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Dario Vismara
Avere e non avere Durant
04 nov 2016
04 nov 2016
Il primo incontro tra KD e la sua ex squadra ha mostrato quanto faccia la differenza
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Dario Vismara
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Diciamoci la verità: da quando nello scorso luglio la NBA ha reso noto il calendario della stagione 2016-17, tutti siamo andati a sbirciare quando e dove si sarebbe svolto il primo incontro da avversari tra Russell Westbrook e Kevin Durant. La fine del loro sodalizio è stato il principale

del più grande movimento di mercato post-LeBron James, e sul loro rapporto sono stati sparsi fiumi e fiumi di inchiostro virtuale per cercare di “pompare” una nuova rivalità, a tratti in maniera abbastanza stucchevole.

 

Attorno Russ e KD si è creato un

di dichiarazioni, illazioni, mezze verità e semplice morbosa curiosità per due personaggi che, in un modo o nell’altro, hanno segnato il decennio degli anni ’10 della NBA. Prima dell’inizio della stagione i due campeggiavano sulle copertine di due magazine generalisti come

(su Durant) e

(su Westbrook), mentre successivamente anche testate più sportive come Sports Illustrated (con Lee Jenkins su Russ) e

(con un’intervista con KD). Il clamore suscitato dalle frasi contenute in quei pezzi ha portato Durant a “comandare”

con Anthony Slater (ex beat-writer di OKC, ora nella zona della Bay Area) in cui cercava di gettare acqua sul fuoco dichiarando che lui e Russ rimangono comunque “fratelli” indipendentemente da quello che è successo nella pallacanestro e che avrebbero risolto la cosa faccia a faccia. La risposta di Westbrook è stata presentarsi prima della partita di ieri notte così:

 


La presa in giro è per la passione di KD per la fotografia, che lo ha portato a fotografare il Super Bowl per The Players’ Tribune, lo stesso sito su cui ha annunciato il passaggio agli Warriors


 

Il loro “

” è stato costruito passo dopo passo come fosse un incontro per il titolo WWE, con il

previsto in diretta nazionale su TNT nella nottata di ieri — tanto è vero che lo stesso Durant, piuttosto irritato, ha detto che tutto è stato montato «per il vostro divertimento, il vostro piacere, la vostra gioia. Succede sempre. Ci vogliono vedere arrabbiati l’uno contro l’altro per la partita di giovedì. Vogliono creare più attesa ed eccitazione quando accenderanno la tv». Ma questa è la realtà e non il wrestling, per cui prima di addentrarci in cosa ha raccontato la partita, bisogna sottolineare le condizioni con cui le due squadre arrivavano all’incontro. Se gli Warriors in questo inizio di stagione hanno impressionato meno di quanto ci si aspettasse (che era oggettivamente fin troppo per una squadra che ha cambiato così tanto), gli Oklahoma City Thunder sono stati trascinati da Westbrook in formato supereroe da tripla doppia di media fino a vincere le prime quattro partite senza sconfitte. Ancor più importante è stata la vittoria della sera precedente sul campo dei L.A. Clippers, che ha dato loro un

di fiducia ma li ha anche svuotati delle energie necessarie per resistere 48 minuti alla Oracle Arena, cosa che fatalmente hanno finito per pagare.



 



 

Eppure nel primo quarto i Thunder hanno fatto esattamente ciò che bisogna fare per mettere in difficoltà Golden State in questo momento del loro processo di crescita: attaccare l’area il più possibile per mettere pressione e coinvolgere i lunghi nel pitturato per sfruttare la mancanza di familiarità dei nuovi Warriors.




Qui Russell trova Sabonis sotto canestro: in totale il rookie lituano e Steven Adams segneranno 14 punti nel solo primo quarto




Il piano ha funzionato perfettamente fintanto che le gambe dei Thunder hanno retto, riuscendo a bucare la svogliata difesa dei padroni di casa nonostante Andre Roberson venisse ignorato come di consueto, di fatto attaccando 4 contro 5. Alzando i ritmi sulle ali di Westbrook e trovando i lunghi nel pitturato, i Thunder sono però riusciti a volare fino al +10 a 3 minuti dalla fine del primo quarto con una

del neo-acquisto Jerami Grant, che poi ha avuto l’ardire di gridare qualcosa in faccia a Durant, fino a quel momento piuttosto silente. È stata decisamente una brutta idea, e quello che è successo dopo ha messo in mostra quanto possano cambiare i rapporti di forza tra due squadre con lo spostamento di un singolo giocatore del calibro di Kevin Durant.



