
Quasi esattamente un anno fa qui su Ultimo Uomo intervistavamo il giornalista inglese James Montague sulle inchieste che allora stavano iniziando a scuotere le curve di Inter e Milan. Avevamo deciso di parlare con lui per via del corposo libro di reportage sugli Ultras che aveva da poco pubblicato, Among the Ultras (edito e tradotto in Italia da 66thand2nd con il titolo Fra gli ultras. Viaggio nel tifo estremo), e del punto di vista unico che la sua esperienza sul campo - che lo aveva portato negli angoli più sperduti del mondo, dall'Egitto all'Indonesia - ci poteva dare. Le cose, con le inchieste sugli ultras di Milan e Inter, sono andate come sappiamo, ma l'argomento continua a essere complicato, problematico ed affascinante, come d'altra parte siamo tornati a scrivere non troppo tempo fa.
Oggi James Montague torna in libreria con un nuovo lavoro, ancora una volta edito da 66thand2nd, dal titolo: Ingolfato. Come l'Arabia Saudita ha comprato lo sport e il mondo (potete acquistarlo qui se volete). Credo non ci sia bisogno di spiegare l'argomento del libro, che per argomenti trattati sembra agli antipodi con il lavoro immediatamente precedente: ma è davvero così?
Abbiamo provato a rispondere a questa domanda lo scorso 25 settembre a Roma, nell'ambito della conferenza internazionale Sport politics. Histories, media, identities organizzata dall'Università Sapienza come ultima tappa del più ampio progetto di ricerca Sports politics: football, media, and national identity in Italy, coordinato dalla Sapienza insieme alle Università di Bologna e Bergamo. Insieme a me, alla Casa della Socialità - sede della squadra popolare dell'Atletico San Lorenzo (che prende il nome dall'omonimo quartiere) - c'era Damiano Garofalo, professore di storia della televisione alla Sapienza, e coordinatore del progetto, oltre ovviamente allo stesso Montague. Questa è la trascrizione dell'intervista che abbiamo realizzato con lui.
Damiano Garofalo: In che modo la politica è stata centrale nella creazione, nella sopravvivenza e anche nella costruzione di molti dei gruppi ultras? E secondo te questa dimensione politica oggi si sta un po' perdendo oppure semplicemente si sta cambiando prospettiva?
Intanto grazie per avermi invitato. Allora: il calcio è politica nel modo in cui tutto è politica. Qualsiasi forma di organizzazione di tipo culturale prende il proprio colore politico dal posto da cui viene, e dalle persone che ne fanno parte. E la cultura ultras su questo non è diversa. Gli ultras nascono come una cultura politica giovanile in Italia ma poi diventano una cultura globale in cui i giovani si ribellano contro l’autorità. Il mio primo approccio agli ultras, in realtà, non è stato in Italia ma in Israele, con gli ultras del Beitar Gerusalemme e in particolare il gruppo “La Familia”, che è uno dei più di destra del mondo. La prima volta che ho visto gli ultras come un gruppo mosso da una forza politica è stato però in Egitto, dove gli ultras dell’Al-Ahly sono diventati una delle forze della rivoluzione contro Hosni Mubarak. Quella ultras è una cultura che è nata in Italia negli anni ’70 ma che poi, nel resto del mondo, è diventata una forza di resistenza, che cerca di contrapporsi all’ordine costituito.
Damiano Garofalo: Tradizionalmente il mondo degli ultras è stato rappresentato male dai media tradizionali e quindi la grande difficoltà di molti di questi gruppi è sempre stata quella di trovare degli spazi per autorappresentarsi. Che rapporto c’è tra questi gruppi e il mondo dei media?
Guarda, io non parlo italiano ma conosco perfettamente l’espressione "giornalista terrorista". E questa è stata la più grande sfida quando ho scritto il mio libro sugli ultras: rompere questa barriera tra gli ultras e i media, che gli ultras vedono come parte dello stesso sistema a cui si oppongono. Una cosa controversa da dire è che il più delle volte i media non hanno fatto un lavoro sbagliato ma gli ultras non hanno comunque gradito come si vedevano riflessi nei media. E questa è una delle ragioni per cui si fidano poco, oltre al fatto che i media non gli permettevano di controllare la narrazione. E visto che erano contrari anche ai social media non sono riusciti a prendere il controllo nemmeno di quella narrazione. Il punto, per me, è sempre stato ottenere la fiducia degli ultras, perché non sono mai andato sotto copertura, ho sempre detto chi fossi. Ma andava bene lo stesso: perché ero interessato a loro come movimento, non come individui violenti. Mi ricordo quando ho intervistato Fabrizio Piscitelli, “Diabolik”. L’ho incontrato dentro al quartiere generale degli Irriducibili [il più grande gruppo ultras della Lazio, ndr] e lui era seduto accanto a un ritratto di Mussolini. E quando ci siamo incontrati lui era un po’ diffidente, credo pensasse: “Sì, immagino che tu voglia parlare della violenza”. E invece io gli ho detto: “Dimmi com’eri a 15 anni”, e lui era come sorpreso. E immediatamente mi sono trovato in mezzo alla storia di come è diventato quello che è diventato. Ovviamente era interessante anche sentire della loro violenza, ma penso che la loro storia fosse più interessante. E visto che i media tradizionali non gli avevano mai fatto queste domande, e loro non erano pronti a rispondere, c’era questa reciproca diffidenza. Ovviamente “Diabolik” era un fascista violento, e qui dentro siamo tutti all’opposto politico rispetto a ciò che lui rappresentava, ma io ho semplicemente riportato chi fosse - la sua storia - e per questo mi sono guadagnato un certo rispetto che mi ha permesso di parlare con molti altri ultras in giro per il mondo. In definitiva, penso che il fatto che non ci fosse ancora un libro sugli ultras, in inglese almeno, fosse colpa sia degli ultras che dei media.
