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L'atletica italiana è viva
29 ago 2023
29 ago 2023
Erano 24 anni che l'Italia non andava così bene ai Mondiali.
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Analizzando lo stato di salute dell’atletica italiana dopo gli Europei di Berlino, ormai cinque anni fa, Jvan Sica tirava le somme su cosa aspettarsi dal futuro: «Poi, come sempre è successo, deve arrivare un campionissimo, che vince perché non può fare altro. E magari si tira dietro tutto il movimento». All’indomani dei Mondiali di Budapest, l’auspicio è diventato profezia. Quella che esce dal Centro nazionale di atletica leggera, lo stadio in cui sono svolte tutte le gare in pista (urge un rebranding), è un’Italia soddisfatta, che ha confermato il valore delle sue punte e ha iniziato a fregarsi le mani per il futuro.

Partiamo dai numeri generali: l’Italia chiude al dodicesimo posto il medagliere con un oro, due argenti e un bronzo. Nella classifica a punti (uno strumento molto più preciso nel disegnare la profondità di un movimento, che assegna otto punti al primo classificato, sette al secondo e così via) l’Italia è addirittura ottava con 51 punti, a pari merito con l’Australia e i Paesi Bassi. Per valore delle medaglie, numero di punti e finalisti (13) è la migliore edizione da Siviglia ’99, quando gli azzurri vinsero due ori e due argenti, con 55 punti totali ottenuti da 13 finalisti. In Europa, l’Italia sta dietro a Regno Unito e Spagna, ma si tiene davanti a squadre storicamente competitive come Polonia, Germania (neanche una medaglia per la prima volta dalla riunificazione) e Francia (che ha evitato la stessa onta con un argento strappato alla penultima gara). Mai nella storia dei Mondiali, gli azzurri avevano portato in finale tutte e quattro le staffette classiche (4x100 e 4x400, maschili e femminili). Durante le serate di Tamberi e delle 4x100, l’atletica è stato il programma più visto in televisione. Insomma: il capitale tecnico, e quindi mediatico, c’è.

La svolta dell’atletica italiana ha un indirizzo e una data ben precisi: Stadio nazionale del Giappone, primo agosto 2021. Il doppio oro di Gianmarco Tamberi nel salto in alto e di Marcell Jacobs nei 100 metri cambia il corso dell’atletica recente azzurra, rimette l’Italia – che in quel momento non vinceva un oro mondiale dal 2003, uno olimpico dal 2008 – sulla mappa dello sport, e apre la finestra a un vento di successi che ha soffiato fino a Budapest. I cinque ori di Tokyo (Tamberi, Jacobs, Massimo Stano nella 20km di marcia maschile, Antonella Palmisano in quella femminile, la 4x100 maschile) restano un picco irraggiungibile, ma non sono stati frutto del caso. Proprio Budapest l’ha dimostrato. Con questa edizione dei Mondiali, tutti e cinque gli ori di Tokyo sono ritornati su un podio mondiale almeno una volta dai Giochi: Jacobs ai Mondiali Indoor di Belgrado 2022 (dove si gareggia sui 60 metri), Stano ai Mondiali di Eugene 2022, Palmisano, Tamberi e la 4x100 a Budapest. Ma andiamo con ordine.

Abbiamo già detto tanto di Gianmarco Tamberi e del suo successo nell’alto, l’ennesima gara in cui l’insensato agonismo dell’italiano gli ha permesso di essere perfetto quando più contava: fallibile quando l’asticella e la tensione erano più basse (ha rischiato di essere eliminato in qualificazione, ha sbagliato i 2,25), Tamberi ha vinto la gara saltando il primo tentativo a 2,36, l’altezza a cui anche i più forti avversari hanno cominciato a vacillare. Dopo la vittoria, Tamberi è rimasto ancora qualche giorno a Budapest, onorando il ruolo ufficiale da capitano e quello ufficioso di fratello maggiore che, seppur mediaticamente ingombrante, sembra apprezzato da tutta la squadra.

Ma ad aprire il conto delle medaglie azzurre è stata una delle migliori sorprese di questi Mondiali, il pesista Leonardi Fabbri, 26 anni. Dopo aver corteggiato a lungo la barriera dei 22 metri (il suo primato, 21,99, risaliva a quasi tre anni fa), Fabbri si è finalmente spinto fino a 22,34, seconda miglior misura di sempre per un italiano, ottenuto rischiando di perdere l’equilibrio – e di commettere fallo – a fino all’ultimo. Così è purtroppo successo nei due lanci nulli successivi, di cui il secondo è atterrato per difetto sulla fettuccia dei 23 metri, un lancio che non gli avrebbe comunque garantito l’oro (il fenomeno statunitense Crouser, detentore del record del mondo, ha chiuso con un formidabile 23,51, record dei campionati) ma che l’avrebbe ufficialmente proiettato in tutt’altra dimensione. Ai microfoni della Rai, a caldo, Fabbri ha dimostrato anche un ottimo talento da polemista: “A me piace leggere su Facebook tutte le cavolate che dicono: Fabbri non performa ai Mondiali, Fabbri non fa mai bene ai Mondiali. Ho fatto lo screen a tutti i commenti che mi hanno fatto, me li sono letti prima della gara, e mi sono motivato tantissimo”.

