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Marco D'Ottavi
C'è troppa passione attorno all'Argentina?
01 dic 2022
01 dic 2022
Contro la Polonia comunque i giocatori in campo sono sembrati più tranquilli dei loro tifosi.
(di)
Marco D'Ottavi
(foto)
Clive Brunskill/Getty Images
(foto) Clive Brunskill/Getty Images
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Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche, in questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse.Alla fine l’Argentina ce l’ha fatta. Grazie al 2-0 alla Polonia è riuscita a superare il primo ostacolo verso l’obiettivo finale, la Coppa del Mondo, e a farlo al meglio, regalandosi un ottavo abbordabile, diciamo, contro l’Australia. L’Albiceleste è cresciuta di partita in partita: dopo il drammatico esordio contro l’Arabia Saudita e la vittoria strappata al Messico grazie a una rasoiata di sinistro di Messi, contro la Polonia la squadra di Scaloni ha giocato “quasi” bene, mostrandosi più aggressiva in mezzo al campo, recuperando spesso il pallone in alto e più fluida quando doveva costruire il gioco. L’allenatore ha aggiustato un po’ le rotazioni, inserito Julian Alvarez per uno sconnesso Lautaro Martinez, ridisegnato il centrocampo con Enzo Fernandes davanti alla difesa, anche ieri uno dei più pimpanti, e Alex Mac Allister a fungere da pendolo con i suoi inserimenti, ricevendo in cambio il primo gol. Anche lo stesso Messi, tolto il rigore sbagliato, dove però è stato bravo Szczesny, ha giocato un’ottima partita, toccando tanti palloni e cucendo il gioco dell’Argentina. Certo, la Polonia ha cercato di fare il meno possibile per impensierire l’avversario fidandosi totalmente dei 4 punti messi in cascina nelle prime due partite, schierandosi davanti alla propria porta per non prendere gol, ma facendolo senza la resistenza eroica che richiederebbe un’impresa del genere. Per Scaloni alcuni problemi rimangono e inevitabilmente più la squadra andrà avanti e più verranno esposti. Se però queste piccole difficoltà nelle prime due partite avevano attanagliato i calciatori, che in campo portavano facce terree e che dopo i gol avevano esultato come condannati a morte risparmiati dal patibolo, ieri sono sembrati tutti più tranquilli. Anche dopo l’errore dal dischetto, che aveva il profumo di dramma in arrivo, i calciatori argentini - e soprattutto Messi, che di pressione addosso ne ha forse il doppio degli altri - hanno continuato a fare la loro partita, a far girare il pallone e a mettere pressione alla Polonia. Il secondo gol è arrivato dopo un’azione di 37 passaggi. Lo stesso, però, non si può dire per il resto dell’Argentina. Quando Julian Alvarez ha segnato, un paese intero è tornato a respirare. Allo stadio 974 di Doha i tifosi hanno iniziato a piangere, le bandiere con le facce di Messi e Maradona a sventolare con più intensità, i tamburi albiceleste a scandire il ritmo come in una cerimonia pagana. Anche nei minuti successivi, mentre l’Argentina semplicemente controllava, con la Polonia che intanto giocava la sua personale sfida sul filo dei cartellini gialli con il Messico, il livello di tensione è rimasto altissimo sugli spalti. Una vittoria in fin dei conti semplice è stata vissuta come un’impresa, i tifosi sono rimasti a cantare e festeggiare all’interno dello stadio per ore, erano ancora lì quando il programma della Rai Il circolo dei mondiali si è collegato con David Trezeguet a bordo campo. L’ex attaccante della Juventus non riusciva neanche a sentire quello che gli dicevano, tanto era il chiasso.

