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Foto di Kenzo Tribouillard / AFP via Getty Images
Calcio Fabrizio Gabrielli 8 febbraio 2022 10'

Cissè e il Senegal non hanno mai perso la fiducia

La perseveranza ha infine portato una coppa.

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La Coppa, dal campo, viene scortata verso il palco d’onore. Kalidou Koulibaly, affiancato da Gianni Infantino, la riceve tra le mani di fronte a Paul Biya, il presidente camerunense, ma sembra a disagio. 

 

Non è a quel contesto, a quella sfilata di abiti, che appartiene. Appare come impaziente: dopo averla stretta, si dirige verso i suoi compagni di squadra, che lo aspettano al centro del campo. Prima di sollevarla, di dare inizio alla festa, il primo abbraccio che cerca è quello di Aliou Cissé. L’allenatore si scosta i dreadlock, lo invita a unirsi al festeggiamento. Si mette in disparte. 

 

L’immagine di Sadio Mané che lo stringe, mentre sullo sfondo Kalidou alza la coppa, è di una bellezza disarmante. In nuce, in fin dei conti, la loro storia ha rischiato, per un momento, di convergere.

 

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Per nessuno, più che per Aliou Cissé, il primo successo del Senegal nella storia della Coppa d’Africa ha così tanta importanza. L’ha persa, da giocatore. 

 

Era il 2002, sei mesi più tardi il Senegal avrebbe stupito il mondo giocando un Mondiale, in Corea e Giappone, dai contorni mitici. Un Mondiale in cui all’esordio avrebbe sconfitto la Francia, che non era solo la detentrice del titolo, ma ovviamente qualcosa di molto, molto più grande in termini concettuali e culturali. 

 

Ogni favola, però, parte da un punto di rottura. Da una svolta dolorosa.

 

A Bamako, in Mali, il Senegal di Bruno Metsu raggiunge la finale della Coppa d’Africa 2002. Affronta il Camerun forse più forte della sua storia, che gioca con le maglie smanicate: arrivano ai rigori, e quello decisivo spetta proprio ad Aliou Cissé. Che è il capitano. 

 

Cissé quel rigore lo sbaglia. La Coppa gli scivola dalle mani, e inizia una specie di maledizione che sembra impossibile da sfatare. Una maledizione che sembrava aver posseduto anche Mané, guidare il suo rigore, al 3’, tra le mani di Gabaski. Che era ancora lì, ad ammantare il pallone prima del rigore decisivo. 

 


L’ha rimpianta, la Coppa d’Africa, Aliou Cissé. È forse è già da lì che ha cominciato a sognarla. A pianificarne la riconquista, in un modo o nell’altro. A vedersela sfuggire, ancora una volta, da allenatore, tre anni fa, per un soffio, sconfitto 1-0 dall’Algeria.

 

Infine, finalmente, a conquistarla. Venti anni più tardi. Venti anni dopo la sconfitta contro il Camerun, in Camerun.

 

Il karma è sempre un circolo che si chiude, la razionalizzazione di quelle che possono sembrare soltanto meravigliose coincidenze. Ma nel percorso di Aliou Cissé, niente è successo per coincidenza. Il successo è frutto di applicazione, costanza, perseveranza. E anche di fiducia: data, e ricevuta. 

 

È in carica dal 2015, sette anni, lontano dallo standard di permanenza degli allenatori sulle panchine delle Nazionali africane. La sua federcalcio ha creduto nel suo progetto. E lui: lui ha sempre creduto, fortissimamente, in se stesso. In una maniera così solida, così incrollabile, da trasmettersi, per osmosi, ai suoi uomini. «Credo che quest’uomo meriti tutto il meglio perché è l’allenatore più criticato che io abbia mai visto. Eppure, non ha mai mollato», ha detto Sadio Mané. Dopo le prime due partite di questa Coppa d’Africa, deludenti invero, lo avevano additato come «il principale avversario dei Leoni di Teranga».

 

Lo accusavano di prediligere giocatori provenienti dalla regione di Casamance. Cioè la regione, non lontana da dove Senegal, Gambia e Guinea-Bissau si intersecano, da più di vent’anni al centro di uno scontro perenne tra indipendentisti del Casamance e forze governative, in cui ha vissuto un’infanzia marcata dal clima di paura e dalle sventagliate di mitra. 