Ha più l’aria della rinascita che della sorpresa la seconda medaglia italiana, il bronzo di Antonella Palmisano nella 20 chilometri di marcia. Dopo il successo di Tokyo, Palmisano ha dovuto affrontare una delicata operazione all’anca. A trentun anni, con una medaglia olimpica e una Mondiale (bronzo a Londra 2017) già al collo, non era assurdo pensare al ritiro. Con determinazione e buoni risultati (argento agli Europei a squadre di maggio), Palmisano ha cominciato a tornare quella di prima, pur con le mensili infiltrazioni di cortisone a cui si deve sottoporre. Anche nella stessa gara Palmisano ha dovuto dimostrare di potersi rialzare, questa volta letteralmente, dopo essere caduta in una stretta inversione poco dopo la metà gara. La marcia si conferma così la vera regina dell’atletica italiana, unico sollievo anche quando le cose andavano tra il male e il malissimo: dal 2005 in avanti, soltanto a Pechino 2015 (l’edizione più triste, zero podi) la marcia non ha vinto una medaglia mondiale. In totale, nella storia dei Mondiali, l’Italia ha conquistato più di un podio su tre camminando, 18 su 49. Eppure qualcosa scricchiola, e a fine Mondiali il direttore tecnico Antonio La Torre ha indicato proprio nella marcia uno dei campi in cui è più urgente un’accelerata. La paura è che ci sia troppo spazio tra gli emergenti e le punte, Palmisano e Stano, quest'ultimo reduce peraltro da un Mondiale sottotono.

La quarta medaglia è arrivata alla fine di un lungo e tortuoso percorso: la 4x100 maschile, forse l’oro più incredibile dell’atletica alle ultime Olimpiadi. La squadra azzurra aveva vissuto mesi difficili prima dei Mondiali, con una qualificazione in bilico fino alle ultime settimane e una formazione che non trovava pace, tra infortuni, stati di forma alternati e quartetti incerti. Alla fine però, quando più contava, la strada scelta ha portato i suoi frutti. Se rispetto a Tokyo i due rettilinei sono rimasti intatti (Jacobs nel primo e Filippo Tortu nel secondo) il terzo staffettista, Fausto Desalu, è stato sostituito con il primo, Lorenzo Patta, e la partenza è stata affidata a Roberto Rigali, 28 anni. Tra tutti i finalisti azzurri a Budapest, Rigali è l’unico che non appartiene a un corpo militare: in sintesi, non ha nessuno che lo paghi da professionista per la sua attività sportiva, e sopravvive grazie a famiglia, borse di studio, lavoretti e quel poco che le società civili – nel suo caso, la Bergamo Stars Atletica – possono offrire ai quei pochi senza il talento o la fortuna di essere saccheggiati dai gruppi sportivi militari.

L’argento (il primo da quello di Helsinki ‘83, con Pietro Mennea in ultima frazione) dietro agli Stati Uniti infarciti di fenomeni è un risultato straordinario soprattutto per la sua solidità (due gare simili non lontane dal 37”50 di Tokyo) e per la precisione meccanica dei cambi, in una disciplina sempre sfuggente e umorale. Al contrario di tutti gli avversari, gli italiani sanno perfettamente quando allargare e quando restringere il margine di rischio, a seconda delle circostanze, quando schiacciare il cambio per andare via in sicurezza e quando tirare al massimo per limare il centesimo. Sono accortezze che permettono agli azzurri di togliere 3”16 tra il tempo della staffetta e la somma dei migliori tempi di ciascun componente, un tempo lunghissimo che fa la differenza tra il podio mondiale e il piazzamento.

Non si può poi ignorare poi la componente mentale, quella che permette a un Filippo Tortu eliminato nelle batterie dei 200 (pessimo 20”46) di non perdere niente nell’ultima frazione della finale da Noah Lyles, il volto copertina di questi Mondiali, capace di vestire la tripla corona della velocità (100, 200, 4x100). Anche Marcell Jacobs ha riscoperto in staffetta la sua miglior condizione, già apparsa in crescendo durante le serie dei 100 metri – in cui si è fermato in semifinale con 10”05. Per Jacobs, Budapest può diventare il trampolino verso il 2024: se il fisico resterà integro per tutto l’anno, l’italiano potrà tornare competitivo ai massimi livelli. Gli split della 4x100 (miglior secondo frazionista delle semifinali dopo l’americano Fred Kerley, con prestazione fotocopia in finale) lo dimostrano.

