
In una stagione lunghissima e logorante come quella da 82 partite che ogni anno le squadre NBA devono affrontare, è inevitabile finire per avere molti alti e bassi all’interno della stessa annata. Quello che fa la differenza fra una "Contender" e una media squadra NBA è il modo in cui essa affronta queste avversità, come riesce a gestirle e, soprattutto, la maniera in cui le persone interessate—intesi come tifosi, stampa e appassionati del gioco—reagiscono a questi alti e bassi. Pur in una Lega strapiena di storie e situazioni interessanti, nessuno ha dovuto affrontare quello che i Cleveland Cavaliers hanno provato sulla loro pelle quest’anno.
È inevitabile, quando tra le tue fila schieri il miglior giocatore del mondo (oltretutto appena rientrato “a casa”, con tutto quello che ha significato) e hai portato a termine lo scambio più importante dell’estate, cedendo le ultime due prime scelte assolute al Draft per arrivare al giocatore più ambito sul mercato. Insomma, quando riesci a mettere assieme tre giocatori del calibro di LeBron James, Kevin Love e Kyrie Irving, oltretutto facendoli allenare da un coach alla prima esperienza in NBA, non puoi non pensare di essere LA notizia della Lega, la squadra che tutti vogliono vedere—e soprattutto, nell’era dei social network e delle news 24/7—commentare.
La stagione dei Cleveland Cavaliers si compone (fino a questo momento) di sei fasi, quasi tutte contrastanti tra loro:
1. Offseason e Preseason
Ora che li abbiamo già visti all’opera per 60 partite l’effetto novità è un po’ svanito, ma l’hype che si era creato attorno a questa squadra prima dell’inizio della stagione aveva raggiunto livelli preoccupanti, tanto che un video della partitella d’allenamento dei Cavs alla Quicken Loans Arena ha avuto oltre 300.000 visualizzazioni sul canale YouTube della NBA. E non a caso...
2. Inizio di stagione (5W-7L fino al 22/11 | 104.4 Off Rtg - 107.7 Def Rtg - -2.6 Net Rtg)
Oltre a perdere in casa contro i New York Knicks all’esordio (!), i Cavs hanno subito brutte sconfitte a Portland (nella quale LeBron ha volontariamente omesso di giocare il secondo tempo per “mandare un messaggio ai compagni”, ed erano iniziate a circolare le prime voci di presunti litigi tra LBJ e Irving), Utah, Denver in casa e sia Toronto che Washington, il tutto condito da un impegno e un linguaggio del corpo discutibile di tutti i Cavs, tanto da portare coach Blatt ad ammettere che la squadra si trovava “in the dark”.
3. Il recupero (12-3 fino a Natale | 111.9 Off Rtg - 103.8 Def Rtg - +8.1 Net Rtg)
In seguito alla trasferta di Washington, i Cavs hanno giocato per un mese a buonissimi livelli, perdendo solo contro Oklahoma City, New Orleans ed Atlanta e iniziando a mostrare un po’ dell’attacco esplosivo di cui tutti parlavano prima dell’inizio della stagione. Il problema di questa striscia è che il calendario è stato parecchio favorevole, con un’unica vittoria “di qualità” contro i Memphis Grizzlies (privi di Zach Randolph e Tony Allen) poco prima di Natale. E infatti...
