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Fabrizio Maria Spinelli
Atlante ragionato dello scudetto del Napoli
08 mag 2023
08 mag 2023
Da dove siamo partiti, dove siamo arrivati.
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Fabrizio Maria Spinelli
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Torino, 1827 giorni dopoAl 92° minuto di una partita tutto sommato equilibrata, Juventus e Napoli si trovano sullo 0-0. I bianconeri sviluppano un’azione pericolosa sulla catena di destra, al termine della quale Cuadrado cade in area dopo uno scontro con Juan Jesus. La palla arriva quasi casualmente a Lobotka, che si ferma un momento per capire la decisione dell’arbitro. Lo slovacco serve Olivera e da lui la palla arriva a Zieliński, sempre sulla dorsale di sinistra. Il polacco è entrato dalla panchina, quindi è più fresco degli altri giocatori in campo e prova uno dei suoi strappi. Ha davanti Gatti e alle spalle Chiesa che prova a recuperare. A quel punto Zieliński spezza il raddoppio con un tunnel al difensore juventino, e può tagliare verso il centro del campo. Si appoggia a Osimhen, che gli fa una sponda non banale con il tacco, restituendogli il pallone. Zieliński fa allora qualcosa che turba i nostri schemi cognitivi. Lo specchio della porta è coperto da Locatelli, la scelta più sensata sarebbe scaricare la palla verso destra, dove intanto Elmas sta salendo, se non tornare indietro da Raspadori. Invece, in quella frazione di secondo tra il tacco di Osimhen e il momento in cui la palla è nella sua disponibilità, Zieliński decide di ridarla di prima con l’esterno al nigeriano, che intanto si era mosso nel mezzo spazio di sinistra, facendo passare la sfera tra due giocatori e mettendo fuori sincro Rugani. Lo stop di Osimhen non è perfetto, e Szcęzsny è bravo a togliergli la palla in uscita. Dopo pochi secondi il possesso è ancora del Napoli, con Zieliński rimasto al limite dell’area dall’azione di prima, stavolta sulla destra. Locatelli gli viene incontro e Danilo stringe a raddoppiare. Il polacco ha come unica soluzione Elmas, gli avversari lo sanno, perciò temporeggia, costringe Locatelli ad affrontarlo, lo dribbla in un fazzoletto di campo, attira a sé Danilo e allora sì, serve Elmas, libero di calibrare un cross sorgivo sul secondo palo per Raspadori, che mette la palla in rete con una bella volée di sinistro.

Il Napoli passa di nuovo in vantaggio a Torino a tempo quasi scaduto, come cinque anni prima con Koulibaly. Zieliński, l’unico reduce di quella partita presente in campo, al posto di festeggiare con i compagni crolla al suolo come una stella marina. Difficile stabilire cosa abbia pensato in quel momento. Se fossimo in una serie HBO o in un libro di Joyce, probabilmente potremmo avanzare l'idea che il centrocampista polacco abbia visto la sua carriera passare davanti a proprio occhi in un lungo flashback: l'etichetta di incompiuto che lo ha sempre accompagnato smaterializzarsi, gli inizi in campi fangosi, una zuppa di sangue d'anatra e brodo di pollo – tipica della zona della Polonia in cui è cresciuto – sorbita nel tempo espanso di un crepuscolo familiare; tutte le vittorie sfiorate col Napoli; il sorriso di alcuni suoi ex-compagni che hanno lasciato la squadra; tutti i sacrifici e le notti insonni e i dolori e le gioie. Eliot: «Tempo presente e tempo passato/ sono forse entrambi presenti/ nel tempo futuro e il tempo futuro/ è contenuto nel tempo passato». Probabilmente, però, non è andata così. Probabilmente Zieliński non pensava a niente, aveva solo una percezione acuita dell'attimo che stava vivendo, qualcosa di totalmente irriflesso, un istante di presentificazione. Quella sensazione, così rara per gli umani, di esserci, di essere lì, nell'istante attuale, pienamente, senza smarginature, prima che questo si perda in un flusso di altri istanti. Quel particolare