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Paura e delirio al Wanda Metropolitano
14 apr 2022
14 apr 2022
Uno zero a zero drammatico.
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​​Quando le squadre si avviano negli spogliatoi per la fine del primo tempo, in fondo sembra una partita normale, vagamente noiosa. Una di quelle gare di ritorno di Champions League in cui il punteggio in bilico paralizza la testa e le gambe. Le due squadre, come due giocatori di poker con una mano troppo fiacca, lasciano che le carte a terra si scoprano senza rilanci, in attesa che il fato, il caso - o qualsiasi cosa che dall’esterno decide il destino - si prenda la responsabilità di decidere. Cosa c’era stato in quel primo tempo?

L’Atletico Madrid si è disposto col suo rigoroso 5-4-1 molto basso: lo schieramento che più e meglio riesce a condensare corpi umani tra l’avversario e la porta, comunque un atto di coraggio rispetto al 5-5-0 della partita d’andata. La differenza è che Joao Felix resta solitario in avanti a fare il pendolo in pressing tra un centrale difensivo e l’altro, eterno sconfitto a ruba bandiera. Col tempo ci accorgiamo che, in realtà, la partita non è quella d’andata; non è, cioè, un manieristico esercizio attacco contro difesa. L’Atletico ogni tanto alza il baricentro del proprio pressing. Lemar e Griezmann - i due esterni-trequartisti - prendono i terzini Walker e Cancelo; Koke si alza su Rodri, mentre Joao Felix rimane, appunto, a “ballare” tra i due centrali. Nel primo tempo il City ha sfruttato bene la superiorità numerica nella costruzione, e uno spazio stranamente ampio tra le linee dei giocatori di Simeone. Negli ultimi venti minuti del primo tempo la squadra di Guardiola ha iniziato a palleggiare, e a forza di far girare il pallone ha abbassato l’Atletico, iniziando a trovare qualche spazio. I movimenti di Bernardo Silva sono stati la chiave. Schierato nominalmente esterno sinistro, si muoveva in realtà su tutto il fronte offensivo, creando superiorità in zona palla sia al centro che ai lati. Al 30’ si è defilato sulla destra per scambiare palla con Mahrez, che ha visto l’inserimento in profondità di Walker e lo ha servito con un esterno sinistro rasoterra dolcissimo, lontano dalla perfezione virtuale di Modric, ma comunque di grande sensibilità. Il cross di Walker ha attraversato tutta l’area e, finito sui piedi di Foden, è arrivato su quelli di Gundogan, un maestro di questo tipo di situazioni. Il tedesco tira di piatto sinistro sul palo.

Non è successo altro. Il conto degli xG a fine primo tempo fotografano una partita straziante da guardare. Agli 0,57 del City si contrappongono gli 0,02 dell’Atletico Madrid: i primi nelle tre frazioni di gioco tra andata e ritorno. Due idee di calcio così contrapposte che una volta messe sullo stesso campo non riescono a produrre niente. Un trionfo di sterilità. Durante la partita a tratti è difficile anche solo ricordarsi le cose essenziali: chi deve vincere? Chi deve fare gol?

A voler essere razionali, non c’è nessun segnale che la squadra di Simeone possa fare qualcosa. Eppure ci sono strane vibrazioni nell’aria. Chissà se il Manchester City ha cominciato a rimuginare su quella occasione di Gundogan; chissà se negli spogliatoi la squadra si è lasciata andare a quella che gli inglesi definiscono “co-rumination”, cioè una pratica di condivisione di pensieri paranoici che finisce per intossicare la psiche delle persone coinvolte. Le squadre di Guardiola hanno un lungo curriculum di eliminazioni implausibili, diaboliche e spettacolari: i gol sbagliati sono parte integrante di quella grammatica. L’Atletico Madrid sembra morto, ma è quella la sua storia e la sua forza: convincere gli avversari che il momento in cui è più pericoloso è proprio quello in cui sembra spacciato. L’Atletico aveva attaccato poco, certo, ma lo aveva fatto in quel modo mellifluo da rettile che è solo suo. Sembrava comunque poter trovare un momento di brillantezza, anche solo un momento, dopo estenuanti fasi di attesa e pazienza maniacale. Contro il Manchester United Renan Lodi aveva messo un cross dalla trequarti su cui Joao Felix si era gettato a volo d’angelo per segnare l’1-0.

