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Alec Cordolcini
Wijnaldum ha scelto la Roma per ritrovare se stesso
04 ago 2022
04 ago 2022
La storia del centrocampista olandese, che dovrebbe sbarcare a Roma nelle prossime ore.
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Alec Cordolcini
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John Thys - Pool/Getty Images
(foto) John Thys - Pool/Getty Images
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Quella di Georginio Wijnaldum è una storia di connessioni emotive. Familiari, ambientali e professionali. Per due volte ha dovuto lasciare le proprie squadre della vita: il Feyenoord, che lo aveva proiettato nel grande calcio, e il Liverpool, che lo ha consacrato al top. Connessioni tagliate da scelte consapevoli, nel primo caso più forzate rispetto al secondo, frutto di un’autostima coltivata e cementata lungo un’infanzia e un’adolescenza vissute in ambienti deteriorati, dove chi non riesce a piantare radici sufficientemente solide difficilmente avrà futuro. Per Wijnaldum quelle radici appartengono alla sua famiglia. Disgregata, allargata eppure in qualche modo funzionale per crescere nella difficile realtà di Schiemond, Rotterdam.

Quarantacinque minuti di cammino separano il quartiere di Schiemond, adagiato lungo la Mosa, da quello di Spangen, sede dell’Het Kasteel, lo stadio dello Sparta, che ha la particolarità di avere un lato che assomiglia all’ingresso di un castello. Nei primi anni 90 percorrere a piedi un simile tragitto era pericoloso come girovagare nella Belfast dei Troubles, con la differenza che al posto di carri armati, filo spinato e sacchi di sabbia c’erano pistole cariche abbandonate sui bidoni dell’immondizia, siringhe, vetri rotti e l’intera gamma di criminali che può offrire un’area ad alto tasso di disoccupazione giovanile, violenza minorile e povertà. A Schiemond avevano istituito una zona a luci rosse, sulla Keileweg, di fronte a dodici blocchi di edilizia residenziale pubblica. Spangen aveva il più alto tasso di tossicodipendenti di tutta la città, tanto che i tifosi dello Sparta era stati soprannominati dai rivali cittadini di Feyenoord e Excelsior “junks”, cioè drogati.

Da ragazzino, Georginio Wijnaldum ha percorso la tratta Schiemond-Spangen innumerevoli volte, sempre accompagnato dalla nonna, perché altrimenti sarebbe stato troppo pericoloso. Di cognome faceva ancora Boateng, ereditato da un padre che nemmeno era il suo, ma solo il marito di sua madre quando lui era nato. Lo avevano chiamato Georginio ispirati da Jorginho de Amorim Campos, il terzino destro della nazionale brasiliana a Italia 90. Quando aveva cinque anni la madre si era trasferita ad Amsterdam nel Bijlmermeer, all’epoca altro quartieraccio, frutto di un fallito esperimento funzionalista condotto a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta. Ma Wijnaldum aveva chiesto e ottenuto di rimanere con la nonna a Schiemond, dove c’era il suo mondo, cioè i suoi amici. Tra questi molti volevano fare il calciatore ma solo qualcuno ce l’ha fatta, come David Mendes Da Silva, 7 presenze nella nazionale olandese e un’onesta carriera in Eredivisie. Tra chi non ce l'ha fatta, invece, c'è Anthony Fernandes, ucciso a 22 anni a due colpi di pistola quando ormai per lui il calcio era solo un ricordo dell’adolescenza. «Chi è cresciuto a Schiemond», ha detto una volta Mendes da Silva a Algemeen Dagblad, «ha la forza di superare qualsiasi cosa». Parole ripetute in maniera identica da Wijnaldum quando, nella stagione dell’ultima Champions vinta dal Liverpool, gli chiesero da dove nasceva il suo atteggiamento sempre composto, immune alla pressione, alle critiche, alle provocazioni.