stato che siamo soliti chiamare estasi, così ben descritto da Werner Herzog nel film su Walter Steiner. Steiner in volo è Zieliński stesso sul prato, una briciola di tempo, priva di durata ma interminabile. I suoi occhi chiusi che contemplano la teofania significano solo la sensazione di cosa significano.Napoli, 24/05/21. Alla ricerca di un FondamentoÈ l’ultima partita della Seria A 2020/21 e il Napoli, dopo un girone di ritorno quasi irreprensibile, affronta l’Hellas Verona di Juric. Basta una vittoria per entrare in Champions League senza dover pensare ai risultati di Juventus e Milan. Lo stadio Maradona è vuoto per le norme restrittive anti-Covid, e fa una certa impressione osservare il delegato della Lega entrare sul terreno di gioco con una mascherina FFP2. Il clima in città è strano. Da un lato, dopo la brillante vittoria contro la Fiorentina al Franchi, campo che genera un timore panico nei tifosi napoletani, si ha l’impressione che battere l’Hellas sia una formalità. Dall’altro la tensione tra allenatore e società produce una nube di anidride solforosa che ricopre di bruciaticcio Castel Volturno. I contrasti (di natura tecnica ma anche caratteriale) tra la dirigenza e Gattuso sembrano insanabili, gli attestati di stima non celano un malcontento che ha qualcosa di livoroso. A un paio di giorni dalla partita viene fuori la notizia, da fonti accreditate, che Gattuso sarà il nuovo allenatore della Juventus, la quale – proprio in virtù della scontata qualificazione del Napoli in Champions – con ogni probabilità l’anno successivo giocherà in Europa League. L’ex centrocampista originario di Schiavonea è allo snodo della sua carriera. Vincere con il Verona, centrare quel quarto posto che gli era sfuggito col Milan, garantire al Napoli nuova linfa con gli introiti della Uefa dopo un brutto settimo posto, e poi trasferirsi a Torino per allenare la squadra più importante d’Italia. Riguardando la Napoli-Verona ho la netta impressione che Gattuso abbia caricato troppo la partita, trasmettendo il suo nervosismo ai giocatori, totalmente imbambolati in campo, incapaci di riuscire in giocate e movimenti elementari che solo una settimana prima arrivavano naturali come acqua che scorre dal rubinetto. Dopo un brutto primo tempo, senza occasioni tolto un bel sinistro di Insigne, il Napoli al 60' passa in vantaggio con un gol di Rrahmani sugli sviluppi di un calcio d’angolo. Nonostante tutto, sembra fatta. Il Verona non è mai stato pericoloso, il proverbiale agonismo delle squadre di Juric è come narcotizzato per osmosi dal possesso di palla sterile del Napoli. Uno stallo alla messicana, interrotto dal gol del centrale kosovaro. Ma dopo nove minuti, quello che tutti ricordiamo: Gunter riceve palla da Berardi (terzo portiere in rosa, entrato al 63’ al posto di Pandur probabilmente per rendere ancora più assurdo quanto succederà), il Napoli non sa se pressare o rimanere basso (è strano guardare il fermo immagine del momento in cui Gunter colpisce il pallone, nessun uomo sembra seguire il proprio riferimento, Bakayoko e Fabián sono molto alti, ma anche piantati al suolo, totalmente scollegati con la linea difensiva che deve assorbire il movimento di Zaccagni e Lasagna). Gunter lancia un pallone innocuo poco oltre la metà campo verso Faraoni, se non fosse per Hysaj che sbaglia i tempi e lo lascia partite alle proprie spalle. Il terzino italiano è totalmente solo sulla trequarti campo, può andare avanti in conduzione e, appena al limite dell’area, sferrare un destro rasoterra a incrociare su cui Meret non può niente. Raccontare il resto della partita non ha senso. Gli azzurri rimangono contratti a passarsi il pallone in orizzontale, Gattuso, solitamente impossessato durante le partite, è una statua di sale. Il Napoli chiude la stagione al quinto posto, dalle case di Forcella si sentono rumori di stoviglie rotte.

