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Risurrezione
ri·sur·re·zió·ne/
sostantivo femminile
Mi piacerebbe non dover rispiegare, visto che siamo giunti alla terzaedizione; che in questa Pasqua la Risurrezione beccasse pure me, come autore, che voi ricordaste il formato; come successo a Beverly Hills Cop III, a cui nessuno a chiesto lumi intorno a Beverly Hills Cop I e II.
Ma io non sono Eddie Murphy e questi non sono gli anni ‘80, quindi mi preme (ri)spiegarvi che resurrezione non vuol dire tornare indietro dalla morte, ma passare attraverso la morte, che non è solo quella vera, ma anche quella metaforica del fallimento, della caduta, della polvere. E chi cade in maniera più rapida e netta dei calciatori? Esseri umani che vivono su di un filo sottile, atleti a cui basta un attimo per perdere il nesso, la voglia, lasciarsi andare - per fisico o per testa - e decadere, afflosciarsi, sfiorire.
A chi si è spento dedichiamo quindi le prossime righe, il nostro pensiero, il nostro augurio: risorge Cristo, risorge la primavera, sono mesi in cui si può - si deve - provare a risorgere. Ecco chi contiene in sé il seme della resurrezione e deve solo capirlo, applicarsi, per passare attraverso e tornare a noi, più luminoso di prima.
Antonio Candreva
Candreva è un Cristo di Falconara Albanese, uno dei rari paesi arbëreshë del nostro paese (la minoranza etno-linguistica albanese presente in Italia); cresciuto a Tor de’ Cenci, crepuscolare periferia di Roma e morto non sulla croce, ma sulla fascia destra dell’Internazionale di Milano.
Anche questa assonanza tra cross e croce (che funziona meglio in inglese, ma tant’è) è esplicativa dello stato di Candreva, della sua condizione. Le guance incavate, la barba ispida, i capelli non pettinati, l’esterno nerazzurro è la versione più stropicciata possibile dell’uomo crocifisso. Le ferite della lancia sotto forma di insulti, allo stadio e sui social.
Candreva sta vivendo la peggior stagione della sua carriera, la peggiore di molte carriere mi viene da dire. È da settembre che non parte titolare in campionato, le migliori prestazioni le ha fornite contro il Benevento, in una partita finita 6-2, e contro il Rapid Vienna, un 4-0. In altri momenti è sembrato semplicemente inadatto al gioco del calcio, mandando a rotoli anche il semplice sistema binario che regolava il suo calcio (crosso/crosso addosso all’avversario).
I tifosi dell’Inter in questa stagione l’hanno visto fallire occasioni limpidissime, sparare punizioni decisive in curva, scegliere sempre la soluzione peggiore. In un tempo relativamente breve Candreva si è involuto fino a diventare il simulacro di se stesso. Recentemente si è offerto di pagare la mensa a delle famiglie disagiate che non potevano permetterselo, così che i figli piccoli potessero avere lo stesso pasto dei compagni. Un gesto che in qualche modo ci dice come lo stesso Candreva sia consapevole della sua condizione, di come, sentendosi come Cristo, agisce come Cristo.
Tuttavia la resurrezione di Candreva non passa dalla generosità, ma dal sacrificio: deve capire che i giorni da esterno che crea entropia sono finiti per sempre. Per risorgere, se proprio vuole risorgere, Candreva deve fare due cose: lasciare l’Inter e diventare un terzino. Uno di quei terzini sempre al limite tra il poter stare in campo e il non poterci stare, monotematici ma monoliti, terzini leggeri per un calcio leggero, magari in un Lecce neopromosso o in un 3-5-2 della SPAL.
Yannick Ferreira Carrasco
Anche Cristo alle volte si stanca, o magari ha solo bisogno di più soldi. Non è facile capire cosa abbia spinto Carrasco ad andare in Cina, di certo non la voglia di essere il Marco Polo del nostro millennio (almeno a giudicare dal suo profilo Instagram in cui non compare neanche una foto della Cina, neanche, chessò, della Grande Muraglia Cinese, in cui prima o poi si sarà imbattuto).
