela Kuti a Lagos, in cui Marley, la sua famiglia, i musicisti e gli amici, convivevano e passavano le giornate a fumare erba, creare musica e, ovviamente, a organizzare accanitissimi match. Quello di Hope Road era un campo a otto, in cemento, corredato da due porticine di legno con la rete di corda, alte poco più di un metro e larghe 90 cm, in modo che nessuno doveva sacrificarsi nell’ingrato compito di usare le mani.

 



 

Per quel campo sono passati tutti i maggiori artisti giamaicani e non solo, giocatori professionisti, vecchie glorie. Le partite spesso «duravano fino a che il buio della notte impediva di scambiare uno stinco avversario per il pallone». A distanza di decenni, il campo di Hope Road

dai figli di Marley e dai loro amici.

 

Poi si giocava in tournée, dove capitava. Al termine dei sound check, nei teatri, se lo spazio lo permetteva, o in campetti improvvisati nelle vicinanze. Marley voleva spesso giocare partite vere e proprie, di calcio a undici, o se non a undici, almeno a sette o otto giocatori. Comunque sia, non semplici scambi tra i membri degli Wailers, ma competizioni con punteggio, maglie di diverso colore, organizzazione tattica. Per questo, le conferenze stampa si tramutavano sempre in scouting di avversari o nuovi compagni. Giornalisti, critici musicali,

, membri dello staff di questo o quel tour manager erano invitati a formare squadre, a trovarsi in orari precisi in luoghi altrettanto precisi.

 

Dalla volta in cui a dodici anni Ciddy lo aveva rincorso per tutto lo

agitando per aria una cinghia e imprecando contro il figlio, per aver devastato l’unico paio di scarpe a causa di quello stupido pallone, Marley non aveva mai fatto a meno di giocare. Di sfidare qualcuno, di dimostrarsi competitivo. Ma, nello specifico, che giocatore era?

 





173 cm.

 

71 kg.

 

ambidestro, con predilezione per il sinistro nel calcio di potenza e del destro per il tocco nello stretto.

 

prima di tutto agonista. Fisicamente era piuttosto rigido nel tronco, forse anche per bilanciare la massa dei dread; non particolarmente veloce, ma indomito. Nonostante cercasse di continuo l’uno contro uno, preferiva il gioco di sostanza; la quantità, rispetto alla giocata a ogni costo. La sua risorsa principale risulta infatti essere stata la resistenza, una inesauribile capacità di corsa. Gli piaceva percorre tutto il campo, affrontare i tackle più duri.

 

nelle partite a undici giocava a centrocampo, aiutando i difensori, ma spingendosi incessantemente in avanti. Nonostante le note abitudini di fumatore (a scopi religiosi e ludici), era sostenuto dall’assidua preparazione fisica fatta con Allan "

Cole, per altro non così rara tra i rasta di quegli anni: «Il corpo, tempio di Jah, necessita di cure e dedizione».

 

L’outfit tipico era in pieno stile iconico degli anni Settanta. Scarpe o scarpini Adidas. In inverno calzettoni sopra i pantaloni della tuta, anche questa rigorosamente Adidas, ma customizzata con la grande M sul petto, all’altezza del cuore. Ancora oggi uno degli articoli più venduti dalla fondazione che porta il suo nome. In estate calzoncini girocoscia con le tre strisce laterali.

 

Damiano Tommasi, Cristiano Zanetti, Matias Almeyda.

 



 



 

L’avventura londinese, nel gennaio del’77, era iniziata a seguito di una fuga. «Sono straniero in terra straniera» aveva detto nei suoi primi giorni di permanenza, citando – forse non a caso – l’Esodo 2:22 nelle parole di Davide, dato che il 1977 (l’anno probabilmente più bello della sua vita), fu l’anno di "Exodus".