Per parlare dello scudetto nel Napoli è necessario partire da qui. Dal precipitato ultimo di un processo lungo due anni, dove i cattivi risultati dell’area tecnica hanno portato la società vicina al burnout. Il Napoli è in perdita, sta esaurendo le riserve che De Laurentiis aveva saggiamente messo di parte, il monte ingaggi della rosa è arrivato a pesare quasi sull’80% del bilancio, ma i giocatori con gli stipendi più alti, e quindi maggiormente indicati per una cessione, non attirano le offerte giuste a causa degli scarsi risultati sportivi. Il Napoli è una società particolare: partendo da introiti strutturali abbastanza limitati, ha basato la sua politica finanziaria sul player trading e la bontà del lavoro dell’area tecnica (e le qualificazioni in UCL), cioè su un capitale estremamente volatile e instabile. E, fino all’arrivo di Ancelotti, gli è andata incredibilmente bene. È con il tecnico di Reggiolo che i costi sono diventati insostenibili e parallelamente il capitale a lungo costruito nel tempo ha iniziato a svalutarsi. Da Mazzarri a Benitez a Sarri, la competitività del Napoli si è basata su una gestione miracolosa sia in sede di mercato sia nel lavoro straordinario fatto sul campo da questi tecnici. Negli anni Dieci ha potuto competere con compagini, a livello strutturale, nettamente superiori a lei. Ma con Ancelotti e Gattuso la macchina perfetta di De Laurentiis si è inceppata e ha mostrato la sua fragilità: il Napoli non sembrava più poter sostenere la velocità a cui stava correndo, non senza gli introiti della Champions e le cessioni di giocatori il cui stipendio gravava pericolosamente sul bilancio. Il compito di Spalletti, scelto come sostituto di Gattuso, era chiaro: ritornare nelle prime quattro posizioni e (ri)valorizzare giocatori che sembravano in una fase di fine impero, rendendoli appetibili sul mercato, per poi aprire un nuovo ciclo con calciatori nuovi e ingaggi sostenibili. Il primo anno del tecnico di Certaldo, da questo punto di vista, è stato perfetto. Per sua stessa ammissione giocatori che prima non avevano offerte, adesso ne ricevevano in quantità. L’ottimo lavoro di Giuntoli non è stato solo quello di individuare, con il suo staff, in Kvaratskhelia, Kim, Olivera, Raspadori e Simeone rinforzi validi per la rosa, ma anche quello di vendere a cifre consistenti giocatori in scadenza come Fabián Ruiz e Koulibaly, o non adatti al progetto come Petagna. I mancati rinnovi di Insigne e Mertens seguivano invece la logica presidenziale della riduzione del monte ingaggi. Ad agosto 2022, tra i dubbi della stampa e il malcontento dei tifosi, il Napoli si preparava ad affrontare la nuova stagione in una foggia del tutto diversa, le cui potenzialità sopite era ancora sconosciute.Napoli, 10/09/22. Tutta un’altra storiaIl campionato è iniziato da sole quattro giornate e la squadra di Spalletti è già al primo bivio della stagione. Dopo le vittorie convincenti con Verona e Monza (che hanno fatto intuire a tutta Italia che no, Kvaratskhelia non è un giocatore normale, e che le sue sterzate, i suoi dribbling, il suo dinamismo, la sua capacità di calcio, sono nel panorama della Serie A è come un monolite alieno nel deserto), il Napoli pareggia contro la Fiorentina di Italiano al Franchi e contro il Lecce di Baroni al Maradona. La piazza inizia a borbottare. Non sono messi in discussione gli acquisti di Giuntoli, ma l’operato di Spalletti, accusato fin dall’estate di aver compresso la corsa allo scudetto della scorsa stagione. La vittoria con la Lazio alla quinta giornata non è chiaramente decifrabile. Kvaratskhelia ha un talento intimidatorio, ma gli uomini di Sarri ci hanno messo del loro con una fase difensiva tutt’altro che perfetta e una passività diffusa che ha reso la vittoria del Napoli relativamente semplice. Succedono due cose, nel giro di quattro giorni, che trasformano totalmente la percezione non solo che i tifosi avevano della squadra, ma credo anche che la squadra aveva di sé. La prima, ovviamente, è il 4-1 al Liverpool in Champions. E ok che Joe Gomez sembra l’amico che non gioca da anni e vi rovina il calciotto del mercoledì, e che van Dijk semplicemente non è più van Dijk, ma il modo in cui il Napoli fa a fette la squadra di Klopp nei primi 45’ rimane una delle più grosse manifestazioni di forza nella storia europea del club. Osimhen è una molla di carne che bullizza la linea difensiva avversaria; le riaggressioni offensive non servono solo a sporcare la