Senza stare qui a fare dei processi, Carrasco ha deciso spontaneamente di fare la fine di Cristo, issarsi su una croce dorata e scherzare difensori di livello decisamente inferiore in un campionato di livello inferiore. Carrasco in Cina è come la panna montata sulla torta di mele calda: godibile, ma dannosa; eterna, ma effimera.
Dieci minuti di panna montata.
Carrasco ad appena 25 anni può ancora redimersi, si sta già redimendo, le notizie di calcio mercato lo danno come voglioso d’Europa, ma non basta. Tornare in Europa per fare il titolare in qualche squadra di buon livello o il primo cambio in una squadra di ottimo livello non cambierebbe nulla, dopotutto era quello che faceva all’Atletico Madrid e da cui è scappato. Carrasco per risorgere deve passare attraverso le sue idiosincrasie e provare la cura “Cristiano Ronaldo”, anche in maniera violenta. Agire contro natura fino a trasformarsi da dribblatore di fumo a cecchino instancabile.
Certo, non è detto che questo possa riuscirgli ai livelli del portoghese, tuttavia questo cambierebbe lo stigma su di lui, lo renderebbe un giocatore nuovo. Per risorgere Carrasco dovrebbe eliminare tutta la panna montata dal suo gioco e lasciare la torta di mele. Solo in quel momento potremo capire quanto è buona.
Patrik Schick
Patrik Schick, diamante grezzo, è davvero più di là che di qua. Bianco, pallido, efebico: con indosso la maglia rosso vivo della Roma sembra uno dei personaggi del Caravaggio, con quella color marmo, una statua del Canova.
Patrik Schick è rimasto fermo, bloccato a quell’incomprensione che l’ha visto fenomeno a Genova, figlio aggraziato di Leda e Zeus. La capacità ipnotica di tenere il pallone incollato ai piedi, i dribbling "à la Bergkamp", i gol ogni tot minuti. Tutto sparito, scomparso nel giro di un’estate, che l’ha visto passare dalla Juventus, al reparto di cardiologia, per finire alla Roma.
Al tramonto della seconda stagione in giallorosso i numeri sono impietosi, da crocifissione. 8 gol e 3 assist in 56 presenze, quando alla Sampdoria gliene erano bastate la metà per arrivare ad 11 gol e 5 assist. Ma il numero forse peggiore è il 42, che non è la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto, ma i milioni spesi dalla Roma per assicurarsene le scarse prestazioni. Neanche con Ranieri, che sembrava volerci puntare, Schick è riuscito a battere un colpo, dimostrare anche solo di volerlo, di non essere lo spettro impaurito che tutti vedono.
In una società basata sul profitto e le plusvalenze, Schick è un Gesù Cristo costato troppo. Perché c’è solo una cosa peggiore dell’essere troppo forti per una squadra sempre impegnata a far quadrare il bilancio: non esserlo abbastanza. Schick oggi è un bidone in una squadra che non può permettersi bidoni. L’acquisto più costoso della storia della Roma in linea per diventarne la più grande catastrofe.
Per risollevarsi, risorgere, Schick deve prima risolvere i propri problemi, lasciando stare quelli della Roma. Recentemente si è affidato a un mental coach, per migliorare la sua attitudine, ma non sta funzionando. Dopotutto queste figure a metà tra i guru e gli psicologi funzionano per giocatori pazzi come Bonucci, non per anime candide come il ceco.
Schick deve cercare la pace fuori dal campo da calcio. Prendersi un anno sabbatico e partire: fare l’interrail per l’Europa o meglio il backpacker nel sud-est asiatico. Girovagare per il mondo alla ricerca della propria identità, dedicarsi agli origami in Giappone, all’hiking in Australia o al tango in Argentina. Tornare dopo 12 mesi e decidere: vuole davvero essere un calciatore?
Una volta risposta a questa domanda, Schick potrà risorgere.
Kasper Dolberg
Non c’è peggior Cristo di quello che si fa rubare la scena dai ladroni, che in questo caso hanno la faccia sveglia e i piedi lesti di Dusan Tadic, Hakim Ziyech e David Neres. È questa la croce di Kasper Dolberg: essersi fatto fregare il proscenio nel momento più bello e importante.