4. Il crollo senza LeBron (2-10 fino al 13 gennaio | 96.4 Off Rtg - 108.6 Def Rtg - -12.2 Net Rtg)
Nel periodo intercorso tra Natale e la sconfitta del 13 gennaio a Phoenix, i Cavs sono stati senza mezzi termini la peggior squadra NBA tra quelle che ci stavano provando (quindi senza contare New York e Philadelphia, le uniche sotto di loro nei rating statistici). Il motivo è facile da individuare: a un certo punto LeBron ha deciso di prendersi due settimane di pausa per rimettersi a posto fisicamente—per tutta la prima metà di stagione aveva dovuto giocare su piccoli infortuni alla schiena e al ginocchio—e la squadra senza di lui è ovviamente crollata sotto il 50% di vittorie (19-20), vincendo solamente contro Charlotte, in volata. In compenso, il GM David Griffin proprio in quel periodo è riuscito a portare a termine gli scambi che hanno fatto svoltare la stagione dei Cavs: fuori Dion Waiters e una prima scelta di Memphis, dentro J.R. Smith, Iman Shumpert e Timofey Mozgov (per il quale è stata sacrificata un’altra scelta ottenuta da OKC). Due mosse accolte con grande soddisfazione dallo spogliatoio dei Cavs, che a quanto pare stava iniziando a pensare che con un roster costruito in quel modo (vale a dire con Waiters e senza un centro capace di proteggere il ferro) non si potesse vincere, soprattutto alla luce dell’infortunio di fine dicembre di Anderson Varejao. Ma da lì in poi...
5. La striscia (14-2 fino all’All-Star Game | 112.9 Off Rtg - 102.3 Def Rtg - +10.6 Net Rtg)
Con i tre nuovi innesti (definiti scherzosamente “mini Big Three” dalla stampa locale) e una gita al bowling che a quanto pare ha avuto effetti salvifici sulla psiche della squadra, i Cavs sono diventati come d’incanto il miglior attacco NBA, mettendo anche in campo una difesa quantomeno rispettabile (14.esima in NBA) con il risultato del miglior Net Rating della Lega e una striscia di 12 vittorie consecutive, tra cui quelle contro Clippers (x2), OKC, Chicago e Portland (con 55 punti di Irving). In realtà, anche qui, il motivo è presto detto: di rientro dalla pausa a cavallo dell’anno LeBron James ha viaggiato a 27.3 punti, 6.2 rimbalzi e 6.7 assist sfiorando il 50% dal campo, giocando con tutt’altra intensità rispetto al “Chill Mode” visto prima di capodanno. Anche perché...
6. La campagna per l’MVP (5-2 post-All-Star Game | 107.0 Off Rtg - 93.3 Def Rtg - +13.7 Net Rtg)
Da quando LeBron è tornato a giocare da LeBron, tutto il resto della squadra ha iniziato a seguirlo e, guarda caso, le voci attorno a David Blatt si sono placate (anche, va detto, grazie al supporto pubblico datogli dalla dirigenza). In compenso, dalla pausa per l’All-Star Game in poi sembra quasi che le motivazioni di James siano di imporsi per la quinta volta come MVP della Lega, in particolare dopo aver concesso il premio a Kevin Durant l’anno scorso per via dei risultati degli Heat, ed entrare a far parte della ristretta cerchia occupata solo da Bill Russell, Michael Jordan (5 MVP) e Kareem Abdul-Jabbar (a 6 premi). Le partite in TV nazionale contro i Golden State Warriors di Steph Curry (massimo stagionale a 42 punti) e gli Houston Rockets di James Harden (37, ma con 35 tiri e solo 3/11 ai liberi, tra cui i due errori che avrebbero potuto portare la squadra alla vittoria) sono state affrontate per mandare un messaggio alla Lega e avanzare la sua candidatura a MVP davanti ai due principali favoriti in questo momento, come a dire «non vorrete mica dire che questi due sono meglio di me, vero?». A volte, però, questo atteggiamento è sembrato “escludere” i compagni di squadra, al punto che nelle ultime sette partite James si è preso 23 tiri, quattro in più della sua media stagionale di 19.
In effetti però segnarne 38 in tre quarti alla miglior difesa NBA non è un brutto biglietto da visita.
Il dilemma Kevin Love
Se avete fatto attenzione, in questo breve riepilogo della stagione dei Cavs non ho citato neanche una volta il nome di Kevin Love. Ma come? Non doveva essere la grande acquisizione dell’estate? Il giocatore capace di far fare il salto da squadra di playoff a "Contender" a questi Cavs? Sì, ma meglio ragionare con calma, che il discorso è complesso.
