Improvvisi, inaspettati, spettacolari: sempre così sono gli addii di Conte, ormai troppi per non creare un pattern, raccontarci una storia. In un ruolo professionale in cui ci si dovrebbe abituare ai tira e molla, alla conciliazione, e persino a subire la scure di presidenti mai contenti, le sue fughe sono difficili da decifrare. La serenità per Conte sembra come l’orizzonte di Galeano, mai davvero raggiungibile. L’addio all’Inter si è consumato in un attimo. Un giorno era felice con la squadra a festeggiare lo Scudetto, anche più sciolto del solito mentre fingeva un incontro di boxe con Lautaro Martinez, quello dopo era già lontano, il contratto rescisso in una mezza giornata senza un ripensamento.
Le motivazioni sono state trovate nel freno messo dalla società agli investimenti sulla squadra. Eppure anche davanti a un ridimensionamento è difficile immaginare un'Inter non competitiva, un Conte costretto a barcamenarsi nel disastro. E proprio per questa mancanza di urgenza, la scelta di andarsene gli ha attirato delle critiche: Conte è stato visto come uno che abbandona la nave ancora prima che cominci ad affondare, incapace di affrontare una situazione che in realtà sembrerebbe anche calzargli bene. Eppure la sua storia ci racconta che, più che la paura di non avere il meglio a disposizione, per lui è inaccettabile continuare un percorso in cui non tutti lo seguono in maniera ortodossa.
Forse Conte cerca una panchina utopica, una squadra in cui può allenare dei giocatori nati dalla sua fantasia, in un contesto in cui tutto scorre liscio e oliato come il suo calcio meccanico, un sistema di pompe e pistoni che dirige come un maestro d'orchestra in trance agonistica. In attesa che questo suo desiderio si compia, o che vada al Tottenham come pare questione di ore, è interessante analizzare come i suoi tre grandi addii - che hanno anticipato il più recente all’Inter - raccontino qualcosa del Conte allenatore, della sua necessità di avere un controllo totale sul passato, il presente e il futuro della squadra che allena, senza compromessi.
A urne chiuse col Bari
Nel 2009 Antonio Conte è un giovane e rampante allenatore che sta guidando il Bari verso una promozione inaspettata. La sua squadra gioca con un 4-2-4 spregiudicato e spettacolare che ha attirato le attenzioni di diverse società di Serie A in cerca di un allenatore per la stagione successiva.
Già a maggio il suo futuro sembra lontano da Bari: «Ho fatto grandi sacrifici per arrivare fin qui, ho tolto tempo alla famiglia, non ho più voglia di girovagare per i campetti di B e C». Una dichiarazione strana, fatta proprio nel giorno in cui la sua squadra si guadagna la Serie A. Il senso però è chiaro: fallita la parentesi Claudio Ranieri è la Juventus a cercarlo con insistenza.
Il presidente del Bari Matarrese riesce comunque a tenerlo a bada. Gli strappa una mezza promessa di rinnovo del contratto, con la possibilità di liberarsi qualora arrivasse una chiamata da Torino, ma rapidamente i rapporti tra i due si irrigidiscono. La trattativa si trascina per qualche settimana, da una parte Conte sembra alla finestra in attesa di una mossa della Juventus, dall’altra Matarrese sembra restio a impegnarsi in maniera importante a livello economico, soddisfacendo le richieste dell’allenatore per quanto riguarda stipendio e mercato.
A margine della festa promozione Matarrese dice di aver accettato tutte le condizioni a patto che l’allenatore firmi subito il nuovo contratto, ricevendo un no come risposta. Conte però nega: «Mi sembra strano che il presidente parli attraverso i giornali», dice dopo la partita con la Salernitana. «Ci siamo dati appuntamento a lunedì, per il faccia a faccia. Io ho un grande rispetto nei suoi confronti. Se ha detto certe cose, è davvero molto strano».
Passano i giorni e le parti sembrano ancora più distanti. Conte è sempre più vicino alla panchina della Juventus, mentre il Bari è alla ricerca del nuovo allenatore. Prima dell’ultima giornata Matarrese dice ai tifosi: «Penso che sarà la sua ultima partita alla guida del Bari [...] non vorrei che qualcuno si sognasse di fischiare l'allenatore». Anche Conte parla da partente, ringrazia e rivendica il valore del suo lavoro: «Ho dato tanto al Bari».
Tutto cambia però pochi giorni dopo: Conte sembra non abbia accettato di piegarsi alle richieste tattiche della dirigenza della Juventus, che ha appena comprato il trequartista Diego e chiede all’allenatore di abiurare il suo 4-2-4. Il 31 maggio dice che c’è un 50% di possibilità che rimanga e che Matarrese è «come un padre». A chi gli chiede della Juventus dice: «Chi prende uno come me, sposa un'idea, un progetto, un'ambizione. Se avessi tutto questo, andrei ovunque. In una grande, ma anche in una piccola».