 

Éducation sentimentale

In un profilo che ho scritto durante il Mondiale di Russia raccontavo come fosse cresciuto in una casa piena di zii e cugini, e dalla nonna, senza i genitori che vivevano in Francia. «Non ho avuto il classico percorso dei giovani africani che vengono in Francia per giocare al calcio. Però poi non ho mai pensato di fare altro», racconta ricordando il momento in cui ha lasciato il Senegal per ricongiungersi ai suoi genitori.  

 

Li ha raggiunti nella banlieu parigina, a Champigny-sur-Marne. Che, per uno strano caso del destino, è anche il paese in cui è cresciuto Djamel Belmadi, l’allenatore dell’Algeria. I due si sono sfidati nella finale della Coppa d’Africa 2019. Oggi, Champigny-sur-Marne può vantare di essere la culla degli ultimi due allenatori che hanno conquistato la Coppa.

 

In campo era un giocatore ordinato, non si concedeva mai grandi colpi di testa. Aggressivo, ma sempre con sportività. Pieno di irruenza. Ma anche con un grande senso della dedizione, dell’applicazione. Nella sua formazione come allenatore, ovviamente, Cissé ha introiettato la carica carismatica di Bruno Metsu: da lui, senza scimmiottamenti, Aliou Cissé ha imparato alcune regole fondamentali di come si fa l’allenatore in Africa, non per questo senza volontà di disattenderle. 

 

Si è circondato, nel suo staff, di ex compagni della spedizione del 2002, ma senza revanscismo; piuttosto, con la volontà di affermarsi non solo come individualità, ma come rappresentante di una categoria, di una generazione. A 36 anni porterà l’U-23 a giocarsi un quarto di finale olimpico, in cui verrà sconfitto dal Messico poi campione.

 

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Foto di Javier Soriano / AFP

 

In effetti il motivo per cui Cissé è stato scelto per guidare il Senegal muoveva i passi dal sovvertimento di questo principio, che chiameremo “pregiudizio di inadeguatezza” dell’allenatore nero: la squadra gli è stata affidata nel 2015, dopo il licenziamento di Giresse, nel tentativo da una parte di porre una fine al falso mito del sorcier blanc, dello stregone bianco, ma anche, dall’altra, di riportare un senso di disciplina e di squadra all’interno dello spogliatoio, oltre che un progetto tecnico solido. 

 

Il «pregiudizio di inadeguatezza», va detto, non viene soltanto dall’esterno. Anzi: Aliou Cissé si è sempre dovuto muovere, anche e soprattutto in patria, con l’attenzione accorta che devi avere quando cammini a piedi nudi dentro un covo di serpi. El Hadji Diouf, prima delle Coppa d’Africa 2019, aveva detto «Cissé non è l’uomo giusto per queste situazioni. Deve essere circondato da gente che ne sa di calcio, da vincitori, altrimenti non può sperare di vincere alcun trofeo». Cissé, da uomo saggio, e abile stratega, lo ha inserito nel suo staff tecnico nel 2021. «Il calcio senegalese ha bisogno dei suoi vecchi giocatori. Anche se io sono il migliore, anche altri possono accompagnare la squadra», ha dichiarato con un pelo di protervia Diouf. Che si è comunque guardato bene dal farsi fotografare vicino ad Aliou.

 

Nominato allenatore, ha promesso di «vincere. E vincere ancora». Un proclamo ambizioso, ma col senno di poi azzeccato. Nel suo ciclo ha perso soltanto 7 partite, vincendone 46 e pareggiandone 17.

 

Senegal v Egypt - Final: African Cup of Nations 2021

Foto di Visionhaus/Getty Images.

 

«Bisogna essere, oltre che ottimi allenatori, bravi psicologi per avere a che fare con uomini cresciuti in Africa, che si comportano come africani in un contesto africano», ha dichiarato Salif Diao. «Gli africani sono spiriti liberi, in campo i giocatori non fanno che esprimere soltanto loro stessi. Non puoi arrivare e mettere regole, porre paletti». 

 

Nel 2015, appena ricevuto l’incarico, Cissé ha convinto Kalidou Koulibaly a vestire la maglia del Senegal. Gli ha garantito che insieme avrebbero giocato i Mondiali, avrebbero vinto la Coppa d’Africa. Koulibaly gli ha dato fiducia, e ieri Cissé ha portato a compimento la sua promessa. 

