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Nikhil Jha
La tempesta perfetta di Gianmarco Tamberi
23 ago 2023
23 ago 2023
Con l'oro mondiale a Budapest si è issato tra i più grandi sportivi italiani di sempre.
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Nikhil Jha
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IMAGO / Xinhua
(foto) IMAGO / Xinhua
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Questa volta la gioia era tutta sua: assoluta, piena, ma sempre disordinata. Questa volta non c’erano medaglie da spartire ex aequo, nessuno con cui dividere le prime pagine. Questa volta, ai Mondiali di Budapest, c’era soltanto Gianmarco Tamberi.

Niente ridimensiona l'incredibile successo di Tokyo: l’infortunio a Montecarlo nel 2016 nel momento migliore della carriera, il gesso con la promessa di riprovarci nel 2020, il percorso netto fino a 2,37, l’inattesa proposta di Barshim («Can we share two golds?»), l’abbraccio con un Jacobs dopo la corsa più importante degli ultimi 50 anni d’Italia. Tutte tappe di uno degli archi narrativi più assurdi dell’intera storia dello sport italiano, sia per le premesse e che per il suo svolgimento.

Ma a Tokyo, in quell’incrocio di storie, Tamberi era accompagnato da un supporting cast di primissimo livello. Da una parte l’amico Barshim, («il più grande saltatore in alto della storia», l’ha definito Tamberi dopo l’oro di Budapest), con cui ha condiviso l’oro e il primo gradino del podio, il reciproco scambio di medaglie, le valangate di pagine e pixel zeppe di giusta retorica. Dall’altra Marcell Jacobs, l'eroe inaspettato, l’altra metà di una coppia messa insieme da uno scherzo del calendario: il campione arrivato finalmente dove gli compete da una parte, dall’altra l’asteroide che nessuno aveva visto arrivare. Fino a quando non è entrato in pedana per la sua quinta competizione mondiale all’aperto, non potevi parlare di Gianmarco Tamberi senza parlare anche di Barshim e Jacobs.

A Budapest, invece, il palcoscenico è stato tutto per lui. Dopo una qualificazione agguantata all’ultimo salto, la finale di Tamberi è cresciuta salto dopo salto: prima l’errore a 2,25 che l’ha costretto a rimanere dietro il gruppo dei migliori, poi il percorso netto a cui ci ha abituato nelle gare che contano di più. I centimetri da sommare ai due metri crescevano sempre più, apparentemente innocui ma in verità atroci: 29, 33, 36. La gara cambia in due minuti, quando lo statunitense JuVaughn Harrison, fin lì in testa, si scontra con i suoi limiti (il suo personale siede proprio a 2,36) e fa cadere l’asticella per la prima volta nella sua gara. Subito dopo tocca a Tamberi. È in quel momento che il suo agonismo senza freni decide che è arrivato il momento di prendersi tutto. Il salto che lo porta sopra i 2,36 è un prodigio di bellezza, il corpo che sembra spezzarsi, tant’è piegato all’insù come una frusta, ma che recupera con tempismo perfetto la propria forma per far scavallare i piedi, con la grazia di quei romanzi, di quelle canzoni, che ti fanno provare l’emozione giusta al momento giusto.

Ancora non si poteva dire, perché in gara erano ancora in sei, ma quel salto, al primo tentativo, rimandava parecchi riflessi d’oro: per strappare il titolo a Tamberi non era più sufficiente passare i 2,36, ma bisognava riuscire anche ai 2,38 – altrimenti la regola del minor numero di errori all’ultima misura valida avrebbe premiato comunque l’italiano. Perché, sì, ogni atleta ha tre tentativi per passare una misura, ma è anche vero che un errore al punto sbagliato della gara può compromettere tutto. L’ha provato sulla sua pelle Harrison, talento totale (aveva in mano anche il diritto di iscriversi alla gara di salto in lungo, cui ha rinunciato) che ha passato il 2,36 al secondo tentativo. Troppo tardi: a quel punto era secondo. La barriera dei 2,38, per lui, si è scoperta eccessiva, e il suo terzo errore ha regalato il successo a Tamberi.