 

Solo qualche settimana prima, infatti, il 3 dicembre del 1976, Bob, sua moglie Rita e tutto il loro entourage, compresi i primi cinque figli, furono vittime di un attentato. Marley, il bersaglio principale, era accusato di sostenere il candidato di sinistra alle imminenti elezioni politiche giamaicane e di aver organizzato "

, un enorme evento musicale, per dare visibilità al People National Party negli ultimi giorni di una violenta e forsennata disputa elettorale. Nelle intenzioni di Marley, il concerto sarebbe dovuto invece essere «un regalo alla mia gente», un momento in cui i due principali rappresentanti politici, Michael Manley per il PNP e Edward Seaga del Jamaican Labour Party (che, a contrario di quanto fa immaginare l’accezione laburista, era la formazione di destra), si sarebbero dovuti incontrare pacificamente, distendere i toni e avviare un nuovo periodo di pace nazionale.

 

Il giorno del grande concerto, sette uomini armati fecero irruzione nella casa di Hope Road. Marley venne ferito a un braccio. Un colpo raggiunse la moglie Rita alla testa, mentre scappava in veranda con i bambini; la pallottola si conficcò tra il cranio e il cuoio capelluto, risultando, quasi miracolosamente, inoffensiva. Il manager Don Taylor stava camminando nel salone di

al momento dell’ingresso degli assaltatori: incrociò fortuitamente la traiettoria dei colpi di fucile indirizzati a Marley, facendo da scudo e salvandogli la vita.

 

In tutto vennero esplosi un centinaio di colpi. Don Taylor e Lewis Griffith, un caro amico di Bob, risultarono subito in gravi condizioni. Taylor, in particolare, aveva quattro proiettili conficcati nelle gambe e uno tra il bacino e la spina dorsale. Rita e Bob lasciarono la casa sanguinando, terrorizzati. Eppure, nonostante il tremendo assalto compiuto, nessuno rimase ucciso (sorte che invece toccò, nel giro di cinque anni a tutti gli attentatori tranne uno, di cui comunque non si seppe più nulla).

 

Bob e gli altri si ritirarono rapidamente in una proprietà del manager della Island Chris Blackwell, sulle colline oltre Kingston, da dove – protetti da devoti rasta armati di machete – cercarono di capire il da farsi. All’ultimo momento decisero di partecipare comunque a "

, e la performance di Marley, che iniziava con "

, rimase leggendaria, con lui, danzante, fasciato tra le bende insanguinate, che imitava le gesta degli antichi cacciatori di leoni etiopi, riproducendo al pubblico, attraverso le movenze del corpo – un corpo irridente e spiritato – tutte le fasi dell’attentato.

 

Dopo una breve sosta alle Bahamas – dove per altro, assieme a Neville Garrick, organizzò una partita di calcio con giocatori locali – per Marley, Londra diventò l’opportunità di una nuova vita. Assieme agli Wailers si insediò al numero 32 di Oakley Road, una traversa di Chelsea, a poche decine di metri da Battersea Park, loro campo da calcio per eccellenza.

 

In questo periodo londinese era assente l’amico, tour manager e preparatore atletico personale, Allan "

Cole: uno dei più celebri attaccanti della storia del calcio giamaicano; rasta devoto, oltre ai club nazionali poteva contare qualche presenza con gli statunitensi Atlanta Chiefs, e un’intera stagione nel Nautico, in Brasile. Una e non due, perché per il secondo anno il management brasiliano chiese a Cole di tagliare i dreadlocks: lui disse «ci penso su» e firmò immediatamente per il Santos. Non un salto in avanti nella carriera, visto che si trattava del Santos di Kingston e non quello di Pelé. Ma «meglio tornare in Giamaica, che rimanere tra i miscredenti».

 


Allan Cole e Pelé.


 

 

Con "

Cole, Marley si allenò per anni, correndo sulle spiagge di Bull Bay, o palleggiando nel cortile della grande casa di Hope Road. È proprio con lui che Bob rese routine le proprie abitudini di allenamento: sveglia alle sei e trenta del mattino, un po’ d’erba, frutta,

e via a correre e scambiarsi il pallone. Una pratica quotidiana, un rito e una distrazione. Marley, per ricompensare l’amico del lavoro atletico e dei consigli tecnici, lo aggiunse come coautore nei credits di "

, forse uno dei suoi più celebri inni antimilitaristi, e soprattutto organizzò nel 1974 una partita trai Cosmos di New York e il Santos (sempre quello giamaicano). Partita che aveva lo scopo di invogliare la squadra americana ad acquistare Allan. Ma l’amichevole fu una zuffa continua, lo stesso Cole venne apostrofato come "taglialegna", pur giocando in attacco. Per paura di infortuni, i migliori giocatori dei Cosmos uscirono alla fine del primo tempo e, neanche a dirlo, Cole non venne tesserato.