Dario Saltari: Nei primi capitoli di Ingolfato intervisti dei tifosi del Newcastle talmente delusi dal passaggio di proprietà ai sauditi, e dall'assenza di proteste a riguardo, da aver smesso di seguire la propria squadra. Secondo te tra l'evoluzione delle tifoserie in Inghilterra - che sono passate da essere composte principalmente da persone delle classi lavoratrici a una composizione più borghese proveniente dalla classe media interessata al successo - e la sostanziale mancanza di dissenso che ha accompagnato questa operazione c’è un collegamento?
La prima cosa da dire è che ora come ora nel calcio inglese non c’è spazio per il dissenso. L’essenza degli ultras è essere contrari al potere e in questo senso le riforme portate avanti negli ultimi decenni nel calcio inglese (che sono state necessarie) hanno impedito qualunque tipo di dissenso all’interno dello stadio. Per dire, i club devono approvare gli striscioni e le coreografie. C’è un famoso esempio dall’ultima stagione che ha riguardato l’Arsenal, che forse ha messo in mostra la peggiore coreografia di sempre. Gli ultras italiani e spagnoli si sono fatti gioco di questa cosa, perché quello è il massimo che gli aveva permesso il club. E tutto questo deriva dalle leggi implementate dal governo inglese a partire dagli anni ’90.
La seconda cosa da dire è che l’Inghilterra si è molto impoverita a seguito delle politiche neoliberiste degli ultimi 30 anni. In particolare la parte nord-orientale del Paese è quella che ne ha risentito di più. Newcastle, in questo senso, è una città con una sola squadra. E tutto il suo orgoglio, che veniva dalle sue miniere, dalle sue industrie dell’acciaio, dalla carpenteria, ormai è andato. E da cosa è stato sostituito? Dal Newcastle, che dal canto suo è un gigante con i piedi d’argilla nel calcio internazionale. I sauditi si sono infilati esattamente dentro questa cosa. Gli investitori del Golfo hanno capito che la Gran Bretagna è in vendita. Tutti sono in vendita, a un certo prezzo. Io ho scritto questo libro per mostrare come l’Arabia Saudita abbia voluto entrare nel palcoscenico mondiale attraverso lo sport, e il modo in cui ha scelto i suoi investimenti è molto strategico, molto intelligente. Perché comprare il Newcastle e non il Manchester United? Perché stai comprando un asset culturale che è in crisi, e che, se hai il giusto ammontare di soldi, noi saremo disposti a vendere. Questo è un libro, per paradosso, più sulla Gran Bretagna che sull’Arabia Saudita. Su ciò che siamo disposti a vendere, al giusto prezzo. E il motivo per cui non c’è stata nessuna protesta è che hai avuto degli investitori che ti hanno promesso non solo di ricostruire il Newcastle ma la tua intera identità, l’economia della tua regione, il tuo rispetto per te stesso. Questa è la ragione per cui, quando sono andato lì, avrò trovato al massimo dieci persone a protestare contro questo cambio di proprietà, anche se lo facevano per ragioni nobilissime. Tutti gli altri erano così felici di riavere un pochino di controllo e prestigio che erano disposti di ignorare tutto ciò che stava avvenendo in Arabia Saudita.
Dario Saltari: Questo tipo di operazioni vengono inquadrate a livello mediatico con il termine sportwashing - un termine passepartout per i giornali ma che in realtà è molto meno neutro di quanto non sembri, perché parla di un fenomeno, quello di ripulirsi l'immagine agli occhi delle opinioni pubbliche occidentali, che in realtà è molto dibattuto, soprattutto a livello accademico. Cosa ne pensi di questo termine? Secondo te è davvero preciso nel descrivere questo tipo di operazioni? E secondo te perché ha avuto così tanto successo?