prima costruzione del Liverpool – ma sono fatte con tale convinzione da metterlo in crisi e creare costanti pericoli; Kvarasthkelia annulla l’autostima di Alexander-Arnold facendo diventare virali su Twitter i modi in cui lo salta; ma è a centrocampo che il Napoli consolida il suo dominio: Anguissa, Lobotka e Zieliński sembrano semplicemente troppo più forti di Milner, Fabinho e Elliott e, da lì a qualche mese, di tutti i centrocampisti che incontreranno (riguardando il terzo gol scopriamo la nascita di una delle costanti tattiche del nuovo Napoli: Anguissa si sposta volentieri sulla sinistra per associarsi nello stretto con Zieliński, sovraccaricando quel lato di campo; lo spazio a destra però non resta sguarnito, ma viene occupato da Di Lorenzo con tutti i compiti di una vera e propria mezzala. Per un breviario tattico del Napoli rimando a questo articolo). Insomma, una serata perfetta, in cui probabilmente i giocatori iniziano a prendere coscienza delle loro capacità e i tifosi della bontà del lavoro di Spalletti. C’è un solo problema, dopo pochi giorni, al Maradona, arriva lo Spezia, e non sono concessi altri passi falsi in campionato. Quanto sarebbe da Napoli (da Napoli conosciuto fino adesso, intendo) strapazzare il Liverpool e non riuscire nemmeno a segnare allo Spezia? Solita profezia che si autoavvera, e all’89' la partita è ancora sullo 0-0. Lancio di Lobotka per Lozano largo a destra. Cross rasoterra per Gaetano a rimorchio, che cicca la palla. La leggera deviazione prolunga la traiettoria e fa arrivare la sfera a Raspadori (fino a quel momento uno dei peggiori in campo), che è un po’ avanti con il corpo ma è bravissimo a coordinarsi e a calciare con il piede forte. Il tiro finisce all’angolino alla destra di Dragowski. Due cose. La prima: sensazione che la sopradescritta partita, in un altro anno, non si sarebbe mai vinta. Come vuole la doxa: sono questi segni a contribuire al senso delle stagioni. Seconda cosa: da questo momento in poi impressione che tutti i giocatori in rosa trovino il momento per essere determinanti (anche Gaetano, il giocatore azzurro più sacrificato insieme a Demme, ha contribuito alla conquista dello scudetto lisciando quel pallone). Le vittorie con Liverpool e Spezia, così diverse, hanno un effetto mitopoietico, sono l’inizio di una storia. Il Napoli vince tutti gli scontri successivi (perde solo ad Anfield a qualificazione già acquisita) fino alla sosta per il Mondiale. Vince altre sei partite senza Osimhen, una delle quali a Milano con il Milan. Vince senza Kvaratskhelia a Bergamo. Vince contro squadre che si chiudono, contro squadre che vengono a prenderlo alto, vince con squadre che giocano uomo su uomo. Vince in modi diversi, con uomini diversi, con soluzioni e strategie diverse.Intermezzo. L’autenticità nell’epoca del turismo di massaLa vittoria dei Mondiali da parte dell’Argentina ha contribuito a rinsaldare il pensiero magico dei napoletani. Anche nell’86/87, infatti, la squadra allora di Ferlaino guadagnò il suo primo scudetto dopo che l’albiceleste conquistò la Coppa del Mondo. Il giorno della finale gli argentini di tutta Europa si erano dati appuntamento a Napoli, per seguire la partita protetti dalla numinosità di Maradona e fare del passato un ponte verso il futuro. La sconfitta contro l’Inter alla ripresa del campionato è stata in poco tempo cauterizzata da una serie di vittorie convincenti (la più importante e la più difficile siglata dal Cholito Simeone allo stadio Maradona contro la Roma) e dal percorso traballante delle milanesi. A inizio febbraio il vantaggio sulle inseguitrici era così sostanzioso che a Napoli, in barba ad ogni scaramanzia, si è iniziata a preparare la festa. Ogni quartiere non voleva essere da meno, e si organizzavano riunioni di condominio per dividere in maniera equa il costo degli addobbi. Dei peculiari festoni di plastica, dello stesso materiale dei sacchetti dell’umido, molto doppi, molto resistenti, tagliavano in due le strade del centro storico, Corso Umberto, Via Salvator Rosa, Forcella. Sindrome tipicamente napoletana: dimostrare di essere i migliori nella festa, che uno scudetto a Napoli ne vale trenta in un’altra città. E fin qui, tutto ok. Ma i negozianti, i salumieri, gli ambulanti, i ristoratori capirono in poco tempo che, intercettando il flusso di turismo che aveva investito Napoli al termine della pandemia, la festa scudetto poteva essere una corposa fonte di profitto. In pochi giorni non c’era