 

Il top player della squadra era senza dubbio lui, con buona pace di Bob: Allan Cole, manager personale, attaccante. Il resto del team era composto da:


 

A Marley piaceva definire il gruppo di giocatori rasta la "

. Quando si giocava a undici, si aggiungevano anche i componenti dei Sons of Jah e gli Aswad. E, ovviamente, la solita storia: si doveva sempre rimediare un portiere perché nessuno voleva giocare con le mani.

 



 

Dal 1977 in poi, con il grande successo europeo e le tournée continentali, le possibilità di organizzare partite si moltiplicarono. La prima volta che con gli Wailers sfidò una squadra professionistica, avvenne contro l’FC Nantes, durante il tour di "

, all’inizio dell’estate 1980. Marley aveva preso direttamente contatti con l’allenatore dei neocampioni di Francia Jean Vincent e lo aveva convinto a lasciargli alcuni dei suoi per una partitella nel campo laterale, dopo l’allenamento. Fu un 5 contro 5 con i cambi, ed è divertente, a distanza di anni, sentire cosa ne pensarono i giocatori francesi.

 

«All’inizio eravamo un po’ sorpresi» ricordano Henri Michel e il portierone franco-marocchino Jean-Paul Bertrand Demanes, «Non li conoscevamo molto come artisti, sapevamo che il nostro mister aveva dato l’ok per la partita, ma quando li abbiamo visti arrivare con il loro pullman… stavano fumando certi

… insomma, hai capito, no? Poi abbiamo fatto amicizia e siamo stati benissimo». Il mediano Thierry Tusseau aggiunge: «Li avevamo presi sottogamba all’inizio, loro giocavano dando il massimo e ci è toccato faticare per ribaltare il risultato».

 

La partita terminò infatti 4-3 per l’FC Nantes. Per gli House of Dread doppietta di Bob che, nelle parole di Michel si dimostrò: «Niente male, davvero. E poi metteva sempre la gamba, pure se stavamo giocando in allegria». La squadra dei campioni di Francia era completata da Loïc Amisse, Patrice Rio, Bruno Baronchelli e Gilles Rampillon. Dopo essere andati sotto nel punteggio, forse – chissà – per non essere travolti da un parziale troppo sfavorevole, i rasta chiesero di mischiare le squadre.

 

A Londra si scontravano spesso con la New Musical Express, una squadra amatoriale che raccoglieva addetti ai lavori dell’industria musicale, speaker radiofonici, artisti. L’intero tour di "

nel 1978 venne studiato per poter seguire la Coppa del Mondo in Argentina. C’era perfino una tv nel pullman col quale si spostavano, e gli orari dei concerti e dei soundcheck non coincidevano mai con le partite dell’amato Brasile, o con quelle dei padroni di casa. Fu proprio in occasione di quei mondiali, che Marley trovò ispirazione in un giocatore nel quale, in un certo senso (un senso un po’ tenero e infantile), si rivedeva: si trattava di Osvaldo "

Ardiles, che l‘anno successivo

, nelle file del Tottenham Hotspurs, squadra per la quale iniziò a fare un tifo incondizionato, lasciandosi alle spalle il Santos (stavolta sì, quello brasiliano), ormai orfano del suo idolo giovanile, Pelé.

 

I giudizi di valore sul Marley calciatore sono piuttosto uniformi e generalmente positivi. Il dj e speaker inglese Danny Baker sostenne addirittura che «Marley avrebbe potuto sicuramente giocare nella nazionale giamaicana. Era una furia». Tra il 18 e il 20 marzo del 1980, per fare promozione alla filiale brasiliana della Island, Marley, assieme agli Wailers e altri artisti-giocatori del calibro di Jacob Miller e Junior Murvin, volò a Rio, dove rimase solo settantadue ore. Una permanenza breve, ma non così tanto da impedirgli di organizzare una partita di calcio in cui, tra i convocati, c’erano anche Chico Buarque (forse uno dei musicisti più appassionati di calcio mai esistiti), Toquinho e soprattutto Paulo Cesar "

, che si professava suo fan. A Rio, però, in quelle poche ore, il giudizio sulle abilità tecniche di Bob, cambiò drasticamente.

