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Dario Saltari
Perché si vedono tante bandiere palestinesi al Mondiale
12 dic 2022
12 dic 2022
Una questione più complessa di quanto non sembri.
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Dario Saltari
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Ayman Aref/NurPhoto via Getty Images
(foto) Ayman Aref/NurPhoto via Getty Images
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Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche. In questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.

Per Arsene Wenger la disfatta di molte Nazionali europee in questo Mondiale si spiega facilmente. «Le squadre che non hanno deluso nella loro prima partita - perché quando vai al Mondiale sai che non devi perdere la prima partita - sono le squadre più esperte, o anche quelle che erano mentalmente pronte e avevano la propria concentrazione diretta sulla competizione sportiva e non sulle manifestazioni politiche». La dichiarazione è di otto giorni fa, e la voglio prendere seriamente nonostante dal novembre del 2019 Wenger non parli più solo come leggenda del calcio e storico allenatore dell’Arsenal, ma anche come Chief of Global Football Development della FIFA, qualsiasi cosa significhi. Wenger insomma parla ufficialmente anche a nome dell’organo che da sempre predica la separazione dello sport dalla politica, che ha minacciato con sanzioni sportive il tentativo da parte di alcune Nazionali europee di indossare una fascia arcobaleno a sostegno della comunità LGBTQ+, ma questo non cancella la sua identità di uomo di calcio, di esperto delle dinamiche che contribuiscono a determinare i risultati sul campo da gioco.

L’ex allenatore francese probabilmente si riferiva alla Germania, al Belgio e alla Danimarca, tre Nazionali che durante la fase di qualificazione del Mondiale hanno provato a prendere posizione contro le violazioni dei diritti umani commesse dal Qatar nell’organizzazione di questo Mondiale, ed effettivamente Germania, Belgio e Danimarca sono state tre tra le Nazionali più deludenti in assoluto. La Germania, in particolare, è stata l’unica Nazionale tra queste che ha preso posizione anche durante il Mondiale, con una mano davanti alla bocca che è stata presa in giro anche dalla TV del Qatar, ed è indubbio che sia stata la più deludente di tutte, venendo eliminata in un girone che sembrava ampiamente alla sua portata.

A otto giorni da quella dichiarazione, però, sarebbe interessante tornare a chiedere a Wenger come si applicherebbe la sua teoria alle squadre arrivate in semifinale, per esempio all’Argentina (che, anche se oggi è difficile ricordarselo, ha perso malamente la prima partita del girone contro l’Arabia Saudita) ma soprattutto alla grande sorpresa del Mondiale, il Marocco.

Se avete visto i festeggiamenti della squadra di Regragui dopo la clamorosa vittoria contro il Portogallo è probabile che avrete notato delle bandiere diverse da quelle del Marocco sulle spalle dei giocatori. El Yamiq, ad esempio, ha ballato con indosso un vessillo diviso a metà tra la bandiera del Marocco e quella del Qatar. Sabiri, invece, si è fatto fotografare con una bandiera della Palestina sulle spalle, e poi ha messo la foto su Instagram con la caption: “Libertà”.

Non è la prima volta che la bandiera palestinese compare sulle spalle dei giocatori di Regragui. Dopo la vittoria con la Spagna ai rigori, ad esempio, il Marocco ha fatto addirittura una foto di gruppo con la bandiera della Palestina. Cosa pensa Arsene Wenger di queste foto? Festeggiare con i simboli nazionali del Paese coinvolto nel più controverso conflitto del Novecento non è forse classificabile come "manifestazione politica”? E se così fosse, come si spiega allora il suo successo?

C’è chi risponderà a questa domanda dicendo che la questione palestinese è talmente al centro del cosiddetto mondo arabo da essere identitaria più che politica, e quindi sostanzialmente invisibile e inodore in quel contesto, sostanzialmente pacifica, non conflittuale. “Abituati alle battaglie mediatiche e di posizionamento – già pensiamo al Marocco che ha voluto intestarsi la lotta palestinese per essere rappresentante sul campo del mondo arabo, come se fosse un calcolo – non siamo più in grado di capire che le identità, nonostante tutto, rimangono; che le culture rimangono”, ha scritto ad esempio Giovanni Casci su Rivista Contrasti. È un pensiero che è apparentemente facile da sostenere allargando lo sguardo dal campo agli spalti, e alle strade di Doha tra uno stadio e l’altro.