GES Sportfoto/Getty Images

Se molte nazioni sognano di mettere le mani sul trofeo, nessuna lo fa con l’urgenza disperata degli argentini. Nelle foto e nei video che ci arrivano dal Qatar sono i più presenti, i più invasati, i più convinti. Questa mattina sul Clarin, uno dei giornali più importanti del paese, uno dei primi articoli è titolato “La squadra di Scaloni si è aperta il tabellone: come sarebbe il percorso fino a una possibile finale”; Pagina 12 mette in bella vista una foto dei calciatori che esultano con tutto in stampatello il titolo “Abbiamo di nuovo le nostre speranze”. Per La Nacion “L'Argentina ha ritrovato un senso di comunità nel giorno in cui la squadra ha salvato Messi”, subito dopo c’è un lungo reportage da Iruya, un piccolo centro montano nel nord del paese, praticamente al confine con il Bolivia, in cui si racconta di come hanno vissuto la partita con la Polonia tutti insieme. «È stato un miracolo, la vergine ci ha ascoltato» ha dichiarato una delle presenti dopo il gol di Alvarez. In una scuola elementare, i bambini sono stati radunati per vedere la partita un’ora e mezza prima del calcio d’inizio (col fuso orario le partite sono in pieno giorno).

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L’Argentina è un paese che storicamente vive il futbol con una passione smodata, che intorno a questo sport stringe i destini della nazione come se storia e calcio fossero due elementi inscindibili. Oggi l’Argentina è un paese sull’orlo del baratro, con un’inflazione che corre verso il 100%, con sempre più famiglie in difficoltà, improvvisamente incapaci di mettere insieme il pranzo con la cena, con i posti di lavoro che si contraggono invece di crescere. Se la povertà è stata sempre presente e visibile, gli errori e le negligenze della classe politica ed economica stanno deteriorando lo stile di vita anche della classe media. In questo panorama desolante si infila la spedizione di Messi e compagni in Qatar. Di nuovo, per l’Argentina, una coppa del mondo può significare riscatto, un aggancio almeno simbolico al primo mondo quello che nel corso dei secoli a depauperato queste terre. Ma non basta: in Qatar c’è anche l’ultima chiamata per il loro capopopolo, l’ultima occasione per santificare Messi (per approfondire il rapporto tra Messi e la Coppa del Mondo, potete leggere questo articolo di Fabrizio Gabrielli). Se la storia si ricorderà di quest’argentino bassetto e travolgente come uno dei migliori giocatori di sempre, la vittoria di un mondiale donerebbe a lui, e quindi a tutto il paese, la corona del santo, il posto vicino a Maradona, quello sdoppiamento della divinità che tutti attendono.

Bandiera presente ieri allo stadio (JUAN MABROMATA/AFP via Getty Images)

Ci sono insomma radici profondissime nella locura che muove gli argentini, che li porta in massa ad attraversare il mondo per piazzarsi nel deserto in attesa del Messia. Sono così tanti che ieri c’erano chiazze albicelesti anche allo stadio di Lusail a vedere Arabia Saudita-Messico, come se dovessero controllare che anche lì tutto filasse per il verso giusto, che il loro sogno non venisse spezzato da qualche arabo impertinente o messicano strafottente. C’è una forma totalizzante nel tifo per l’Argentina, una passione così grande che coinvolge, cattura i neutrali. Provate a entrare in una stanza qui da noi, che al mondiale non ci siamo, e chiedere ai presenti per chi tifano: la maggioranza dirà Argentina. Forse per noi è anche un fatto di somiglianza, è facile ritrovarci nelle loro dinamiche, nel loro attaccamento al calcio un po’ estremo, ma è qualcosa che va oltre, è un’ossessione che si infila nei pertugi, che vive tra i migranti che lavorano in Qatar - in questo diario si racconta come cerchino di organizzare le loro pause per vedere l’ingresso dei tifosi argentini allo stadio - per arrivare fino in Bangladesh.

Di questa partita abbiamo parlato ieri in Che partita hai visto, il nostro podcast riservato agli abbonati.

Se n’è parlato in questi giorni, in questo primo mondiale in cui il centro è spostato dall’Europa o le Americhe all’est del mondo. In un paese con una cultura e una tradizione calcistica quasi inesistente, in tantissimi tifano Argentina. Ma non lo fanno nel modo distaccato degli esclusi, di chi dovendo scegliere punta un dito sulla mappa: in Bangladesh amano l’Argentina alla follia. Quando il dieci ha trafitto il Messico col suo sinistro, oltre ai quarantasei milioni di argentini, a esplodere in una gioia primitiva sono stati anche migliaia e migliaia di bengalesi radunati intorno ai maxischermi. Scene che è difficile credere possibili in posti diversi da Buenos Aires e Rosario.

