
Che la Liga venga decisa da un Clásico nelle ultime giornate non è una novità nella storia recente del calcio spagnolo. Il 2 maggio 2009, per esempio, il Real Madrid arrivava allo scontro diretto della 34ª giornata con soli quattro punti di distanza dal Barcellona: lo stesso distacco con cui la squadra di Ancelotti, ieri, si è presentata a Montjuic. Sappiamo tutti come andò a finire nel 2009: è il Clásico rimasto nella storia per l’intuizione di Guardiola di spostare Messi falso 9. Quella partita fu forse il più grande statement del Barcellona in quella stagione, proprio quando il Real Madrid sembrava essere tornato in scia. Tutti ricordiamo il 6-2 finale, ma tendiamo a dimenticare quanto fu difficile, per i blaugrana, quella gara nei primi minuti. Il Real Madrid di Juande Ramos era passato in vantaggio con Higuaín e Robben era imprendibile per la difesa del Barcellona, che era sembrata sul punto di crollare: un copione incredibilmente simile, a sedici anni di distanza, a quello della partita di ieri.
Come allora, anche a Montjuic i dubbi iniziali si sono trasformati presto in una delle prove di forza più schiaccianti dei catalani: non ci si lasci ingannare dal risultato, perché solo Modrić e Valverde da una parte, e Ferrán e Raphinha dall’altra possono spiegare come abbia fatto il Real Madrid a rimanere in vita così a lungo. Il primo ha tratto 0 gol da 0,9 npxG, il brasiliano è stato sì autore di una doppietta, ma da 2,2 npxG e con le mani sporche di sangue per aver sprecato gli assist d’esterno di Lamine Yamal, il secondo dei quali avrebbe chiuso la partita sul 4-2.
Eppure l’inizio lasciava intravedere qualcosa di diverso, perché dopo nemmeno un quarto d’ora il Real Madrid era sopra di due gol.
Il primo, per la verità, era nato in maniera piuttosto casuale, frutto di un errore non forzato di Cubarsí che, senza pressione, provando a intercettare un passaggio di petto aveva servito Mbappé a tu per tu con Szczesny, costretto a commettere fallo da rigore.
Il secondo, invece, figlio di un contropiede nato da una lettura di Federico Valverde, che ha fermato Lamine Yamal in campo aperto. Alla fine, l'uruguagio è stato l’unico insieme a Modrić e a Mbappé a uscire a testa alta dalla sfida.
È paradossale: al termine di una sconfitta tanto disastrosa non solo Mbappé ha segnato una tripletta, ma Vinicius gli ha anche regalato due assist. Anche questa è una notizia, se si considera che la loro intesa è uno dei grandi problemi per il Real Madrid. La realtà, però, è che i tre gol di Mbappé rientrano nella logica della gara, perché il francese, se ci sono spazi, è di per sé una minaccia. Vinicius, invece, sta soffrendo in questo Real Madrid che, perso il suo centrocampo storico, ha perso la sua identità. Gli assist per Mbappé sono casi isolati all’interno di una partita mediocre del brasiliano, che ha mostrato anche un pessimo atteggiamento.
Pensieri ancora lontani da Vini e dal grande pubblico, quando dopo lo 0-2 lui e Mbappé avevano abbozzato la classica esultanza con saltello di Cristiano Ronaldo. Forse il Real Madrid era troppo sicuro di sé, a quel punto, ma come non esserlo? Il Barça non solo era reduce dalla delusione di San Siro, ma una sconfitta in casa contro il Real Madrid avrebbe riaperto una Liga che ormai sembrava chiusa. A livello emotivo, questo 0-2 poteva essere particolarmente difficile da rimontare.
E invece no, ed è questo il grande merito di Flick: aver dotato i suoi uomini, attraverso quel gioco che in molti criticano all’indomani dell’eliminazione in Champions, di una fiducia nei propri mezzi tale che neanche due cazzotti in una partita decisiva per la stagione riescono a turbarli.