un’attività commerciale che non avesse una foto di Maradona da far fotografare a turisti veneti o tedeschi. E questo è il capitolo più buio della vicenda che l’estensore di questo articolo vi sta raccontando. In quei mesi Napoli non si è venduta tanto al consumismo (si è venduta da sempre, come ogni città, altro che Eccezione Napoli), ma alla visione, alla rappresentazione che colonizzatore (il nord) ne aveva. Western gaze. Esotizzazione del sud. Franz Fanon, Stuart Hall, Edward Said e compagnia. Come se una persona di colore si dipingesse da sola una black-face per far ridere i bianchi. Il colonizzato si vende alla visione del colonizzatore perché, in tanti casi, non ha altra scelta, perché questa è la sua unica fonte di profitto. Impasti lievitati male, olio esausto e la mascherina di Osimhen, la santa trinità del turismo napoletano. Un popolo che si identifica con una sua rappresentazione dozzinale, storicamente prodotta dalle élite europee nel XVIII secolo e mutuata in seguito da quelle italiane, che a sua volta incoraggia e sviluppa fino all’eccesso, perché (in mancanza di strutture che aprano a una dimensione collettiva di autocoscienza) è l’unica forma di soggettivazione che conosce, o almeno, l’unica che gli permette un guadagno. In un contesto sociale drammatico, in cui i laureati emigrano e ampie frange della popolazione non hanno altra scelta che la criminalità, a molte persone non resta che vendere la propria identità-paccottiglia al turista il cui sguardo, fatto di bias e pregiudizi, ha forgiato quella stessa identità.E i borghesi napoletani, la classe più retriva e ipocrita e parassitaria e dominata dalla cattiva coscienza di tutta Italia, in preda a una secolare afasia, incapace di pensare figuriamoci (come avviene nelle altre città) di autorappresentarsi, una classe di fantasmi attanagliata da una narcosi atavica, quella classe, così cieca e incurante del proletariato (che pensa di salvarsi la coscienza provando empatia durante le scene di Mare fuori), quella classe assiste a questa compravendita con vera gioia, riconoscendo nelle manifestazione consumistiche di una città che ha venduto la propria anima a un algoritmo niente di meno che qualcosa di autentico, il cuore di un popolo che, sostanzialmente, non conosce. Durante la partita Napoli-Eintracht, trasmessa da Prime Video, degli uomini di Amazon (che è anche uno degli sponsor del Napoli) hanno costruito un vero e proprio set nei Quartieri Spagnoli, pagando gli abitanti dei vicoli. Hanno steso un lungo lenzuolo tra due palazzi per proiettarci il logo della Champions. Poi hanno chiamato qualcuno a scattare delle foto, industriandosi in modo tale che il marchio del brand apparisse in qualche dettaglio periferico, foto che sono diventate in poco tempo virali. Molti dei miei contatti (avvocati, architetti, ricercatori universitari) le hanno ricondivise con entusiasmo, aggiungendo solitamente come didascalia «solo a Napoli!!! Noi napoletani siamo unici!!!». Questa è la borghesia napoletana. Nessuna sorpresa se a Napoli (con rare eccezioni) non si faccia più cultura da decenni. Niente cultura, solo beni culturali.Piccola nota autobiografica. Sì, l'estensore di questo articolo fa parte di quella borghesia che tanto detesta. Ma ne è in parte anche un parvenu. Il sottoscritto è cresciuto con sua madre, che faceva due lavori per permettersi l'iscrizione del figlio a una scuola così detta d'élite. Piani didattici montessoriani, ore di lezione di matematica – la sua grande passione – sacrificate per imparare gli usi e i costumi delle tribù africane. Compagni di classe con solidi patrimoni immobiliari. La fondatrice della scuola, membro attivo della giunta bassoliniana, pretendeva una retta mensile che, considerando i tassi l'inflazione l'euro ecc., equivale più o meno all’attuale borsa di ricerca per una qualsiasi università italiana. Il che significa: (I) nessuna idea, fino ai 14 anni, delle differenze di classe, proprio in una città con uno dei tassi più alti di disuguaglianza sociale più alti d'Italia. (II) Tutti gli attuali membri dell'intellighenzia napoletana (non si può usare questa terminologia se non in modo diffamatorio) sono stati in qualche modo suoi amici, o amici dei suoi amici, e così via. I pochi che non sono diventati artisti o entrati in Potere al Popolo, fanno gli affittacamere o hanno preso il posto del padre nell'azienda di famiglia. A certi livelli di censo, Napoli è una città piccola. Non so le altre.