Dolberg era una stellina nelle squadra della stelline da prima di de Ligt e de Jong. Da quando nel 2016-’17, ad appena 19 anni, chiudeva una stagione con 23 gol. In quel momento Dolberg era tutto: il nuovo Ibra, il nuovo Bergkamp, il nuovo che avanza inesorabile. Doveva andare in tutte le migliori squadre del pianeta, Dolberg, ma alla fine è rimasto all’Ajax e quella che poteva essere buona idea gli si è ritorta contro in maniera davvero beffarda.
Dopo una rapida e impietosa involuzione - complice anche diversi infortuni - Dolberg non è più sembrato il giocatore elegante e spietato della prima stagione, ma la sua brutta copia. Piuttosto che schierarlo, ten Hag si è inventato i centravanti: Tadic, Van de Beek, Neres, lo spazio: chiunque sembra poter far benissimo in quel ruolo, tranne lui, povero Cristo. Nella cavalcata dell’Ajax dei “ragazzini terribili”, lui che doveva essere il più terribile di tutti sta rimanendo a guardare.
Per sua fortuna, il finale di stagione dell’Ajax passa per una semifinale col Tottenham ed un eventuale finale e nessuno può essere certo di non aver bisogno di un numero 9 “come Cristo comanda” in partite sempre più complicate e che possono essere decise da un singolo guizzo. La possibilità di resurrezione, almeno emotiva, per Dolberg è quindi dietro l’angolo.
Sfruttare al massimo i pochi minuti che finiranno per toccargli, soprattutto se l’Ajax deve recuperare, deviare in porta un pallone vagante come fece Solskjaer vent’anni fa: entrare nella storia dalla porta di servizio, regalare l’emozione più grande alla squadra che lo ha cresciuto e poi tradito. Tornare ad essere grande per un’ultima volta prima di spiccare il volo e dimostrare di essere migliore di tutti quelli che gli hanno rubato la scena.
Sergej Milinkovic-Savic
Sergej Milinkovic-Savic è davvero un giocatore che deve tornare indietro. Non da tanto lontano, per sua fortuna: deve tornare all’anno scorso, anno di grazia se ce n'è stato uno. Il centrocampista serbo sta vivendo la stagione peggiore della sua carriera, dopo aver vissuto la migliore. Ribaltato l’assunto secondo cui a 23 anni si può solo migliorare.
Certo, migliorare per Savic sarebbe stato difficile, ma nella famosa stagione “della consacrazione”, i tifosi della Lazio si sarebbero aspettato qualcosa di diverso, più simile al Cristo che moltiplica i pani e i pesci che al Cristo sulla croce.
Savic è riuscito anche a perdere malamente la votazione per il premio di giocatore dell’anno sull’account ufficiale della Lazio.
In estate la Lazio ha rifiutato tutte le offerte per lui (secondo Lotito anche ad una di 160 milioni di euro), ma la sua scelta non è stata ricompensata. Savic doveva essere il maglio di Inzaghi per scardinare uno dei 4 posti che conducono in Champions, ha finito invece per essere un centrocampista anonimo in una stagione che rischia di diventare anonima se dovesse finire con l’ennesimo piazzamento in Europa League.
Nell’ultima partita, in casa contro il Chievo, Savic si è fatto espellere dopo circa mezz’ora per un calcio nel sedere a Stepinski, toccando il punto più basso della sua parabola. Un'espulsione oltre che grave anche ridicola, nel modo in cui è arrivata. La Lazio ha finito per perdere allontanandosi ancora dal quarto posto, oggi distante 4 punti, ultima del treno che vede cinque squadre per un posto.
A dicembre dopo un gol al Cagliari, Savic era scoppiato a piangere. Qualche settimana prima i tifosi della curva nord avevano esposto uno striscione dandogli dello zingaro. Se nella scorsa stagione Savic si muoveva per il campo leggero ed incisivo come una piuma, oggi ogni suo movimento sembra essere pervaso di una gravità oscura.
I motivi di questa flessione hanno dato voce a molte speculazioni, spesso legate alla mancata cessione o ad una futura (la più complottista vuole che stia giocando male per abbassare il prezzo del suo cartellino). Non possiamo accettare che un calo del genere sia dovuto a fattori molto più specifici: condizione, fiducia, il gioco della squadra.