Nella due giorni di Champions League gli umori delle partite del martedì imbevono quelle del mercoledì. Qualche anno fa la follia di Roma-Barcellona aveva finito per contaminare quella di Real Madrid-Juventus, convincendo la squadra di Allegri di poter completare l’assurda rimonta al Bernabeu. Chissà quindi se i giocatori del Manchester City a fine primo tempo si sono messi a pensare a Bayern Monaco-Villareal, dove una squadra follemente offensiva è capitolata di fronte a una follemente difensiva. La fatica abnorme del Bayern, che ha portato attacchi per novanta minuti, infine resa vana da un unico colpo perfettamente assestato. Dalla partita d’andata il City era uscito vittorioso ma con un’appiccicosa sensazione di sconfitta che si sentiva ancora addosso, come se non avessero fatto abbastanza, come se, senza un margine di sicurezza, fossero in pericolo, anzi: proprio spacciati.

Phil Foden, decisivo nella partita d’andata, rientra in campo con una fasciatura in testa che gli dà una strana aria androgina. Al 12’ è saltato di testa in una zona innocua di campo, e a un certo punto ha sentito arrivare una specie di fredda bastonata sulla testa. Felipe gli era saltato alle spalle con durezza spropositata, utile solo ai sottili fini intimidatori di una squadra di Simeone. Un episodio che è uno di quei dettagli hitchcockiani che troveranno un senso rivelativo nella storia solo più avanti.

Nel secondo tempo il Manchester City viene preso da una paura crescente, stralunato col pallone tra i piedi e senza. Dopo 10’ Griezmann va vicino a un gol eccezionale, d’esterno sinistro da fuori area, che avrebbe fatto crollare tutta l’impalcatura emotiva delle squadre e dello stadio. Il Manchester City si spaventa ancora di più. Al 69’ De Paul calcia di prima su uno scarico all’indietro, la palla solo per poco non riesce a rientrare in tempo nello specchio della porta. La squadra di Simeone trova fiducia nelle giocate piccole, e quindi prova anche quelle grandi. Il pressing diventa sempre più intenso ed efficace, di fronte a un City sempre meno sicuro di sé. A un certo punto qualcosa sembra essersi davvero rotto, nella squadra di Guardiola, che rinuncia completamente alla costruzione dal basso, e quindi di fatto alla propria identità. Nell’ultimo quarto d’ora Ederson inizia effettivamente a fare lanci da 80 metri, come profetizzato da Allegri, e i difensori iniziano a buttar via il pallone per non correre il rischio di perderla in zone pericolose. Il Wanda Metropolitano canta sempre più forte, in un mare di sciarpe agitate, e pare di stare dentro un rito propiziatorio per far diventare quella serata, una serata dell’Atletico Madrid.

Guardiola siede chinato ai bordi della propria area tecnica, con una mano sulla bocca. Indossa un maglione nero a collo alto serio ed esistenzialista. Pare portare tutto il peso paradossale della sua carriera: demiurgo di una buona parte del calcio che vediamo oggi, ma con un rapporto controverso con la Champions League, ovvero la coppa che crea poi il canone del calcio. Per questo Guardiola sembra comunque sempre preso dall’ansia di dover dimostrare qualcosa, e sa che è in quei momenti di partita che si gioca una piccola fetta della sua legacy. Cosa avrebbe significato, in quel momento, una sconfitta contro l’Atletico di Simeone, la sua nemesi?

Lentamente, la partita scivola nel territorio dell’Atletico Madrid. La squadra inizia ad annusare la paura del proprio avversario. Il City forse si sente ancora superiore, sente di non aver rischiato niente nel doppio confronto, eppure mancano una decina di minuti e sa che può perdere in qualsiasi momento. Questa specie di ipnosi a Simeone riesce ancora: convincere i propri avversari che basta un piccolo dettaglio storto per vedere il proprio mondo crollare, che nessuna sofisticazione razionale può davvero controllare il calcio. Simeone evoca l’irrazionalità, e costruisce squadre che la cavalcano, mentre Guardiola cerca di eliminarla (non è questo, forse, quello che non gli perdonano molti appassionati?).

A quel punto, a dieci minuti dallo scadere, abbiamo cominciato a credere che le eterne leggi del calcio si sarebbero abbattute su questa partita. Il cinismo passionale dell’Atletico Madrid avrebbe infine avuto la meglio sulla cerebralità del Manchester City. In Guardiola allora si sarebbe consumato il dramma classico dell’uomo che prova a controllare tutto sostituendosi a Dio, e che infine viene punito nel modo più crudele possibile. Questi fantasmi hanno assunto una fisionomia precisa, quando dalla panchina si è alzato Luis Suarez. L’Atletico chiude con cinque punte, in un ironico rovesciamento del proprio modulo dell’andata. La squadra non riesce a creare niente di troppo pulito, ma il dramma del momento ingigantisce tutto, e quando Correa fa una sponda di petto per Cunha, il mondo di Guardiola pare finalmente poter crollare.