Talvolta è facile scambiare questo approccio per disinteresse, scarso coinvolgimento, arroganza. Si tratta invece di un bagaglio personale costruito negli anni a Schiemond, proprio come quando si parla del suo stile di gioco in campo, della rapidità di pensiero e azione, proveniente - come più volte dichiarato dall’olandese - dal calcio giocato in strada, nelle piazzette, nelle cantine tra preservativi usati, aghi e telai arrugginiti di biciclette. L’ambiente ha modellato i movimenti ma anche i processi mentali, nei quali ogni cosa assume la giusta rilevanza. Non può esistere delusione sportiva in grado di competere con quel passato: non il 10-0 in Eredivisie incassato dal suo Feyenoord contro il PSV in quella che Wijnaldum ha definito «l’esperienza più umiliante di tutta la mia carriera, perché nemmeno le squadre amatoriali perdono con quel punteggio»; non l’estate orribile del 2016, con la sua prima stagione in Premier League chiusa con la retrocessione del Newcastle e l’Olanda non qualificata agli Europei; non la stagione 2021-22 con il Paris Saint Germain, la prima annata della sua carriera totalmente negativa, tanto da avergli fatto perdere il posto non solo nell’undici titolare della nazionale olandese (e, di conseguenza, la fascia di capitano) ma anche nella rosa dei convocati.

I primi passi al Feyenoord e la carriera olandese

Nella lingua surinamese non esiste un termine per indicare fratellastri o sorellastre: si usa semplicemente la parola "fratelli" e "sorelle". E questo spiega in parte le relazioni anche molto strette che si vengono a creare nelle famiglie allargate dei migranti (o dei loro discendenti) provenienti dal Suriname nei Paesi Bassi, come quella di Wijnaldum per l'appunto. Nelle giovanili del Feyenoord Wijnaldum (al quale lo Sparta non aveva offerto un contratto) si ritrova accanto a Rajiv van la Parra, uno dei figli del suo padre biologico. Un gradino più sopra, in prima squadra, c’è il loro cugino Royston Drenthe, mentre un altro cugino, Jurmain Wijnaldum, colui che gli aveva insegnato i fondamentali del pallone, a quel punto è già uscito dal giro. La connessione emotiva familiare si unisce a quella sportiva.

Nel Feyenoord Wijnaldum cresce sotto ogni profilo, trovando un ambiente ricettivo nei suoi confronti. A 16 anni Erwin Koeman lo fa debuttare in prima squadra, un primato di precocità in casa del club di Rotterdam superato solo lo scorso anno da Antoni Milambo per appena 17 giorni. Non mancano le difficoltà, inevitabilmente. Wijnaldum inizia come difensore centrale, poi viene avanzato a centrocampo, la sua posizione ideale, specialmente nel ruolo di numero 10 alle spalle della punta. Ma secondo i suoi allenatori gioca con la testa troppo bassa per quel ruolo, e quindi, visto anche il suo ottimo spunto in velocità, viene spostato sull’ala. Si presenta così nel calcio professionistico in un ruolo non suo, nel quale è costretto a primeggiare per potersi conquistare una chance in quella che ritiene essere la sua vera posizione: centrocampista centrale. Dovrà attendere di incontrare Jürgen Klopp per vedere definitivamente esaudito il suo desiderio.

Wijnaldum lascia il Feyenoord dopo cinque anni in prima squadra, al termine di un’ultima stagione chiusa per la prima volta in doppia cifra (14 gol), un dato non casuale dopo che il tecnico Mario Been lo aveva schierato ripetutamente come numero 10. Nonostante il suo exploit, il Feyenoord non era però riuscito a qualificarsi nemmeno alle coppe europee. La società non può quindi trattenerlo e vuole cederlo all’estero, ma lui accetta, un po’ controvoglia, i consigli del suo procuratore e firma per il PSV Eindhoven. «Non lasciare l’Olanda prima di aver dimostrato di essere il migliore», gli dice il suo procuratore. Wijnaldum non gradiva la destinazione perché, se proprio era arrivato il momento di recidere il legame con le sue origini calcistiche, non voleva farlo passando a un club rivale. Ma non tutte le rivalità sono uguali, e per il Feyenoord perlomeno il PSV non è l’Ajax. Lo ha spiegato proprio Wijnaldum a Voetbal International: «Non avrei mai potuto, nemmeno delle giovanili, scegliere l’Ajax e poi tornare a Rotterdam come se niente fosse. Anzi, non sarei nemmeno più stato gradito. Quando mio madre decise di trasferirsi da Amsterdam e tornare a Rotterdam, mi feci aiutare dai tifosi del Feyenoord a trovarle una casa. Il PSV è un rivale sportivo, punto. L’Ajax è una nemesi, a livello storico e culturale ancora prima che calcistico».