 

Paulo Cesar consegnò a Marley un intero kit del Santos, rendendolo felice come il bambino amante del pallone che era stato ai tempi di Trenchtown, e come, in parte, ancora era. Ma riguardo al match, l’ex attaccante della Selção disse, perentorio: «Per fortuna che fu breve, e indolore. Loro erano pessimi». E su Bob: «Era caotico in campo, e molto grossolano nel tocco palla. Sinceramente, mi aspettavo di meglio. In una scala da 1 a 10, gli avrei dato… 1,5». Del giudizio di uno che ha vinto tre volte la Coppa del Mondo forse ci si può fidare.

 

Comunque, Marley aveva già da tempo abbandonato i suoi sogni di gloria calcistica, che però aveva continuato a nutrire per la sua prole, già a partire dal primogenito, nato nel 1968, che venne infatti chiamato Ziggy, non – come si è creduto per molti anni – per onorare David Bowie, ma per l’esclamazione "

, che si usa in giamaicano quando ad esempio, un calciatore fa un numero irridente nei confronti dell’avversario, un sombrero o un tunnel. Pare che vedendo le cosce massicce del neonato, Marley intravide subito in lui il possibile campione di casa.

 



 



Ma come per ogni calciatore, professionista o amatoriale che sia, la carriera è segnata anche dagli infortuni. Nel caso di Bob, purtroppo, infortuni che prendono i connotati di mitologica tragedia. In particolare quello di Parigi.

 

Il 10 maggio 1977 era previsto il concerto di Bob Marley and The Wailers al Pavillon Baltard, nel bel mezzo dello stupefacente tour di "

. E anche in questa circostanza, nonostante la giornata fosse fresca e e disturbata da un’insistente pioggerellina, non si poteva perdere l’occasione di giocare a calcio. Bob aveva incaricato l’ufficio stampa della Island di organizzare un match contro i

una specie di nazionale cantanti in perenne partita del cuore, ma con elementi che provenivano da tutte le arti (come se il gruppo63 di Umberto Eco, Arbasino e Balestrini, avesse stabilito nelle proprie iniziative culturali la costituzione di una squadra di calcio ufficiale). Ne hanno fatto parte, nel tempo, grandi nomi come Jean-Paul Belmondo, Claude Brasseur e il chitarrista showman Sacha Distel. Il nome

è un gioco di parole tra “molti muscoli” e

, fair play: tutte le attività della squadra sono finalizzate a raccogliere fondi in favore del sostegno alla disabilità.

 

Si decise improvvisare un campo a otto tra l’Hilton Hotel, dove alloggiavano i musicisti, e la Senna. C’era però il solito problema: nessuno degli Wailers voleva fare il portiere, e stavolta ce n’era davvero bisogno. Per questo motivo, nel corso della conferenza stampa della mattina, era stato “ingaggiato” Philippe Paringaux, direttore editoriale della rivista

, ma soprattutto portiere dei giornalisti musicali parigini. Che, giunto per primo sul luogo dell’appuntamento, pensava di dover giocare coi francesi.

 

«Il tempo non era un gran che» ricorda Paringaux, «quando arrivarono i

iniziai a scambiare il pallone con loro. Con alcuni ci conoscevamo personalmente. Mi andai a mettere nella loro porta. Poi dall’Hilton arrivarono gli Wailers, coi cappelli di lana enormi, gli occhi rossi, e i cannoni. Herbert Leonard (famoso cantante francese) mi disse "Ecco i tuoi compagni di squadra!" e si mise a ridere».