Stones invece fa un grande salvataggio. Sul calcio d’angolo successivo una palla si alza pericolosamente vicina alla riga di porta, Savic sembra poterci arrivare, ma la sfiora soltanto con la punta. I dettagli che potevano rivoltarsi contro Guardiola, alla fine si sono incastrati a suo favore. L’Atletico allora crolla sotto al peso dei propri nervi, e nasce la commedia grottesca degli ultimi minuti. Foden, sempre lui, si lancia in velocità sull’esterno; arriva a chiuderlo Felipe, con una di quelle scivolate a spazzare tutto in rimessa laterale che lanciano messaggi indiretti agli attaccanti. Da terra, però, Felipe trova il modo e la coordinazione - davvero un miracolo tecnico - per dare un colpo a Foden. Quello si rotola dolorante per rientrare in campo, Savic gli si avvicina e lo prende per la maglia trascinandolo fuori, mentre intorno esplode il caos più totale. Savic, con gli occhi iniettati di sangue, è il principale agente di caos. Va a muso duro contro tutti, e quando Grealish si avvicina per insultarlo, Savic gli prende i capelli come Giuditta con la testa di Oloferne durante la sua decapitazione. Nel frattempo mette su un sorriso da autentico demonio.

Stephen O'Donnell durante gli Europei ha confidato che un buon metodo per marcare Grealish è riempirlo di complimenti per i capelli e i muscoli. Era un consiglio dell'ex compagno di squadra di Grealish, McGinn. O'Donnell ha raccontato che quando Grealish è entrato gli ha fatto i complimenti per i suoi bei polpacci. Savic conosceva questa storia, di sicuro.

Il gioco rimane fermo per una quantità non ricostruibile di minuti, e il tutto assume la forma di un torneo di categoria. La cosa strana è che i giocatori dell’Atletico Madrid - quelli che dovrebbero recuperare il risultato - sembrano quelli meno interessati a riprendere a giocare. Hanno interrotto il flusso della partita proprio nel momento in cui stavano giocando meglio. In fondo però non c’è niente di strano: la dimensione calcistica e quella emotiva, per l’Atletico Madrid, sono legati l’una all’altra, indivisibili. Da casa non si capisce bene cosa stiamo guardando: bisogna inorridire di fronte a una negazione così plateale dei valori sportivi, oppure possiamo lasciarci intrattenere da questo spettacolo grottesco?

Quando il gioco riprende siamo già oltre il novantesimo e si gioca in una bolla d’emotività che brucia sulla pelle dei giocatori del City. Una squadra tutta cerebrale, che nel momento in cui la partita diventa emotiva non sa più bene cosa fare. C’è un tiro velleitario di Marcos Llorente che cade tra le gambe di Correa sdraiato a terra, quello si rialza con un’elasticità irreale e calcia a incrociare. È un tiro che finisce però troppo centrale sui piedi di Ederson. Probabilmente se si fosse giocato per altri cinque minuti l’Atletico avrebbe segnato, ma al 110’ la partita finisce. Il Manchester City ne esce vittorioso scimmiottando goffamente l’Atletico Madrid: accettando le provocazioni, cavalcando gli episodi, cercando di rischiare il meno possibile. I giocatori si abbracciano in mezzo al campo con l’aria dei sopravvissuti. Ai lati il frastuono: il pubblico del Wanda Metropolitano applaude in estasi la propria squadra. Una squadra che ha perso di misura, che è andata vicina a girare le sorti del confronto, ma che in fondo si è concessa il lusso di provare a vincere solo per una ventina di minuti su 180. Tuttavia pubblico, giocatori e allenatore sono lì indivisibili, parte di un unico brodo primordiale di nervi, retorica e ideologia. Il pubblico applaude i giocatori, i giocatori applaudono il pubblico, con gli occhi bagnati dalle lacrime, l’aria di soldati tornati sconfitti dalla guerra santa. Non sappiamo se emozionarci, di fronte a questo spettacolo da fuori grave e indecifrabile, oppure se provare un sano a impulso a distaccarsi, per una volta. A volte il calcio sembra davvero una cosa troppo seria.

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