 

Con la collaborazione di Lamine Diatta, il coordinatore sportivo e suo uomo ombra, ha identificato i punti deboli della sua rosa, e ha messo in atto un’operazione di recruitment improntata su calciatori con doppia nazionalità. È così che ha convinto della bontà del progetto Edouard Mendy, Koulibaly, e poi soprattutto un ricambio generazionale: Bouna Sarr, Abdou Diallo, Fodé Ballo-Touré, Namplays Mendy, Pape Gueye, tutti calciatori che avevano già giocato per le giovanili della Francia.

 

Il fallimento di successo del Mondiale in Russia

Molti dei calciatori che formano l’ossatura del Senegal attuale hanno fatto il loro ingresso in rosa dopo il Mondiale di Russia, a testimonianza del fatto che il progetto di Cissé non era estemporaneo, ma organizzato e orientato a reinventarsi per superare se stesso.

 

In Russia il Senegal è tornato a giocare un Mondiale dal quale mancava dal 2002. Aliou era il più giovane tecnico dei mondiali, portava in dote un’immagine anche di rottura: cool, con i suoi dreadlock (neppure il CT della Jamaica nel ‘98 li portava!), giovane, appena quarantaduenne, un approccio che più che sanguigno definirei massimamente partecipativo. Durante le partite lo abbiamo visto fare gesti sconclusionati, lanciarsi in esultanze iconiche.

 

👏 Celebration of the tournament…#POLSEN pic.twitter.com/AJv1jLqazk

— The Sportsman (@TheSportsman) June 19, 2018


Il suo Senegal è stata l’unica nazione africana ad arrivare all’ultima giornata della fase a gironi con la possibilità di qualificarsi per gli ottavi del Mondiale, fomentando aspettative simili a quelle del 2002. La sconfitta contro la Colombia, e un risultato nella classifica Fair Play peggiore di quello del Giappone, lo hanno però condannato il all’eliminazione, ancor più bruciante in considerazione della maniera in cui ha preso forma.

 

Cissé in Russia è stato, soprattutto, l’unico allenatore nero del Mondiale, il settimo della storia dei campionati del mondo. Secondo Simon Kuper, l’endemica assenza di allenatori autoctoni sulle panchine africane è a lungo dipesa dal fatto che un allenatore viene scelto anche in termini di rappresentatività e autorevolezza: e il profilo più autorevole, forse cavalcando un luogo comune trito e ritrito, in Africa è quello di un allenatore che sembri un allenatore, vale a dire: un uomo bianco, tra i 40 e i 60 anni. 

 

Si tratta di un trend che la Coppa d’Africa 2019, e soprattutto quella appena conclusa, hanno sovvertito. Oggi c’è maggiore tendenza ad affidarsi ad allenatori africani, e in questo Cissé è stato un precursore. La sua presenza è stata funzionale ad affrontare un discorso, quello del fardello dell’uomo nero, mai troppo affrontato in precedenza.

 

Aliou il tattico

Alla vigilia di questa Coppa d’Africa, di Cissé si diceva che avesse spinto il Senegal al suo limite, oltre il quale era complicato andare. Che nonostante fosse un fantastico e carismatico leader di uomini, come tattico fosse piuttosto limitato.

 

Che si sia sempre affidato al talento della sua rosa, in parte, può anche essere pacifico. Ma mai come in questa edizione della Coppa d’Africa il suo operato ha delle attenuanti. Il tempo davvero risicato per una preparazione vera e propria, le limitazioni che gli ha imposto il COVID (per la partita d’esordio ben 11 giocatori della rosa sono risultati positivi), tutto ha giocato a suo sfavore. 

 

In una competizione come la Coppa d’Africa, in cui gli equilibri vengono tradizionalmente spostati dall’attestazione di una supremazia tecnica o atletica, il Senegal di Cissé ha sfruttato appieno il livello tecnico dei suoi uomini. Ma che Cissé sia un tecnico senza preparazione, senza un’idea, senza un’identità di gioco, è quantomeno ingeneroso. 