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Riprendo la prima persona. Qualche settimana fa ero in un pub del Vomero con un noto regista, noto a livello nazionale, e gli chiedevo perché anche lui alla fine non si decidesse a raccontare Napoli in modo diverso, diciamo anche solo con personaggi diversi, non il bambino carcerato a Nisida o la ricca ereditiera, ma il ragazzo dell'Arenella che studia a Monte Sant'Angelo e la sera va da Oak, con una passione smodata per Eric Dolphy e che a Totò preferisce Rick e Morty. Il regista, una persona che con me si era sempre dimostrata cordiale, mi guardò con una certa sprezzatura, cambiò argomento e mi rispose dopo diversi minuti: non ci sono soldi. Le case di produzione, napoletane o romane, non sono interessate a questa narrazione semplicemente perché non vende. Non esiste nell'immaginaro condiviso. Non può essere rappresentata perché alla fine non c'è nessuno che vi si rispecchia, o nessuno che sia interessato a qualcosa che, in termini estetici (lui disse estetici, ma io direi non solo estetici), è illeggibile, esce fuori da ogni codice prestabilito. Niente soldi, niente immagine a uso e consumo del nord o dell'estero, quindi niente vendibilità, quindi niente borghesia se non quella nazionalpopolare di Un posto al sole. L’episteme, ovvero in termini foucaultiani la visione del mondo inconscia e diffusa di un’epoca, condiziona l’intero campo dei saperi ed esclude certi fenomeni dal suo orizzonte.Napoli, 11/03/2023. Cerchi nell’acquaNo, non vi parlerò di questo gol (vi rimando all’articolo di Daniele Manusia), ma di quello che c’è stato subito prima e subito dopo. Napoli-Atalanta si gioca 4 giorni prima del ritorno di Champions con l’Eintracht e 8 dopo la meritata sconfitta con la Lazio di Sarri. Poche settimane prima ha battuto la squadra di Francoforte con uno 0-2 in Germania abbastanza stretto per le occasioni create, ma che ha visto gli uomini di Spalletti soffrire nei primi venti minuti la strategia difensiva di Glasner (un blocco centrale medio-alto molto denso che ingabbiava Lobotka e costringeva i due centrali in prima costruzione a giocare su Olivera, il calciatore meno dotato tecnicamente in campo, il quale, appena superata la metà campo, veniva aggredito da uno degli attaccanti tedeschi sempre pronti a rompere il blocco. Densità al centro e aggressività asfissiante, ecco forse il contesto che il Napoli ha sofferto di più in stagione, a parte le partite con il Milan. La Lazio, del resto, ha fatto qualcosa di molto simile. All’Eintracht è riuscito per un quarto di partita, prima cioè che Lobotka prendesse le misure e giocasse una delle migliori partite della sua eccellente stagione). Come è spesso successo durante l’anno, le prestazioni in Champions sono concise con un’evoluzione, un passaggio di livello, un salto di layer, nella consapevolezza che la squadra aveva dei propri mezzi. Poco importa della sconfitta con la Lazio, il Napoli ha un margine bulgaro sulle inseguitrici, ma bisogna battere l’Atalanta, che è un avversario tutt’altro che morbido. Il primo tempo è un po’ pigro, il Napoli consolida il proprio dominio territoriale ma crea pochi pericoli a un’Atalanta (come spesso in stagione) molto attendista. Nella seconda frazione succede qualcosa di molto semplice, per quanto, forse, possa apparire intangibile. E cioè che Osimhen, come spesso in stagione, decide di vincere la partita. Il nigeriano non è solo un giocatore straordinario, con mezzi fisici e capacità balistiche fuori dal comune, una facilità nel riempire gli spazi e stressare le difese sovrannaturale, ma anche un essere umano capace di piegare gli oggetti con la propria volontà. Emanuele Atturo nella puntata del podcast Che Partita Hai Visto dedicata alla partita lo ha definito «il barometro emotivo» del Napoli. Il nigeriano entra in campo dopo l’intervallo e al 47' sfiora il gol con una bellissima rovesciata. Dopo di che sbraccia come un pallanuotista per chiamarsi la palla o invitare i compagni a seguirlo nel pressing. E la squadra di Spalletti, infatti, inizia ad aumentare i giri. Dopo pochi minuti Anguissa contesta un possesso a De Roon a centrocampo, il rimpallo finisce sui piedi di Osimhen, che si scrolla di dosso il marcatore e serve Kvaratskhelia: il resto lo conoscete già.