Innanzitutto, bisogna dire che la percezione di Kevin Love è stata un po’ falsata dagli anni passati in Minnesota, e che un “ridimensionamento” del suo impatto e delle sue cifre era da mettere necessariamente in conto. Negli anni da T-Wolves Love non è mai stato un giocatore “efficiente”, capace di trovare i suoi punti anche quando non veniva chiamato qualcosa per lui, ma uno che ha sempre avuto bisogno di molti tiri e molto coinvolgimento per funzionare e avere un senso, anche perché l’apporto difensivo è sempre stato deficitario (e sempre lo sarà, anche per limiti fisico-atletici). Nel sistema di coach Adelman, Love era e doveva essere il punto focale dell’attacco: toccava il pallone quasi 50 volte a partita in attacco (quest’anno sono 12 di meno), di cui 7.2 vicino a canestro e 11.6 ai gomiti (secondo nell’intera NBA dopo Marc Gasol), dati che sono crollati rispettivamente a 4.2 e 3.1 (76.esimo in NBA!). Anche l’efficienza è calata da 0.525 punti per tocco in attacco ai 0.445 di quest’anno. È evidente che Kevin Love ai Cavs non possa essere il Kevin Love “da 26+13+4”, molto banalmente per via della presenza di LeBron e Irving, che portano via la maggior parte dei palloni. La domanda ora però è un’altra: è così impossibile che si riveli utile anche in un contesto diverso, e soprattutto vincente?
Poi ci sono anche giorni in cui il tiro funziona, e allora 8 triple sono anche normali.
Osservando Love in campo viene da pensare che, a differenza di quanto faceva a Minnesota, ora tiri esclusivamente sugli scarichi di James e Irving. Da un certo punto di vista è vero: Love tira molto da "catch and shoot", 5.8 volte a partita di cui 4.8 da 3 punti, ma questi dati sono in linea—se non leggermente inferiori—a quelli dell’anno scorso ai T-Wolves (6.3 e 4.9). Le conclusioni da fuori spiccano più che altro perché è scomparso tutto il resto: l’anno scorso Love segnava 5.2 punti a partita da ricezioni in post, dato che quest’anno è calato a 3.2 a partita; tirava 8.2 liberi a partita, dato importantissimo per “mettere su numeri”, che è sceso ai 4.8 di quest’anno; e la percentuale di possessi “usati” da Love è passato dal 28% all’attuale 22%, con un calo di quasi 2 assist a partita (anche i suoi meravigliosi passaggi d’apertura a tutto campo sono andati calando).
Il problema di Love è che in questa stagione, oltre a tirare di meno (da 18.5 a 13.2), sta tirando male: la sua percentuale “reale” al tiro è calata dal 59% al 55.6%, quella da "catch and shoot" è scesa dal 57% al 53.5% di eFG e anche nei tiri da tre non contestati (quasi uno su tre di quelli tentati!) segna solo con un mediocre 36%, dato che certamente può e deve migliorare. Love non è quello che negli Stati Uniti chiamano un “knock-down shooter”, cioè uno capace di tenere alte percentuali anche su pochi tentativi, ma un lungo capace di allargarsi come arma in più del proprio gioco, non come unica dote. Non a caso Love, anche in quest’annata difficile, è tra i migliori lunghi della Lega in post basso—1.00 punti su oltre 250 possessi giocati (il migliore in assoluto tra quelli che ne hanno giocati almeno 200) e dietro solo a Dwight Howard e Taj Gibson nel subire fallo in quella situazione—e rimane un buon rimbalzista per il ruolo, pur giocando al fianco di altri ottimi giocatori nella specialità come Tristan Thompson e Mozgov.