 

Ricordando l’esperienza alla guida del Senegal al Mondiale del 2002, Bruno Metsu disse: «Non devi essere un grande allenatore per mandare in campo una squadra con un 4-4-2 o un 4-3-3, tutti possono farlo. Mentre incanalare tutte le forze nella stessa direzione, motivare i giocatori… il calcio non è solo tattica, e molti tendono a dimenticarlo». Si trattava di una visione da Santone Bianco, nella quale neppure Metsu, in realtà, in cuor suo credeva troppo. 

 

Contrariamente a Metsu, Cissé ha sempre creduto molto nella necessità di dare a una squadra un’identità tattica. L’idea di calcio di Cissé è sempre poggiata sulla polivalenza, che si traduce – in base al piano gara e alla strategie che intende perseguire – in una fluidità dei ruoli soprattutto lungo le catene laterali, che scendono in campo essenzialmente organizzate intorno a un 4-3-3, o 4-2-3-1. Da Metsu, Cissé ha ereditato la composizione a tre di un centrocampo solido e molto fisico, oggi formato da tutti centrocampisti che militano – o hanno militato – in Premier League: Idrissa Gueye (al PSG, ma ex Everton) e il capitano Cheikhou Kouyate (West Ham), al quale si è aggiunto, grazie all’intelligente opera di convincimento già citata, Nampalys Mendy. 

 

Prima del suo innesto, e a differenza del Senegal del 2002, mancavano centrocampisti con visioni lucide e fantasia. I tre titolari della linea mediana si limitavano spesso a un’interpretazione didascalica del ruolo di “interditore”, cercando sempre lo scarico più facile, il più delle volte verso il centrale alle loro spalle. Il centrocampo non veniva quasi mai coinvolto, di fatto, nella fase davvero creativa del gioco, prima dell’avvento di Mendy, vero pivote.

 

El tactico 🦁♥️ pic.twitter.com/xnTvnC8Aaa

— FSF (@Fsfofficielle) February 7, 2022


Anche se è sempre rimasto abbondantemente dipendenti dal talento individuale, insomma, il Senegal, sotto la guida di Cissé, ha sempre avuto uno stile di gioco organico, surrogato anche dalla continuità del progetto: sei undicesimi della formazione con cui è iniziato il suo ciclo, la spina dorsale, facevano parte della selezione olimpica del 2012, di cui Cissé era l’allenatore in seconda. 

 

E allo stesso modo, dei quattordici giocatori impiegati nella finale contro l’Egitto, la metà sono sue creazioni. È stato Cissé a farli esordire, spesso persuadendoli della ricompensa che avrebbero ottenuto scegliendo di rappresentare il Senegal, anziché – spesso – la Francia.

 

Il lavoro non è ancora finito

Cissé è certo che un giorno una Nazionale africana vincerà la Coppa del Mondo. «Le cose si sono sviluppate, anche se è più complicato nel nostro continente. Crediamo nel nostro calcio, non abbiamo complessi: abbiamo grandi giocatori, ora abbiamo solo bisogno di grandi allenatori».

 

Nel calcio, nel calcio africano, la sottile linea rossa che divide l’essere considerato un fallimento dall’essere considerato un campione, e da campione a migliore di tutti i tempi, è più che altrove sottile.

 

Intanto, domenica, portando il Senegal al successo, ha scatenato una gioia – anche sugli Champs Élysées – incontenibile. Lo spirito della Nazionale del 2002, in qualche modo, è tornato a rivivere, e la dannazione della sua continua rievocazione forse ha trovato finalmente pace. Il rapporto che ha costruito con i suoi uomini ha raggiunto il picco che la sua generazione aveva instaurato con Metsu.

 

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Tra poco più di un mese, ancora di fronte all’Egitto, si giocherà in due partite l’accesso ai Mondiali in Qatar. Le critiche torneranno a minarne il cammino, le scelte, i risultati, forse. Aliou Cissé, dalla sua, però, può godersi la tranquillità di aver riportato, in qualche modo, tutto a casa. 

 

Fino alla prossima pioggia di critiche, al prossimo tabù da sfatare, alla prossima dimostrazione di essere l’uomo giusto nel posto giusto al momento giusto.

 

Tags : aliou cissèkalidou koulibalysadio manéSenegal

Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012) e "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019). Scrive sull'Ultimo Uomo dal 2013.

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