Sportwashing è un termine molto semplice. Significa una cosa sola: che tu usi lo sport per allontanare l’attenzione dalle cose terribili che stai facendo. Per la prima volta venne usato per parlare dell’Azerbaijan e dei Giochi Europei che organizzarono lì circa un decennio fa. Nel mio libro io uso il termine sportwashing una sola volta e solo per dire che non lo avrei utilizzato di nuovo. E il motivo è che è così semplicistico che non descrive affatto quello che sta facendo l’Arabia Saudita. Qui stiamo parlando di potere e di come usi lo sport per raggiungere degli obiettivi di soft power. Io penso che il concetto di soft power sia frainteso. La gente pensa che soft power significhi un potere diminuito o più gentile, ma in realtà significa semplicemente che tu cerchi di ottenere gli stessi obiettivi del potere ma con la persuasione, l’attrazione invece della coercizione. Gli obiettivi, però, sono gli stessi. Ho intervistato il professor Joseph Nye poco prima che morisse, perché è stato lui a coniare il termine soft power. E secondo lui, dopo che aveva lanciato una disastrosa guerra in Yemen, l’Arabia Saudita aveva capito che i mezzi che stava utilizzando fino a quel momento non stavano funzionando. In questo scenario, l’uccisione di Jamal Kashoggi poteva mettere fine a tutto. E invece da lì l'Arabia Saudita ha iniziato a puntare sull’attrazione - e lo sport da questo punto di vista ha costituito l’asset culturale più facilmente comprabile e corruttibile. Un professore con cui ho parlato ha descritto molto bene lo sport come una piramide di corruzione. Qual è lo sport più corrotto a cui puoi pensare? Alla base c’è la boxe, e infatti è stato il primo ad essere comprato. Poi, muovendosi verso l’alto in questa piramide, sono arrivati fino al golf, che è uno dei più difficili e infatti ci stanno ancora lavorando. Da un punto di vista di un’analisi costi/benefici, lo sport è l’asset più sicuro che tu puoi comprare.
Dario Saltari: Nel tuo libro parli molto di Mohamed Bin Salman, che è il principe ereditario dell’Arabia Saudita e premier di fatto, e scrivi che per lui e per il suo cerchio magico sia molto importante il fatto di essere cresciuto e aver studiato in Arabia Saudita e non all'estero. Questa cosa mi ha un po' colpito perché, soprattutto nei primi anni del 2000, quando questi investimenti dall'estero sono iniziati ad arrivare in Premier League, si diceva che questi principi, questi re, questi emiri fossero rimasti affascinati dal calcio inglese e dallo sport occidentale in generale perché avevano studiato nei college anglosassoni. Alla luce di questa evoluzione, secondo te l'élite che governa adesso l'Arabia Saudita da cosa è guidata? Se non è fascinazione per lo sport occidentale allora cos’è? Un semplice calcolo politico? Dalla voglia di emulare il Qatar e gli Emirati Arabi? O da altro?
Semplicemente dal potere, che è una droga potente. Per capire cosa sta succedendo qui bisogna capire che Mohamed Bin Salman, figlio dell’attuale re Salman, dieci anni fa era lontano dall’assumere una posizione di potere tale tanto quanto lo siamo io e te, o quasi. Era così improbabile che l’intelligence americano non sapeva chi fosse. Suo padre, nonostante fosse uno dei figli di Ibn Saud, il fondatore dell’Arabia Saudita che aveva dozzine di figli, era anch’egli una scommessa molto improbabile per il trono. È stata una successioni di morti per cause naturali che lo hanno fatto diventare improvvisamente e sorprendentemente in corsa per il trono. E anche in quel momento, lui non era tra i primi: alla fine non è nemmeno il più grande tra i figli della sua seconda moglie. E questo in parte spiega la sua sete di potere, che è stata dettata prima dalla sua ascesa dentro l’élite saudita e poi dalla rimozione dei suoi rivali politici.
Sono stato in Arabia Saudita per la prima volta nel 2008 ed era uno dei Paesi più repressivi al mondo. Sono stato in Corea del Nord e l’Arabia Saudita gli assomigliava allora. Sono stato a Gaza, e persino lì c’era più libertà che in Arabia Saudita! C’era la polizia religiosa, l’assenza totale di donne in pubblico. Sono tornato nel 2024 e molto era cambiato: ho visto donne nei posti di lavoro, alla guida… non sono ancora cittadine libere, ovviamente, ma rispetto a 16 anni fa è una rivoluzione enorme. Da questo punto di vista, Salman è quasi un riformatore. Questo però è solo un lato della medaglia, perché queste riforme sono molto superficiali e soprattutto sono concesse dal potere e così come sono state concesse possono essere ritirate. Non c’è stato nessun cambiamento costituzionale. Nel frattempo poi non esiste libertà politica, non c’è libertà di parola, puoi essere messo in carcere per 25 anni per un tweet innocuo. Questi sono cambiamenti più profondi e pericolosi che Salman non vuole concedere e se li chiederai verrai eliminato. Ho parlato con delle attiviste femministe saudite in esilio e mi hanno detto che se domani Mohammed Bin Salman pensasse che ritornare a una forma di Islam wahabita estremo rafforzasse il suo potere per altri dieci anni lo farebbe seduta stante. Quindi è vero: c’è un processo di riforma in Arabia Saudita e lo sport è una parte essenziale di questo processo. Ma tutto questo è fatto per acquisire e mantenere il potere. Non per la religione, non per l’Islam, non per il Medio Oriente. È per il potere, e questa dinamica penso sia uguale in tutto il mondo.