La cosa preoccupante sono più che altro i dati sul "pick and roll": prima dell’inizio della stagione si pensava che i suoi giochi a due con James e Irving potessero rivelarsi un’enigma irrisolvibile per le difese avversarie ed essere usati come base per i set offensivi dei Cavs, ma fino ad ora non solo il p&r è una parte secondaria del suo gioco (solo il 13.3% del suo attacco) ma addirittura dannosa, dato che in quella situazione Love ha prodotto solo 0.73 punti per possesso tirando col 37.4% di eFG, il secondo peggior giocatore per efficienza di tutta la NBA, dietro solo al quasi 35enne Luis Scola (!). I Cavs, piuttosto, preferiscono sfruttarlo come "spacer" per aprire il campo ai blocchi sulla palla portati da Thompson (1.24 PPP) o Mozgov (1.12 PPP) e alle penetrazioni degli esterni: non a caso quando lui è in campo LeBron James conclude al ferro il 37.6% dei suoi tiri totali, dato che cala al 30% quando Love è fuori, mentre si alzano quelli dal mid range (da 25% a 30%) e dalle triple frontali (da 23% al 26%). Allo stesso modo, Love conclude dagli angoli il 15% dei suoi tiri mentre LeBron è in campo, dato che scende al 6% quando il Re non c’è.
È chiaro quindi che ci sono motivi tecnico-tattici dietro ai “problemi” di Kevin Love, che è molto semplicemente un giocatore diverso rispetto a quello che era l’anno scorso, ma non necessariamente così peggiore: se riuscisse a mettere a posto un po’ le percentuali da fuori (soprattutto il 36% nelle triple non contestate che grida vendetta) e David Blatt riuscisse a coinvolgerlo con più profitto sia nei "pick and roll" che in post basso per mixare un po’ di set offensivi, Love potrebbe benissimo rivelarsi la seconda/terza opzione a cui tutti pensavano a inizio anno—cosa che attualmente non sembra poter essere, tanto da non venire nemmeno considerato per l’All-Star Game a Est (anche per demeriti suoi, chiaro).
Soprattutto, l’obiettivo di Love è di riuscire a farlo in una squadra vincente, visto che fino ad ora ha sempre accumulato statistiche impressionanti in squadre perdenti, e non si riesce a capire perché dovrebbe venirgli voglia a fine anno (quando potrebbe uscire dal contratto) di tornare in una situazione del genere per non vincere nulla. Al di là delle speculazioni giornalistiche—dopo ogni partita viene punzecchiato dalla stampa che aspetta un suo “sbrocco”, ma finora si è comportato in maniera molto professionale, almeno in pubblico—e delle evitabilissime querelle con LeBron, quale altra squadra in questo momento gli permetterebbe di contendere per il titolo se non quella che schiera il miglior giocatore del mondo e una delle migliori giovani point guard della Lega, oltretutto nella debole Eastern Conference?
When Playoffs come
Il senso di questa serie di pezzi inizialmente era pensata per illustrare le “Contender” al titolo NBA e le possibilità di arrivare al titolo delle varie pretendenti al trono di San Antonio. In questo momento, complici i problemi di infortuni di Chicago e i crolli verticali di Toronto e Washington, i Cavs sembrano l’unica candidata plausibile ad arrivare in finale di conference contro gli Atlanta Hawks, e quindi sono legittimamente da considerarsi come pretendenti al titolo, cosa non così scontata per una squadra al primo anno insieme.
I risultati post-trade e il ritorno di LeBron hanno cambiato il volto della stagione dei Cavs, che sembrano avere tutt’altra chimica di squadra rispetto ai primi mesi e hanno trovato una certa stabilità di ruoli e minutaggi nella rotazione, cosa che fino a Natale sembrava irrisolvibile per coach Blatt. In particolare, il quintetto base formato da Irving, J.R. Smith, James, Love e Mozgov è in assoluto il migliore della Lega tra quelli più schierati, con uno spaventoso Net Rating di +25.5 (117.5 Off - 92 Def) che supera anche quello di Golden State a +18.4 (anche se ha più del doppio dei minuti, 583 vs 254). E la difesa, che è e rimane il grande punto interrogativo sopra questa squadra, è stata quantomeno rattoppata dall’arrivo di Mozgov e dal cambio di schema sui "pick and roll" che la sua presenza ha comportato: mentre prima i Cavs cambiavano più di chiunque altro sui giochi a due per evitare di concedere il centro dell’area, ora utilizzano uno schema più conservativo e sfruttano la presenza del russo per proteggere il ferro. Mozgov concede solo il 45.7% su 8.3 tiri a partita nei pressi del canestro, 6° in NBA tra quelli che ne affrontano tanti quanti o più di lui, mentre Love e Thompson concedono oltre il 50% ciascuno. E dal 15 gennaio a oggi i Cavs hanno la settima miglior difesa della NBA a 99.5 punti concessi su 100 possessi, oltre al miglior attacco.