In questa edizione dei Mondiali, forse per la prima volta, abbiamo visto tante bandiere palestinesi sugli spalti, non solo tra i tifosi marocchini, ma prima di loro anche tra quelli tunisini. Oltre che per le strade di Doha sono state spesso esposte negli stadi, simbolicamente al minuto ’48 per ricordare l’esodo di massa delle popolazioni palestinesi a seguito della guerra arabo-israeliana del 1948 (la cosiddetta al-nakba, letteralmente “la catastrofe”). I tifosi marocchini, a Doha, per festeggiare hanno intonato il tipico canto Rajawi a sostegno della Palestina. Allo stesso tempo i reporter israeliani sono stati bullizzati decine di volte dai tifosi (non solo arabi), sono stati invitati a tornare a casa o semplicemente presi alla sprovvista dai cori Free Palestine, e a un certo punto sono stati costretti a mentire sulla loro reale provenienza, introducendosi come giornalisti europei o sudamericani pur di ottenere una qualche dichiarazione. Se il Qatar ha permesso che tutto questo accadesse - mentre allo stesso tempo si dimostrava incredibilmente attento a non far entrare negli stadi nemmeno bandiere vagamente somiglianti a quella arcobaleno, nemmeno bandiere ucraine, cacciando anche i tifosi albanesi che provavano a fare il gesto dell’aquila - è solo perché è un regime arabo?

Considerare quella palestinese come una questione identitaria più che una politica ci permette apparentemente di ricomporre nella nostra visione europea occidentale le molte contraddizioni che questo Mondiale ha prodotto. Per esempio vedere l’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, festeggiare dopo la sconfitta del Portogallo sventolando una bandiera del Marocco come abbiamo visto fare ai numerosissimi cittadini di origine marocchina nei sobborghi di Milano, Bruxelles, Parigi o Madrid. Una delle persone più ricche e potenti del mondo che condivide la stessa gioia dei cittadini dimenticati delle più povere periferie europee. D’altra parte era stato lui stesso ad aver introdotto il suo discorso durante la cerimonia d’apertura del Mondiale specificando di voler parlare a nome di tutto il mondo arabo, e a vedere superficialmente queste immagini sembrerebbe aver ragione lui.

Contradditori sono anche i festeggiamenti in Palestina per la vittoria inaugurale dell’Arabia Saudita, nonostante da anni flirti diplomaticamente con lo Stato di Israele, e lo sono ancora di più i complimenti ufficiali dopo quella partita da parte di Hamas e dei leader degli huthi, il movimento armato dello Yemen che è ufficialmente in guerra con Riyadh da circa 7 anni. Festeggiamenti in Palestina ci sono stati anche dopo la vittoria del Marocco contro il Portogallo, ma questa volta le forze armate israeliane hanno reagito con la violenza.

Per quanto comodo, cercare di ricomporre queste contraddizioni all’interno di un innato sentimento pan-arabo a favore della Palestina, come se il sostegno alla causa palestinese fosse connaturato geneticamente, significa sostanzialmente abdicare alla comprensione, trattare società complesse da civiltà monolitiche in perpetuo conflitto tra di loro. D’altra parte, rovesciando il ragionamento, sarebbe assurdo sostenere che in Europa il sostegno alla comunità LGBTQ+ sia diffuso tra tutti gli strati delle nostre società solo perché alcune Nazionali europee hanno provato a prendere posizione sul tema. Eppure guardando ai Paesi arabi questo stesso ragionamento con la causa palestinese ci sembra assolutamente logico e razionale.