Il Barcellona si è impossessato della trequarti e già alla fine del primo tempo si è portato sul 4-2. Ha aperto la rimonta un gol di Eric García sugli sviluppi di un calcio d’angolo. Il pareggio, invece, lo aveva siglato Lamine Yamal con quello che ormai è il suo classico piattone a giro sul secondo palo (a diciassette anni e dopo nemmeno due stagioni da professionista, ci sono già almeno tre giocate che potremmo definire classiche di Lamine Yamal: i tiri sul secondo palo, i cross a rientrare sul lato debole e gli assist d’esterno dietro la difesa).
La precisione di Yamal, che fa passare il pallone per la cruna di un ago col Real tutto schiacciato in area, è prodigiosa. Ma l’inizio dell’azione testimonia quanto Pedri migliori ogni attacco del Barcellona. Il canario non solo detta i tempi, ma ha anche la capacità di risolvere l’enigma più complicato che il calcio possa porre: scardinare una difesa chiusa. Quando il Barça attacca blocchi bassi, Pedri trova il tempo e lo spazio di incunearsi tra le maglie avversarie in conduzione: a quel punto, difensori e centrocampisti sono costretti a chiudersi intorno a lui, come se Pedri fosse il cursore e i suoi avversari la cerniera lampo. In questo modo, ai compagni resta più spazio, e quando Pedri li serve hanno tutto il tempo e le condizioni per creare qualcosa di pericoloso.

Nel caso dell’azione del gol di Lamine Yamal, Pedri attira tutto il Real Madrid intorno a sé, prima di servire Ferrán: quando l’attaccante scarica su Lamine Yamal, il fenomeno spagnolo è totalmente libero di costruirsi quella conclusione geniale.
Il Real Madrid degli ultimi anni, anche nei suoi momenti migliori, magari non era stato dominante lungo i 90’ minuti, ma non usciva mai dalle partite e di sicuro non favoriva gli avversari con errori gratuiti. Di quella squadra, però, è rimasto poco una volta spariti gli uomini che con la loro tecnica davano coerenza al disegno prima di Zidane e poi di Ancelotti. Così, a metà primo tempo, Mbappé e Ceballos, due giocatori che di certo non parlano la stessa lingua, fanno l’autoscontro in mezzo al campo perché non capiscono a chi debba andare il pallone. Ne esce vincitore Pedri, per distacco miglior giocatore della Liga per palloni vaganti recuperati (238; il secondo, Mosquera del Valencia, è fermo a 177). Quando il canario sfila loro il pallone, il povero Lucas Vazquez era salito per dargli una linea di passaggio: con quel fianco scoperto, Pedri deve solo imbucare per Raphinha, che supera Courtois.
Se l’errore di Mbappé e Ceballos è frutto di una qualche indecisione, non ci sono giustificazioni, invece, per il mancato stop con cui Lucas lascia sfilare un retropassaggio e spalanca l’area ancora a Raphinha: la combinazione tra il brasiliano e Ferrán porta al gol del 4-2 al 45’.
Per come si era messa la partita, si prospettava un secondo tempo in cui il Barcellona avrebbe potuto accanirsi sul cadavere del Real Madrid.
Il Barcellona deve stare attento a fare il gatto che gioca troppo col topo senza ucciderlo, perché ha già pagato in passato e ha rischiato di farlo anche ieri. Poco più di un minuto dopo l'occasione di Ferrán che avete visto sopra, un altro errore non forzato ha spalancato la porta al Real Madrid per il 4-3.
Si è parlato tanto dei difetti strutturali di una difesa estrema come quella del Barcellona, ma ieri spesso sono stati gli stessi difensori catalani a comprometterne la stabilità con degli errori gratuiti. Se vuole crescere, e se vuole continuare ad adottare con successo un atteggiamento di questo tipo, il Barcellona dovrà ridurre gli errori individuali al minimo, perché altrimenti ogni tocco impreciso è una roulette russa.
