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NBA Dario Ronzulli 29 marzo 2017 4'

Anche senza Durant

La sfida con Houston ha confermato che Golden State rimane la miglior squadra della NBA sui due lati del campo.

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Il calendario della regular season NBA si è divertito a mettere una dopo l’altra sfide che sanno davvero di antipasto playoff. Un’occasione interessante per i coach per mettere a punto dettagli tecnici e tattici contro possibili avversari in post season, sempre che non ci sia una posizione migliore in ballo da raggiungere. Non era il caso di Houston e Golden State, praticamente già certe – salvo clamorosi ribaltoni – rispettivamente della terza e della prima posizione ad Ovest. Proprio per questo, tuttavia, la sfida di stanotte era interessante per capire se certi trend emersi fin qui trovassero ulteriori riscontri.

 

Spesso nella prima sequenza di un film è possibile trovare già tutto, ovviamente in maniera implicita: sviluppo della trama, tematiche principali, rapporto tra i vari personaggi. Allo stesso modo i primi due possessi di Rockets-Warriors ci offrono in sintesi quanto vedremo nel corso della partita: la difesa di Golden State che stritola come una piovra le penetrazioni avversarie e che lancia contropiedi letali. Alla fine saranno 16 i punti Warriors in transizione primaria, la metà dei quali nel primo quarto.

 

“Allora, Houston: noi vorremmo giocare così”.

 

Si è molto parlato, anche su queste pagine, di quanto sia stato rapido ed efficace l’inserimento di Kevin Durant nel sistema degli Warriors. Talmente efficace che l’infortunio patito dal numero 35 sembrava potesse rallentare la marcia del team della Baia. E invece, dopo cinque sconfitte nelle prime sette partite dallo stop di KD, gli Warriors hanno vinto le successive 8 con uno scarto medio di 16.3 punti. Non c’è trucco e non c’è inganno: a Golden State è bastato ritrovare antichi meccanismi e un minimo di brillantezza al tiro per marciare spedita, dando a Durant il tempo di recuperare serenamente. E tutto converge su un nome: Steph Curry.

 

Il conto, prego.

 

Il passaggio a vuoto nel secondo quarto e un paio di forzature – sempre che se si possano definire tali, con questo qui… – non inficiano la prestazione globale del due volte MVP in carica che, di fronte ad un serissimo candidato di quest’anno come James Harden, ha voluto ribadire il proprio ruolo di maschio alfa dominante come peraltro aveva fatto di recente contro Russell Westbrook. Se alla prestazione di enorme qualità di Curry aggiungiamo un Klay Thompson da 20 punti nei primi 17 minuti sul parquet, un Draymond Green come al solito ovunque, un Andre Iguodala esaltato dalla marcatura di Harden e una panchina a cui affidarsi con tranquillità, ecco che il menù proposto da Golden State si presenta da subito come molto succulento, e non certo per gli avversari. Senza Durant gli Warriors sanno ancora vincere, ma con Durant diventano quasi immarcabili: i favoriti per i playoff, sempre che le condizioni del ginocchio di KD siano confortanti, rimangono ancora loro.

 

Dopo aver sfoderato una prestazione offensiva monstre contro gli Oklahoma City Thunder, per Houston affrontare l’applicazione e l’intensità difensiva di Golden State è stato un brusco ritorno alla realtà. La tripla doppia di Harden da 24 punti, 11 rimbalzi e 13 assist, pur ragguardevole, vede ridurre la propria portata dal 98.9 di offensive rating del Barba in una rara serata sotto i 100 per il secondo miglior attacco della NBA a quota 112.3 punti segnati su 100 possessi. Rara ma non contro Golden State: l’ex Thunder ha 99.4 stagionale contro i vice campioni in carica; così come la serataccia dall’arco – 5/31 di squadra nei 48 minuti, 3/18 dal secondo quarto in poi – che ha costretto gli uomini di D’Antoni a sbilanciare il proprio attacco nelle conclusioni da sotto è un trend consolidato.

 

Mentre in stagione i texani hanno un rapporto pressoché costante tra tentativi dall’area e dall’arco (53.8% a 46.2%) ma anche tra punti prodotti dalle due situazioni (44.7% a 37.7%), quando i Rockets affrontano gli Warriors i numeri cambiano drasticamente. Il bilanciamento dei tiri tentati passa a 61.9% da sotto e 38.1% da 3 (ieri sera 63.5% e 36.5%), mentre quello dei punti segnati cambia in 56.6% e 22.5% (ieri sera 52.8% e addirittura 14.2%).

 

Con Durant o senza Durant per Houston cambia poco, dunque: gli uomini di D’Antoni – pochi, anche ieri rotazione ristretta a otto – semplicemente non riescono ad entrare nel loro ritmo offensivo perché la difesa degli Warriors si muove e raddoppia costantemente, rende utopico il concetto di “linea di passaggio pulita dopo la penetrazione”, non lascia quasi mai un tiro smarcato (e raramente stacca i piedi per terra quando effettua un recupero, mantenendo sempre l’equilibrio per contenere la penetrazione) e quando accade il tiratore di Houston ha talmente poca fiducia che si sente lo sdeng del ferro non appena parte il tiro. Dinamiche diverse ma effetti simili li abbiamo visti anche nei derby contro gli Spurs, ovvero l’altra forza della Western Conference: Popovich, come Kerr, ha idee e soprattutto uomini per inceppare uno degli attacchi più devastanti della lega. Più indizi del genere fanno pensare che a questi Rockets manchino degli elementi per poter essere una contender credibile fino in fondo, per esempio una panchina affidabile in attacco. E se state pensando alle difficoltà di Sam Dekker (3 su 11 dal campo, 59.7 di offensive rating… !) per diventare un giocatore idoneo in questo sistema quando non ha spazio per attaccare non siete andati affatto lontano.

 

Una parziale consolazione per i Rockets è che le problematiche e i grattacapi che crea la difesa Warriors ce li hanno tutti. Ed è un aspetto da rimarcare pensando a quanti dubbi fossero sorti non più tardi di due settimane fa: Golden State ha ritrovato fiducia in sé, ha capito che può essere se stessa anche quando manca un’arma formidabile come Durant e stanotte contro i San Antonio Spurs – senza defezioni studiate a tavolino – avrà un’altra occasione per avvisare gli altri naviganti che stanno per imbarcarsi nel lungo viaggio verso il Larry O’Brien Trophy.

 

 

Tags : golden state warriorshouston rocketssteph curry

Dario Ronzulli è nato a Foggia nel 1982 e da bambino sognava di fare il giornalista sportivo. Ora che è cresciuto lo fa davvero: anni di preziosissima gavetta in radio locali, poi cinque anni a Radio Sportiva e due a Radio Montecarlo Sport. Ora collabora con la redazione basket di Tuttosport e bazzica l'etere bolognese.

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