 



 

Dopo quella schiacciata e la successiva uscita dal campo di Westbrook per il primo riposo, Durant ha preso in mano la partita: 10 punti in tre minuti per chiudere il primo quarto, altri 5 a inizio secondo, quindi la mareggiata a metà secondo quarto con due triple consecutive che di fatto hanno chiuso i giochi. La cosa interessante è il modo in cui Steve Kerr ha ristretto le rotazioni, facendo scendere in campo solo 8 giocatori nel primo quarto e gestendo i minuti dei titolari per fare in modo che due tra Durant, Curry, Thompson e Green fossero sempre in campo per aiutare la panchina, punto debole di questo inizio di stagione insieme a una difesa tutta da registrare. Questo è probabilmente ciò che rende i Golden State Warriors così terrificanti da affrontare in regular season: i poveri Thunder dovevano affidarsi a Semaj Christon, Anthony Morrow, Joffrey Lauvergne e Jerami Grant per chiudere il primo quarto, mentre davanti si sono ritrovati un quintetto formato da Curry-Clark-Durant-Iguodala-West e successivamente con Livingston e Thompson da guardie per aprire il secondo quarto. Sono veramente pochi i quintetti titolari che possono resistere a combinazioni del genere, figuriamoci le panchine: è come avere un treno di gomme fresche aggiuntivo in un Gran Premio di Formula 1 senza dover fare soste in più.

 


Figuriamoci quando il motore poi è il pick and roll laterale tra Steph e KD.


 

L’ingresso di Iguodala, come sempre negli ultimi tre anni, ha migliorato la difesa complessiva degli Warriors (+29 di plus-minus nel primo tempo senza segnare un singolo punto), che ha fatto un lavoro decisamente migliore nel chiudere l’area alle penetrazioni di Westbrook (

stoppato in stereofonia da Green e Durant) sfidando al tiro il resto della squadra ed esponendo il limite più grande di un attacco che in questo inizio di stagione è solo terz’ultimo in tutta la NBA dietro a Sixers e Pelicans. Per quanto riguarda l’altra metà campo, invece, è bastato un fallo su tripla di Adams su Curry e un paio di triple d’autore di Durant per aprire una voragine di 17 punti che è diventata di 25 all’intervallo lungo, rendendo sostanzialmente inutile l’intero secondo tempo ai fini del risultato finale.

 


«They are not enjoying this in Oklahoma City» dice Marv Albert con l’eufemismo del secolo




 



 

Per i Thunder questa è tutto sommato una sconfitta indolore nel grande schema delle cose: aver vinto le prime quattro partite, tra cui quella importantissima a Los Angeles coi Clippers due sere fa, li metteva nella posizione di poter affrontare questa partita senza avere sostanziali problemi ad accettare una sconfitta. D’altronde la stagione NBA dura 82 partite, e il primo terzo serve per capire su chi si può contare e su chi invece è meglio fare altri ragionamenti in vista della

. Certo, perdere facendosi strappare il cuore da 39 punti di Durant in diretta nazionale è una tortura che nemmeno

, però c’è sempre la partita a OKC (a proposito segnatevi la data: sabato 11 febbraio, proprio vicino a San Valentino) per restaurare un po’ dell’orgoglio perduto.

 


Certo, sapere di aver perso un 2.13 che spezza così un raddoppio non è esattamente facile


 

Più interessante è il discorso per Golden State: dopo la tremenda sconfitta contro San Antonio e le vittorie non del tutto convincenti contro New Orleans, Phoenix e Portland, aver battuto un’altra rivale della Western Conference in modo così netto dà un po’ di fiducia in più ad una squadra che continua ad avere un potenziale pressoché smisurato tanto in attacco quanto in difesa. Il secondo tempo è servito soprattutto per far ritrovare il ritmo a Klay Thompson (12 punti con 5/9 dal campo), che in questo inizio di stagione sta tirando ben sotto le medie abituali (3/28 da tre nelle prime quattro partite) e aveva bisogno di una piccola iniezione di fiducia. Fa tutto parte del lungo percorso di crescita che ancora attende questa squadra, che deve imparare i passi di danza che il gruppo precedente riusciva a eseguire in maniera fluida e che invece questo ancora — comprensibilmente — stenta a memorizzare, affidandosi molto più spesso all’isolamento rispetto al passato per inserire Durant nel sistema (20 passaggi di media in meno rispetto alla scorsa stagione) e mostrando una concentrazione ondivaga in difesa, nell'errata convinzione che tutto, in un modo o nell'altro, si risolverà in loro favore. Ma bisognava vincere “per Durant” e così è stato. Alla fine, al 4 di novembre, è tutto ciò che veramente conta.

 

 

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