Nella stagione 2014-15 Phillip Cocu festeggia il ritorno del titolo in casa PSV dopo sei anni di assenza. Georginio Wijnaldum, capitano della squadra, viene eletto miglior giocatore della Eredivisie. È la sua terza stagione a Eindhoven, chiusa ancora una volta in doppia cifra e caratterizzata dal continuo oscillare tra la posizione di ala nel tridente e quella di numero 10, contendendo in quest’ultimo caso la maglia allo svedese Ola Toivonen che, a differenza sua, non era così duttile da poter essere schierato altrove. Una stagione iniziata dopo un’estate esaltante vissuta con l’Olanda al Mondiale brasiliano, il primo grande torneo disputato da Wijnaldum.

Il CT Louis van Gaal anticipa la felice intuizione di Klopp a Liverpool e utilizza Georginio da centrocampista centrale in un 3-4-1-2, affiancandolo a un mediano di rottura più statico come Nigel de Jong e mettendolo alle spalle di un creatore, Wesley Sneijder. In questo modo ottiene quella che stampa olandese chiama “il generatore di corrente” della squadra, dotato di capacità di corsa tale da garantire copertura ma anche di creatività e qualità tecniche in fase di costruzione del gioco. Wijnaldum inizia titolare nella terza partita del girone contro il Cile, dove Van Gaal schiera le riserve perché gli arancioni sono già qualificati, e non perde più un minuto fino alla conclusione del torneo, segnando anche nella finale per il terzo posto contro il Brasile.

A Liverpool

L’altra grande connessione emotiva Wijnaldum l’ha stabilita con Liverpool, ambiente dal quale è stato accolto con scetticismo dovuto a una stagione poco decifrabile con il Newcastle, tappa di apprendistato nella quale, alle pur buone statistiche (per un debuttante in Premier) di 11 reti segnate e 5 assist forniti, fa da contrappeso un rendimento incostante, con pochi picchi (la quaterna al Norwich) e molta abulia. Anche con Rafa Benitez Wijnaldum gioca prevalentemente come ala. Un ruolo solitario, quasi come quello del portiere, almeno stando a quanto ha dichiarato lo stesso Wijnaldum al Guardian: «Un’ala è impegnata con sé stessa. Le scelte sono limitate: dribbli, oppure crossi, oppure tagli all’interno. Giocare nel cuore del centrocampo significa essere l’anello di congiunzione tra difesa e attacco, essere il punto di connessione di tutto. Le possibilità sono innumerevoli». L’olandese porta avanti da anni la sua battaglia con personalità e determinazione, ma senza strafare. Finire nell’orbita di Klopp è la miglior occasione per dimostrare la bontà delle proprie pretese.

Del Liverpool campione d’Europa e d’Inghilterra del triennio 2018-2020 Wijnaldum è stato l’elemento meno celebrato in relazione alla sua importanza per la squadra. Schierato in un centrocampo a due o a tre, a volte trequartista, altre con compiti più difensivi, si è rivelato fondamentale nel garantire le giuste dose di disciplina, corsa, ritmo, intelligenza tattica e capacità tecniche richieste da un sistema caratterizzato da un pressing aggressivo e dai ritmi costantemente elevati. Klopp ha parlato di «buona combinazione tra un centrocampista difensivo aggressivo e un centrocampista offensivo creativo» per elogiarne la versatilità e l’affidabilità, unita a una costanza di rendimento sconosciuta negli anni precedenti, quando più che la capacità di lettura e i movimenti giusti erano un dribbling o un’azione solitaria a determinare il valore della sua prestazione e il suo impatto. Tra gli aspetti più rilevanti, ma meno notati, della trasformazione di Wijnaldum ci sono il miglioramento nella resistenza alla pressione avversaria, una qualità che il diretto interessato ha spiegato ritornando di nuovo alle origini, ovvero Schiemond. «Lì dovevi essere tosto per essere qualcuno, altrimenti nemmeno ti facevano giocare». Al Liverpool, in questo contesto tattico, alcune delle sue prestazioni più clamorose. Tra tutte, forse, la semifinale di ritorno di Champions contro il Barcellona, in una delle rarissime sue panchine di quella stagione, per contribuire con una doppietta in tre minuti alla clamorosa rimonta (4-0 dopo lo 0-3 del Camp Nou) che ha portato il Liverpool alla finale poi vinta contro il Tottenham.