Per risorgere Milinkovic-Savic deve fare il contrario di quello che molti gli consigliano: rimanere alla Lazio piuttosto che cambiare aria. Accettare, se accadrà, un’altra stagione senza Champions League, senza lottare per i traguardi più importanti. Accettare di trovarsi in un posto in cui sembra trovarsi a disagio, perché il calcio non è per chi vuole rimanere nella propria comfort zone.
Milinkovic-Savic deve una stagione “della consacrazione” a se stesso e alla Lazio e deve essere la prossima. Perché il serbo è uno dei migliori giocatori della Serie A e il talento non scompare così, come in un film dei Looney Toons.
André Gomes
In un calcio in cui i centrocampisti che sanno far tutto sono più ricercati del Santo Graal, André Gomes sembrava costruito per diventare uno dei migliori nel ruolo: perfetto nella gestione del pallone in conduzione, capacità di palleggio e un fisico importante per aggredire gli avversari. Anche la sua maturazione stava filando liscia, come si conviene ai grandi giocatori: una buona stagione in patria, giovanissimo, al Benfica; l’approdo in una squadra di medio-alto livello dove affinare la proprie qualità, al Valencia; fino al salto finale, con l’approdo in una delle migliori squadre del mondo, il Barcellona.
Sulla carta André Gomes doveva sostituire Iniesta nel sistema di Luis Enrique, fornire un calcio più fisico in appoggio a Messi, ma questo non si è quasi mai visto. André Gomes non è mai riuscito ad esprimersi ad un buon livello, ritoccando le sue prestazioni sempre verso il basso. Dopo un buon inizio, infatti, non è riuscito a mantenere il livello richiesto per giocare in una squadra come il Barcellona. In qualche modo André Gomes appariva scollegato rispetto il resto della squadra, magari al posto giusto, ma sempre più lento o meno deciso dei compagni, sempre deciso a fare la cosa più facile per non sbagliare.
Non di certo il modo giusto per sostituire Iniesta nel cuore dei tifosi del Barcellona, che infatti si sono accaniti sul André Gomes, che piano piano ha perso anche la fiducia dei compagni e dell’allenatore. La seconda stagione è stata completamente disastrosa: impiegato spesso come primo cambio a centrocampo da Valverde, ha giocato partite sempre peggiori, ripreso platealmente sia dall’allenatore che dai compagni.
In quei giorni Gomes ha rilasciato un’intervista video a Panenka, parlando delle sue difficoltà: «Sono bloccato dentro» ha detto il giocatore portoghese, «tengo per me tutta la frustrazione che ho, quindi quello che faccio è non parlare con nessuno e non disturbare nessuno». In quell’intervista Gomes si sbarazza della corazza che solitamente i calciatori si portano addosso, di figure inscalfibili. «Non sto bene in campo, non riesco a godermi quello che mi piace fare di più», pur non parlando esplicitamente di depressione, André Gomes è stato piuttosto netto: «spesso mi tornano in mente le immagini della partita che ho appena giocato e non riesco ad andare avanti, a volte mi vergogno a uscire di casa, ho quasi paura».
Forse l’unico giocatore al mondo ad avere un video motivazionale su YouTube.
Alla prima partita dopo l’intervista Gomes è stato applaudito dai suoi tifosi, che si sono dimostrati molto comprensivi. Purtroppo in un contesto competitivo come il calcio ad alti livello, la comprensione non basta. In estate è stato ceduto in prestito all’Everton, dove sta giocando una Premier senza picchi, in una squadra senza picchi.
Il portoghese può scegliere di continuare ad essere un pacco che il Barcellona molla in giro fino ad una cessione triste in qualche squadra di medio livello oppure prendersi un impegno più grande, farsi ambasciatore di qualcosa che i calciatori faticano ad esprimere. Proprio ieri Higuain ha detto più o meno le stesse cose; Mertesacker ha ammesso che non vede l’ora di smettere, che vomita prima delle partite. Anche Buffon, dopo, ha raccontato di essere passato attraverso momenti di depressione.
André Gomes è risorto quando è stato in grado di parlare dei suoi problemi, aprirsi. Se una resurrezione tecnica è difficile da immaginare, potrebbe aiutare altri atleti nella sua condizione, fare della depressione non un tabù, ma un argomento di discussione. Farebbe bene al calcio, farebbe bene a tutti.