Quello che succede dopo, però, non mi sembra sia stato raccontato. Il gesto tecnico del georgiano, come i cerchi concentrici di un sasso gettato in uno stagno, si espande su tutto l’ambiente circostante. Il Maradona è sovraccarico di energia e questa si riverbera sui giocatori, che non fanno uscire l’Atalanta dalla propria metà campo per almeno una dozzina di minuti. Le riconquiste del Napoli sono feroci e immediate, Lobotka (le cui qualità difensive forse non sono state giustamente sottolineate) è un muro di vetro per gli avversari, Kim e Rrahmani hanno un atteggiamento iper-aggressivo e presidiano saldamente la metà campo bergamasca. Chi sta guardando la partita ed è in possesso di un’anima non può che provare ansia e puro terrore immedesimandosi in un giocatore dell’Atalanta. Al 72' arriva il gol di testa del centrale kosovaro, che chiude di fa finire la partita. Forse è riduttivo dire così, ma al Napoli sono bastati pochi minuti e un’intensità sconosciuta in Serie A per battere con agevolezza una squadra che si sta giocando la qualificazione in Champions. E due agenti sono risultati decisivi: la determinazione (ma forse è riduttivo: volontà di potenza? volontà di annichilimento?) di Osimhen e il talento esaltante di Kvaratskhelia. E dietro di loro, calciatori che pensano con una mente sola. È forse dopo questa partita e quella con il Torino che tutta Italia ha avuto la prova empirica che il Napoli avrebbe vinto lo scudetto. Almeno è dopo queste due sfide che i festoni di cui sopra sono diventati onnipervasivi in città, come un tumore allo stadio terminale.Questioni identitarieIl 2 aprile non solo il Napoli perde 0-4 in casa contro il Milan, nel primo di tre scontri che si riveleranno esiziali – ma viene abbandonato da una parte dei propri tifosi. Come nella sconfitta con la Lazio anche con il Milan le curve scioperano, lasciando il Maradona stracolmo in un silenzio irreale. La protesta è dovuta all’applicazione ferrea di un regolamento d’uso per gli stadi a dir poco kafkiano, che è sì valido a livello nazionale, ma solo a Napoli sembra venir rispettato. Non si tratta di una semplice questione d’ermeneutica. Le scelte della questura e del presidente del Napoli sono l’ultimo capitolo di una disputa decennale tra ultras e proprietà. Pochi giorni prima De Laurentiis aveva definito «drogati» i sostenitori che occupavano solitamente le curve, ritenendoli incompatibili con la sua idea inclusiva di stadio. Uno stadio per famiglie, ma senza settori popolari (e con accessi molto limitati per i disabili), in definitiva, uno stadio per famiglie ricche. Molto inclusivo. Dal canto loro gli ultras si ritengono i proprietari simbolici della squadra di calcio di Napoli, nonché in qualche modo i difensori della città (in realtà più spesso i difensori dei loro stessi valori). Il loro sciopero ha però dimostrato (e in questo non si può che dargli ragione) che senza l’arte coreutica custodita dai loro membri, il tifo napoletano letteralmente non esiste. E ciò ha forse finito per influenzare le stesse prestazioni

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