L'anno scorso il passaggio al PSG, con una scelta che col senno di poi possiamo giudicare sfortunata. A Parigi non ha funzionato niente, presentando un giocatore talmente avulso dalla squadra, sotto ogni profilo, da far supporre che il Wijnaldum messo sotto contratto sia stato in realtà il fratello minore Giliano, fresco 30enne scivolato un paio di stagioni fa tra i dilettanti. La partita simbolo del Wijnaldum “francese” è stata Paris Saint Germain-Nizza dello scorso 31 gennaio, ottavo di finale di Coppa di Francia, quando, negli 89 minuti in cui è rimasto in campo, è stato il giocatore che ha toccato meno palloni di tutti, anche del portiere Keylor Navas. Una statistica di FootMercato ha mostrato come, su 409 centrocampisti presi in esame nei cinque grandi campionati, nessuno era stato così assente in fase di possesso palla come l’olandese in quella partita. In Francia il generatore di corrente non è mai riuscito nemmeno ad accendersi, per incompatibilità tattica e ambientale, e lasciare la capitale francese per Wijnaldum rappresenta in primo luogo una necessità proprio in ottica Mondiale, visti i chiari segnali mandati da Van Gaal.

La scorsa estate Wijnaldum ha disputato il suo secondo grande torneo, l’Europeo, dopo aver perso quello del 2016 e il Mondiale 2018 per la mancata qualificazione degli oranje. In quattro partite si sono sintetizzate le ultime stagioni del centrocampista, tra prove di forza e crollo verticale. Wijnaldum è stato capocannoniere dell'Olanda nella fase a gironi segnando 3 gol in altrettante partite, e proseguendo la felice vena, realizzativa e non solo, mostrata lungo tutto il percorso di qualificazione al torneo. Ma nell’ottavo di finale il sistema installato da Frank de Boer è stato mandato in corto circuito dalla Repubblica Ceca di Jaroslav Silhavy. Un blackout che ha travolto tutto e tutti, colpendo più duramente soprattutto il centrocampo. Dal 1980 Opta rileva i dati statistici dell’Europeo. In Olanda-Repubblica Ceca Wijnaldum è risultato essere il peggior olandese di sempre in una partita di un grande torneo per efficacia, avendo perso palla nel 40% delle occasioni in cui ne era entrato in possesso.

La Repubblica Ceca è stata un antipasto di quello che lo avrebbe atteso a Parigi. Eppure l’importanza di Wijnaldum per l’Olanda non è mai stata in discussione, e lo si è visto anche negli aggiustamenti tattici operati da Van Gaal una volta appurate le difficoltà del giocatore in Francia. Il CT olandese ha rovesciato il triangolo, passando da due centrocampisti offensivi (Wijnaldum e Klaassen) alle spalle della punta a un solo trequartista (Berghuis) dietro a due attaccanti, complice anche il nuovo ruolo ricoperto con profitto nell’Ajax da quest'ultimo. Wijnaldum troverebbe spazio anche in questo modulo, tra l'altro in un ruolo che da sempre sembra preferire, come ha fatto capire chiaramente a Liverpool.

Il centrocampista olandese ha solo pochi mesi per riprendersi la Nazionale, e lo dovrà fare in una squadra decisamente più bassa e reattiva di quella di Klopp. Wijnaldum dovrà tornare velocemente ad alti livelli atletici per mettere in mostra le sue corse con la palla, ma anche la sua intelligenza tattica, che a Liverpool lo portava a muoversi continuamente senza palla, anche alle spalle della difesa avversaria. I tifosi della Roma, d'altra parte, dovrebbero ricordarselo bene: fu lui a ribaltare l'inerzia della semifinale d'andata di Champions League ad Anfield, ipotecando la finale di Kiev. A circa quattro anni da quel momento, però, molte cose sono cambiate. A Roma Wijnaldum è atteso da una sfida difficile per provare a giocare quello che potrebbe essere l'ultimo Mondiale della sua carriera. Una montagna che spaventerebbe chiunque ma a quanto pare non Wijnaldum, che a 31 anni si è rimesso in gioco ad appena un anno dall'aver firmato quello che doveva essere l'ultimo grosso contratto della sua carriera. Ma chi è cresciuto a Schiemond, ormai l'avrete capito, ha la forza di superare qualsiasi cosa.

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