Certo, se il Mondiale si fosse svolto in Europa o negli Stati Uniti probabilmente le bandiere palestinesi negli stadi non ci sarebbero nemmeno entrate, con la stessa pretestuosa scusa della presunta divisione tra sport e politica che permette a ogni regime di perseguire i propri obiettivi. Ma trattare quella palestinese come una questione identitaria oggi significa ignorare o negare il conflitto che esiste tra larga parte della popolazione degli stati a maggioranza araba e i loro governi. Il governo del Marocco, nonostante ufficialmente sostenga la causa palestinese, ha ad esempio firmato nel dicembre del 2020 un accordo di normalizzazione dei propri rapporti con lo Stato di Israele, ristabilendo relazioni diplomatiche di amicizia. A stringere metaforicamente le due mani è stato il governo degli Stati Uniti, che in cambio ha accettato di riconoscere ufficialmente le pretese del Marocco sui territori del Sahara Occidentale, occupati militarmente da quasi mezzo secolo in violazione delle norme del diritto internazionale (fatto che rende per lo meno ambiguo il punto di vista secondo cui quelle del Marocco su Spagna e Portogallo sarebbero vittorie anti-coloniali o post-coloniali). Poco dopo l'ufficializzazione dell'accordo, le autorità marocchine hanno represso violentemente una manifestazione di protesta di alcune organizzazione pro-Palestina a Rabat. Secondo un sondaggio effettuato nell’ottobre del 2020, ben l’88% dei marocchini era contrario alla normalizzazione dei rapporti con lo Stato di Israele, una percentuale scesa nei mesi successivi tra il 60% e il 70% dopo le concessioni fatte al Marocco dal governo degli Stati Uniti.

Foto di Lars Baron/Getty Images

In Qatar ci sono quindi sia marocchini che pensano che la causa palestinese sia “una crisi fabbricata ad arte per tenere la tensione alta in Medio Oriente e legittimare la posizione dell’Iran”, come ha detto un tifoso al quotidiano Middle East Eye prima della sfida contro la Spagna, sia quelli che espongono la bandiera palestinese per contestare pubblicamente il processo di normalizzazione dei rapporti che molti Paesi arabi stanno intraprendendo con lo stato di Israele (oltre al Marocco si possono citare anche gli Emirati Arabi Uniti, il Sudan, il Bahrain, l’Egitto e la Giordania). D’altra parte, tra i tifosi marocchini sono stati visti anche poster con scritto “No alla normalizzazione” e magliette con l’immagine di Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese uccisa dalle forze israeliane lo scorso maggio. Persino in Qatar, dove al Jazeera può pubblicare editoriali molto duri sul tema come questoesistono attivisti preoccupati che anche il regime di Doha possa avviare il processo di normalizzazione con Israele, e hanno visto come un capannello d’allarme i primi voli diretti tra i due Paesi dopo decenni, come richiesto esplicitamente dalla FIFA.

Esporre una bandiera palestinese, per quanto tollerato nei Paesi arabi, oggi è più controverso di quanto non pensiamo e proprio il fatto che il tema abbia un valore simbolico speciale in questi Paesi rende il gesto all'interno del contesto attuale più politico e meno scontato che in altre parti del mondo. Spesso, come abbiamo visto, è poi diretto a denunciare la stessa ipocrisia che ha portato le autorità europee a trasformare questo tema addirittura in un tabù (e di conseguenza a creare molti problemi per i calciatori arabi che hanno provato a prendere posizione sulla questione in Europa, come per esempio Mohamed Salah all’inizio della sua carriera). Appiattire la questione palestinese a semplice parte dell’identità araba in questo senso significa sostanzialmente derubricarla a problema che non riguarda la “nostra” parte del mondo, nonostante l’ipocrisia dei “nostri” governi impedisca la sua risoluzione almeno tanto quanto quella dei governi arabi, se non di più (e forse è proprio per questo che le bandiere palestinesi ci fanno così tanto effetto: eravamo talmente abituati ad averle eliminate dal nostro campo visivo che ci ha fatto impressione il semplice fatto di esserle tornate a vedere dentro uno stadio). Trattarle come una “cosa araba” è l’ultima spiaggia di chi non vuole vedere che contengono un problema, per tutti.

Che sia stato favorito volontariamente dal governo del Qatar o se sia stato frutto del caso che ha portato il Marocco fino in semifinale, il ritorno del dibattito intorno alla questione palestinese è comunque indicativo. È passato poco più di un mese dalla famosa lettera di Gianni Infantino che chiedeva alle Nazionali che avrebbero partecipato al Mondiale di dimenticare le battaglie politiche e di “concentrarsi sul calcio”. Adesso sarebbe interessante sapere se poco prima della storica semifinale contro la Francia chiederebbe lo stesso anche alla Nazionale marocchina e all’Emiro del Qatar.

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