Il “metodo Di Mulo”, dal nome del responsabile federale della velocità, ha funzionato benissimo anche sulla staffetta femminile di Zaynab Dosso, Dalia Kaddari, Anna Bongiorni, e Alessia Pavese, capaci di battere di mezzo secondo il record italiano in semifinale, prima di piazzarsi quarte in finale, miglior risultato di sempre per un quartetto che (a meno di 25 anni di media) può ancora crescere, anche se avvicinarsi a Stati Uniti, Giamaica e Regno Unito, zeppe di talenti individuali, sembra ancora fuori portata. Nelle staffette, però, non si sa mai.

Oltre alle staffettiste e a Palmisano, è stato un ottimo Mondiale per la parte femminile della spedizione azzurra, composta in tutto da 78 atleti, mai così tanti: Zaynab Dosso ha eguagliato il record nazionale dei 100 metri; Ayomide Folorunso, sesta in finale, ha battuto quello dei 400 ostacoli. Tra le altre hanno impressionato in particolare Ludovica Cavalli, a 22 anni nella finale dei 1500 migliorando due volte il proprio personale, ed Elisa Molinarolo, a 29 anni capace di migliorarsi di nove centimetri nelle qualificazioni del salto con l’asta. Senza dimenticare la 25enne Sara Fantini, già alla seconda finale mondiale consecutiva nel martello.

Qualche delusione c’è stata, oltre a quella ampiamente ripagata di Tortu sui 200 e a quella di Stano nella marcia: se la brutta finale di Zane Weir può essere considerata uno scivolone, dopo un’annata di alto livello con il picco del titolo europeo al chiuso, preoccupa di più la difficoltà di esprimersi sui grandi palcoscenici di Gaia Sabbatini, ritiratasi in semifinale a soli 200 metri dall’arrivo, quando le possibilità di passare il turno erano ormai ridotte al minimo. In molti l’hanno presa come una mancanza di rispetto per la disciplina. Di fronte al mare di critiche l’atleta ha risposto su Instagram: «Le mie aspettative erano altissime e il mio cervello mi ha sussurrato: 'O vai in finale o niente'. Non sono stata in grado di gestire questo pensiero». Dopo due Mondiali e un’Olimpiade, Sabbatini ancora non è riuscita a raggiungere una finale – ma a 24 anni di occasioni ce ne saranno ancora.

Qualcuno potrebbe essere tentato di inserire tra le delusioni anche il quinto posto di Larissa Iapichino nel lungo femminile e la mancata qualificazione di Mattia Furlani in quello maschile. Certo, il primato stagionale – a un soffio dai sette metri – avrebbe garantito a Iapichino la seconda piazza, ma che il quinto posto alla prima finale mondiale restituisca un po’ d’amaro è la miglior testimonianza del balzo in avanti fatto quest’anno dalla ventunenne, in difficoltà a trovare confidenza con la pedana dopo un brutto e pericoloso scivolone al primo tentativo.

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Dalla sua, Furlani è arrivato a Budapest senza la migliore condizione, dopo aver programmato il proprio picco di condizione per gli Europei Under 20, vinti con il record dei campionati. Chi ha maggio l’ha visto saltare 8,44 con un vento appena superiore al limite omologabile (2,2 m/s) non può dubitare che già alle Olimpiadi di Parigi, quando avrà ben 19 anni, potrà farci divertire.

Insomma, attendendo la fine della stagione con le ultime tappe di Diamond League, le prospettive per il 2024 dell’atletica italiana sono buone, e il ventennio di buio relativo sembra essere alle spalle, con diversi atleti competitivi nel prime e una batteria di giovani interessanti. Nella conferenza di chiusura dei Mondiali, l'allenatore Antonio La Torre ha citato un numero particolarmente significativo: alle Olimpiadi di Rio 2016, solo il 30% degli italiani aveva superato il primo turno, una percentuale totalmente ribaltata a Budapest sette anni dopo (è passato al 70%, e all’84% tra le donne).

Il 2024 che si prepara sarà anche un anno complesso. Si chiuderà coi Giochi Olimpici di Parigi ad agosto, preceduti dai Mondiali Indoor di Glasgow a marzo, e soprattutto dagli Europei a Roma, una grande opportunità ma anche una grande trappola: a meno di due mesi dai Giochi, sarà importante non farsi trascinare dalla voglia di fare bene in casa. La priorità rimane arrivare al meglio a Parigi. Magari l’Italia dell’atletica non vincerà di nuovo cinque ori ma, com’è successo a Budapest, potrà essere di nuovo protagonista.

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