 

I

erano in tenuta verde, eleganti, pronti. Ma anche per loro, arrivò una bella lezione. I fratelli Barrett guidavano la difesa, Bob ispirava Allan "

Cole, che stavolta c’era e si fece sentire. Ancora il portiere Paringaux: «Eravamo in vantaggio, ma avevo un certo problema con Aston "

Barrett. Dopo ogni mio intervento, mi veniva sotto e ringhiava "

, ci misi un po' a capire che quell’unico verso gridato, stava per "

" (passa la palla, ndr) in fondo lui voleva sempre ripartire, ma era tosto, sembrava mi volesse aggredire».

 

Mentre si avvicinava la sera, e il punteggio era sul 6-1 per i giamaicani, gli artisti francesi chiesero di giocare ancora, volevano provare a recuperare. Verso le undici e un quarto, un’entrataccia a piedi uniti stese Bob. Marley di solito si rialzava subito, non faceva storie. Ma stavolta rimase giù. Si toccò il piede destro, la punta. Ricorda Paringaux: «Si tolse la scarpa e il suo calzino era insanguinato. Nonostante ciò lui minimizzava. Seppi in seguito che qualche mese prima gli avevano sparato addosso, quindi era chiaro che avesse visto di peggio. Andò all’Hilton, dove un medico gli fece un’antitetanica e gli fasciò l’alluce in una benda».

 

Anche un altro giocatore di quella partita, il giornalista musicale Jean-Louis Lamaison, dimensiona l’atteggiamento di Bob come: «Normale amministrazione; è andato a farsi medicare, poi è tornato per fare le foto, stare con noi. Il giorno dopo siamo tutti andati al concerto e fu come se non fosse accaduto nulla. Certo, quando tre anni dopo abbiamo saputo della sua malattia, e che il cancro fosse partito proprio dal suo alluce destro…».

 

In realtà non si trattava del primo duro colpo subito al piede destro. Nel 1974 a Trenchtown, aveva già ricevuto un pestone all’alluce, che lo aveva costretto a lasciare la partita, cosa davvero rara. E nello stesso 1977, prima del match di Parigi, al Battersea Park aveva ricevuto un colpo nello stesso punto. Danny Baker, lo speaker radiofonico con cui gli Wailers organizzavano sempre le partite,

, successivamente, dalle accuse di aver causato lui la ferita mortale a Bob. Nella partita parigina, Bob perse l’unghia, nonostante l’antitetanica, arrivò un’infezione. L’infortunio venne trascurato per due anni e mezzo, fin quando Chris Blackwell non prese in mano la situazione, togliendola a consiglieri rasta, stregoni e medicinali omeopatici. L’alluce andava amputato nel tentativo di frenare l’avanzare del cancro. Ma Robert "

Nesta Marley non era dello stesso parere:«Noi non permettiamo che un uomo venga smontato

Jah mi guarirà tramite la meditazione con il mio calice di

. Nessuno scalpello intaccherà la mia carne! Non si può uccidere Jah, non si può uccidere il rasta. Il rasta vive sempre».

 

Giocò le ultime partite nel 1980: il 16 giugno, sempre a Londra, su un campo coperto con superfice in linoleum, assieme ai Sons of Jah e ai musicisti di Eddy Grant. Infine a Miami, nel settembre dello stesso anno. Ma ci piace pensare, in un certo senso, che le sue ultime apparizioni calcistiche siano state in Italia, durante il tour di "

, il suo ultimo. Esibizioni in cui il pallone era rimbalzato solo durante il soundcheck, e piuttosto timidamente, il 28 giugno allo Stadio Comunale di Torino, e il giorno prima a San Siro, dove a tributargli

, c’erano più di novantamila fan: per lui, un felicissimo record.

 


I tifosi dell’Ajax cantano "Three Little Birds".


 

Marley trascorse gli ultimi mesi tra una clinica tedesca e il Cedars of Lebanon Hospital di Miami. Tornerà in Giamaica solo il suo corpo esanime, che sarà sepolto a Nine Miles, il suo piccolo paese natale, assieme a una chitarra Gibson, una canna d’erba, una copia della Bibbia aperta al salmo 23, l’anello regalatogli dal principe etiope Asfa Wossen e, ovviamente, un pallone da calcio.

 

 

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