Finalmente Tamberi era solo, sopra il resto del mondo, e ha potuto far partire il suo show. In assenza di comprimari di livello, si è consolato con quello che più gli era mancato a Tokyo: il pubblico. «Il giro d'onore a fine gara è stato abbastanza triste», lamentava l’azzurro dopo le Olimpiadi di Tokyo. Ieri, invece, si è divertito parecchio.

Tentativo non esaustivo di cronaca dei momenti che seguono il momento del trionfo: saluti a Harrison, rimasto deluso sul materasso, richiesta di mettere l’asticella a 2,40 (alla ricerca del record italiano da lui detenuto), congratulazioni con Barshim, fermo a 2,36 e medaglia di bronzo, bacio alla moglie e abbraccio in estasi con lo staff. Poi saluto al figlio di Barshim, interruzione della preparazione al salto per festeggiare il figlio di Barshim, intento a lanciarsi con evidente divertimento sul materassone, foto con Barshim. «Io provo», ha detto a quel punto. Tre ola lanciate al pubblico, passaggio sotto l’asticella all’unico tentativo dei 2,40, corsa sotto la curva con le braccia aperte come solo in certi derby, foto di rito con la bandiera, «Mamma mia, ma che casino facciamo stasera». Infine tuffo di faccia nella riviera dei 3000 siepi insieme a Soufiane El Bakkali e Abraham Kibiwot (che festeggiavano oro e bronzo nella disciplina la stessa sera), clamorosa franata a terra, varie ed eventuali.

Tamberi ha messo in piedi un caos colorato e multiforme, lontanissimo dal diafano filo d’aria che lascia tra sé e l’asticella, un tentativo riuscito dopo l’altro, le sbavature ridotte al minimo. Se il Tamberi che salta è purezza, il Tamberi showman è fuori controllo, ingombrante, per molti eccessivo, per tutti irresistibile. È delirio, energia in potenza con una destinazione impronosticabile. Se la gioia di Bolt (per citarne uno conosciuto a tutto il mondo) pareva coreografata, studiata a tavolino, con le sue pose e i suoi piccoli pezzi di teatro, Tamberi improvvisa. Lo spettatore non sa cosa succederà, e non lo sa nemmeno lui.

Tamberi è imprevedibile, contorto, contraddittorio. Dice e fa ogni cosa e il suo contrario. A Tokyo aveva fatto sparire l’half shave, la barba tagliata solo a metà, quando provava a «uscire da questi schemi mentali». A Budapest è ricomparsa. D’altronde in quest’intervista raccontava che «mi sono imposto di non tagliarmi più la barba a metà in futuro, lo farò se mi andrà di farlo», rendendo difficile giungere a qualsiasi conclusione. Anche il rapporto con il padre ed ex allenatore balla su un filo sottile: «Con papà non ci parliamo da tanto. Però se sono qui è anche merito suo», dice dopo l’oro di Budapest, prima di specificare che con il nuovo staff «c’è anche un lato sentimentale che prima mancava». Verrebbe da chiedersi cosa può esserci di più sentimentale di un rapporto padre-figlio, se non avessimo smesso di farci domane su Tamberi.

Tamberi va avanti, torna indietro, si incarta, si sbroglia, sorprende se stesso e noi. Pensavamo forse che il traguardo delle Olimpiadi, il più ricercato e sofferto, fosse anche l’ultimo che veramente gli interessava. Tra il 2016 e il 2021 ogni sua intervista girava attorno a un solo cardine: Tokyo, Tokyo, Tokyo. Cosa può volere di più uno che per sua ammissione fa l’atletica perché è bravo, più che per autentica passione?

Pensavamo che il suo vero amore fosse il basket, come non ha mai mancato di sottolineare. Ci sbagliavamo, e forse si sbagliava pure lui: il fuoco dentro Tamberi, il fine ultimo di tutto il suo lavoro, è solo competere. Vincere, meglio: degli otto podi conquistati nelle competizioni più importanti, solo due non sono ori (argento agli Europei indoor 2021, bronzo ai Mondiali indoor 2022). Una sproporzione che in sé contiene il seme del talento di un grandissimo saltatore ed eccezionale agonista. Dopo il 2016, Tamberi è andato oltre i 2,35 in sole due occasioni, quando contava di più: prima a Tokyo e poi a Budapest. Quando finalmente ha potuto guardare tutto il mondo dall’alto in basso, senza nessuna eccezione.

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