Certo, i problemi strutturali rimarranno, e il Real Madrid, pur in una giornata storta, ha dimostrato di poterli sfruttare, soprattutto perché se Mbappé prende le giuste misure alla trappola del fuorigioco, non c’è niente che possa contenerlo in profondità. Il secondo gol e il rigore poi tolto al francese ne sono stati una prova evidente. Così come lo è stata l’occasione del canterano Victor Munoz, che ha avuto la palla per il 4-4 una manciata di secondi dopo aver sostituito un acciaccato Vinicius.
C’è stato anche il 5-3 annullato a Fermín per un tocco di mano, che ha scatenato polemiche visto che uno degli uomini al VAR, vedendo il tocco incriminato, pare abbia detto «menos mal», e qualunque fosse il suo intento capite bene che queste parole non potevano non destare polemica in una Spagna che somiglia sempre di più all’Italia per come sta diventando tossico il dibattito intorno agli arbitri.
Quando tre anni fa era ancora in ballo per le elezioni presidenziali, Joan Laporta fece appendere un grande manifesto sulla facciata di un palazzo nei pressi del Bernabéu: sullo sfondo rosso campeggiava il suo faccione, e accanto una scritta piuttosto arguta: “Ganas de volver a veros”, recitava, voglia di tornare a incontrarvi. Laporta – insieme a Messi – è l’uomo che in questo millennio è stato capace di riequilibrare la bilancia dei successi tra Real Madrid e Barcellona. Il messaggio dietro quello slogan era chiaro: Laporta come unico presidente in grado di tenere testa al potere della Casa Blanca, quello della manita e delle continue umiliazioni nei Clásicos, l’uomo che aveva fatto vivere i loro peggiori incubi ai tifosi del Real Madrid.
Prima che Laporta ritornasse alla presidenza del club, i culé stavano vivendo il loro momento più difficile: non vincevano la Liga da tre anni, avevano fatto incetta di umiliazioni in Europa mentre il Real Madrid ne aveva vinte a ripetizione e, nel frattempo, avevano pure perso Messi.
Dopo tre anni, si può dire che avesse ragione: alla fine, in Spagna è tornato qualcuno in grado di battere il Real Madrid, e di farlo in maniera schiacciante, com’erano soliti fare i catalani nei loro migliori momenti. Tornare alla vittoria, però, ha avuto un prezzo. Costretto a muoversi in maniera a dir poco creativa per via delle disastrose gestioni precedenti, il nuovo Barcellona di Laporta per tornare a trionfare e ad esprimere il calcio che gli appartiene, ha dovuto barattare molti dei suoi tratti identitari. Per l’immagine che trasmette, è più dura oggi sostenere che il Barça sia més que un club: il tifo occasionale e mediamente blando, le giravolte per iscrivere Dani Olmo nella lista per la Liga, la marchetta a Travis Scott sulla maglia del Clásico e, in generale, quella stessa sensazione di “turistico” che si ha visitando la Barceloneta o il parco intorno alla Sagrada Familia. Vincere, ma a che costo?
Riuscire a recuperare quel tipo di identità sarà difficile, ma essere ripartiti da un modello di gioco preciso (qualcosa che ossessione abbastanza i tifosi veraci del Barcellona) e dalla Masia è già qualcosa.
Il Real Madrid, invece, affoga in una crisi che a qualcuno ricorda il periodo dei Galácticos: Florentino ha fatto il passo più lungo della gamba, ammassando campioni senza creare una vera squadra. Per trovare una risposta si libererà di Ancelotti, per il quale la rosa di quest’anno è rimasta un rompicapo. Pare che il nome per il prossimo anno sia Xabi Alonso: gli allenatori troppo identitari sono soliti fallire a Madrid, ma l’ex centrocampista basco è una leggenda dei blancos e si sa quanto contino aspetti del genere in un club così particolare. Nell’estate del 2009, all’indomani del Clásico del 6-2 e dei successi del Barça di Guardiola, Xabi Alonso era stato uno degli acquisti su cui Florentino aveva posto le basi del suo secondo mandato da presidente, uno di quelli che, negli anni, gli avrebbero permesso prima di ridurre il gap col Barcellona, e poi di tornare a dominare in Europa: potrà accadere ancora una volta?