Sì, signori: esiste anche un video di highlights di Mozgov.
Se la regular season (al netto di infortuni sempre dietro l’angolo) è stata sistemata e la squadra procede a velocità di crociera, i dubbi su questa squadra riguardano più che altro i playoff. Dei membri chiave della rotazione solo LeBron e Smith hanno affrontato più di due turni di post-season, mentre Mozgov e Shumpert l’hanno assaggiata solo per un anno e i vari Irving (che si era anche chiesto: «È così che sono le partite dei playoff?»), Love, Thompson e Dellavedova non hanno mai provato sulla loro pelle cosa vuol dire giocare quando ogni pallone pesa come un macigno e ci si gioca la stagione. Oltretutto, i Cavs finora hanno affrontato pochi minuti “in the clutch” (ultimi 5 minuti, punteggio entro 5 punti) in stagione, solo 85, terz’ultimi dietro Golden State (che ammazza le partite molto prima) e Philadelphia (che nemmeno ci vuole andare vicina), peraltro uscendone con un record non invidiabile di 13 vittorie e 12 sconfitte e la peggior difesa delle squadre che andranno ai playoff (110.5 Def Rating).
Quello che più fa storcere il naso in ottica playoff, però, è che questi Cavs ricordano sinistramente i primi Miami Heat di LeBron, Wade e Bosh: piuttosto che cercare di costruire un sistema offensivo articolato e “complesso” basato sulla circolazione di uomini e palla (i Cavs creano poche opportunità di assist, solo 41.4, tra le ultime 5 della Lega), si è deciso di “semplificare" il più possibile e di sfruttare il più possibile le straordinarie capacità dal palleggio di James e Irving, che non a caso sono numero 2 e numero 6 dell’intera NBA per possessi giocati in isolamento (345 LeBron, 197 Kyrie) e numero 15 e numero 5 per "pick and roll" (348 LBJ, 455 KI).
Il risultato è certamente positivo dato che i Cavs—pur con tutti i loro problemi di chimica, infortuni e integrazione di Love—sono il 5° miglior attacco della stagione NBA, ma è un attacco che troppo spesso ha bisogno di partite “sovrumane” di Irving e James per avere la meglio contro difese esperte. E ad ogni modo, pur con tutti i miglioramenti dell’ultimo mese e mezzo, nell’altra metà campo i Cavs rimangono la 17.esima difesa NBA in stagione, e nessuna squadra negli ultimi anni ha vinto il titolo con una difesa così scarsa.
Conclusioni
Per essere al primo anno insieme, le cose per i Cavs sarebbero potute andare molto peggio: ci sono state difficoltà dentro e fuori dal campo, ci sono state grandi vittorie e pessime sconfitte, c’è stata enorme attenzione mediatica, l’allenatore è stato almeno un paio di volte messo in discussione, sia James che Irving hanno dovuto saltare delle partite e i mesi più difficili stanno per arrivare, complice anche il peggior calendario della NBA post-All-Star Game e il banco di prova dei playoff.
Paradossalmente, per loro in questo momento è più importante affrontare delle vere sfide in ambienti ostili come quella di domenica scorsa contro gli Houston Rockets piuttosto che passeggiare su degli avversari inferiori che non permettono di fare esperienza nei momenti in cui si decide la partita. Ad ogni modo, le valutazioni su questa squadra si faranno solamente in base ai risultati che riuscirà a raggiungere ad aprile e maggio, con la possibile finestra di giugno: se i primi Miami Heat sono stati considerati un “fallimento” per aver perso il titolo NBA contro Dallas, non si può pensare che qualsiasi risultato diverso dal Larry O’Brien Trophy sia accettabile per i Cavs di LeBron, Irving e Love.
Perché alla fine, nel bene o nel male, ha ragione solo chi vince.