C’è una storia dietro questo tifo, che è interessante raccontare un po’ per capire come la geopolitica influenzi anche lo sport, un po’ per mettere in chiaro che, quando si parla di pallone, l’Argentina è sempre stata una cosa a parte. Il Bangladesh ha cattivi rapporti con gli inglesi da ancora prima di esistere, da quando alla fine del XV secolo commercianti inglesi arrivarono nella regione del Bengala ottenendo il controllo della zona con la Compagnia britannica delle Indie orientali dopo la Battaglia di Plassey nel 1757. Gli inglesi rimasero padroni di quelle terre fino al termine della II Guerra Mondiale e per molti furono responsabili della “Grande Carestia” del 1943 che uccise oltre tre milioni di persone. Con queste premesse è facile capire come in Bangladesh erano dalla parte dell’Argentina durante la guerra delle Malvinas e come fu facile identificarsi nella loro nazionale nel 1986, quando Maradona fece quello che fece agli inglesi. Ifty Mahmud, direttore del più importante quotidiano del Bangladesh crede che il sostegno agli argentini abbia «un carattere anti-coloniale, perché Maradona ha battuto gli inglesi, mentre Beckham non è mai stato popolare qui. Il modo in cui ha ingannato il potere coloniale, poiché si trattava di un inganno alla luce del giorno, ha avuto una grande risonanza simbolica anche da noi». Insomma, se ogni squadra rimasta in Qatar si porta, più o meno, il peso di un paese sulle spalle, per l’Argentina sono quattro o cinque. C’è il paese vero e proprio, ma anche quello di chi cerca riscatto, di chi in quella squadra rivede il suo amore per il calcio, chi invece, semplicemente, non vuole vedere Messi finire la sua carriera senza vincere il trofeo più importante di tutti. La domanda a questo punto è una: tutta questa passione farà bene all’Argentina come nazionale?

È difficile capire quando la pressione supera la motivazione nella testa degli atleti, quando il supporto di un popolo diventa da positivo a negativo. Le lacrime di Aimar, ieri idolo di Messi oggi assistente di Scaloni, dopo il gol al Messico raccontano il carico emotivo che si porta dietro l’Argentina, come tutti i discorsi riguardo al cuore più libero dopo la vittoria della Copa America fossero piuttosto un mettere le mani avanti, un provare a non ripetere le stesse dinamiche che si ripetono ogni 4 anni e che, inevitabilmente, sono tornate prepotenti anche questa volta. C’è da dire che questa versione della Seleccion è diversa dalle altre viste nell’ultimo decennio, quelle delle finali perse, del peso eccessivo delle responsabilità, delle critiche che hanno buttato giù calciatori come Higuain, che facevano vomitare Messi in campo. Dei senatori di quella squadra sono rimasti solo lui e Di Maria e intorno a loro Scaloni ha plasmato una rosa non più forte di quelle passate - a livello di talento puro questa squadra, che è più o meno quella che ha vinto la Copa America del 2021, ha meno risorse di quella sconfitta in finale dalla Germania nel 2014, ma anche di quelle perdenti in Russia e nella Copa America nel 2015 e nel 2016 - ma forse più adatta a reggere la pressione, più squadra e meno singoli incaricati di spostare il mondo. A giocatori come Enzo Fernandes, Julian Alvarez e Cristian Romero non si può chiedere quello che l’Argentina ha sempre chiesto a Batistuta, Samuel, Tevez, Riquelme, Crespo, Aguero, Mascherano (e si potrebbe continuare l’elenco di grandi calciatori argentini degli ultimi vent’anni ancora per molto) e forse è questo ad aver reso la partita da dentro o fuori con la Polonia più facile per i giocatori in campo che per tutti gli altri argentini - di sangue o di spirito - sparsi per il mondo. Da questo punto di vista, più che nel gioco vero e proprio, ieri l’Argentina ha lasciato buone sensazioni. Riuscire ad affrontare con la stessa tranquillità anche la prossima (le prossime?) partite potrebbe essere il segreto di questa nazionale. Tuttavia è anche sembrato evidente che, per vincere tutto, servirà che quello col 10 si ricordi ancora come si fa.

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