Il 2 giugno arriva la firma: contratto allungato di un anno, ingaggio triplicato. «Mai abbiamo investito tanto per un allenatore», dice Matarrese come se qualcuno gli avesse appena infilato le mani nel portafogli, «ma Antonio si è meritato il sacrificio della società». Più che lo stipendio però, le richieste di Conte sono per il mercato. L’allenatore consegna una lunga lista della spesa al DS Perinetti, che commenta sconsolato: «C'è da fare un lavoro enorme».
Tutto quel lavoro però non dovrà farlo: il 23 giugno 2009, appena chiuse le urne per le elezioni comunali che vedevano coinvolta la famiglia Matarrese, le due parti arrivano a una rescissione consensuale del contratto.
«Con Conte c'erano divergenze sui tempi e sulle scelte dei giocatori» commenta il presidente, lasciandosi andare anche a commenti non proprio gentili: «Antonio voleva cambiare 12 elementi, allestendo una squadra in pochi giorni. Con Conte, all'inizio, era un piacere lavorare; ora non è più la stessa persona, magari il successo l'ha cambiato».
L’allenatore invece si spende in una di quelle sparate in terza persona che impareremo a conoscere: «Volevo giocare in A con le mie idee: Conte è questo. La società era consapevole di cosa significasse sposare il mio progetto, sostenere la mia idea di calcio, lavorare con il mio staff, seguire precisi metodi di allenamento. Venuta meno la fiducia, ho preferito la risoluzione consensuale. Non c’era più la condivisione del progetto tecnico, sul quale ci eravamo trovati d’accordo solo tre settimane fa. Voglio precisare che il successo non mi ha dato alla testa, ma mi ha solo responsabilizzato di più».
Pur in un contesto minore e senza l’attenzione mediatica addosso, la rottura tra Conte e il Bari presenta tutte le dinamiche che impareremo a conoscere. Come se la notte avesse portato consiglio, all’improvviso Conte decide di lasciare la squadra che ha portato in Serie A, un rinnovo di contratto firmato appena 20 giorni prima, tutto con un mercato avviato e a pochi giorni dal ritiro estivo. Lo fa come preso da un raptus irrefrenabile, come avesse il ballo di San Vito.
Ma soprattutto lo fa senza che ci sia qualcuno o qualcosa dietro, la certezza di avere già un’altra panchina pronta. Anzi, al contrario, liberandosi a fine giugno si preclude la possibilità di trovare una panchina libera. Conte però dimostra già una certa coerenza: o progetto, o morte.
Al ristorante da 100 euro con 10 euro
Lo sappiamo: Conte riesce comunque ad arrivare alla Juventus. Passa prima dall’Atalanta - e anche qui se ne va per sua scelta, dopo un'accesa discussione con i tifosi - e poi dal Siena, dove ottiene la seconda promozione in Serie A non senza aver litigato con tutto e tutti.
A Torino ha un successo immediato: Scudetto al primo anno (2011/12) dopo un duello serrato con il Milan; Scudetto al secondo anno (2012/13) vinto agilmente a cui aggiungere i quarti di finale di Champions League, eliminato dal Bayern Monaco, semplicemente troppo forte in quel momento. Dopo il primo biennio la sinergia tra l’allenatore e la società sembra totale.
Conte è il braccio armato di una società che vuole riprendersi il suo posto al sole senza però bruciarsi come Icaro. Il mercato è sempre oculato: in quella terza estate da Liga e Premier arrivano Llorente e Tevez, uno a parametro zero, l’altro ripudiato e costato appena 9 milioni.
La stagione 2013/14 in campionato è lo stesso trionfale, i punti alla fine saranno 102, ma in Europa le cose non vanno come sperato. Dopo essere retrocessi dai gironi di Champions League a causa di un gol di Sneijder sul campo disastrato del Galatasaray, arriva l’eliminazione in semifinale di Europa League contro il Benfica.
È il primo momento in cui la relazione tra Conte e la Juventus si incrina: alle accuse di aver sacrificato l’Europa per il record di punti in campionato, l’allenatore risponde il 5 maggio, dopo aver festeggiato lo Scudetto in casa contro l’Atalanta. È la celebre frase: «Quando ti siedi in un ristorante dove si pagano cento euro, non puoi pensare di pagare con dieci euro. È chiaro?», una frase che inseguirà Conte per gli anni a venire, quando la Juventus avrà, se non successo, almeno una miglior sorte nell’Europa che conta.
Ormai Conte lascia intravedere la stessa irrequietezza mostrata a Bari. A chi gli chiede se resta, risponde che non lo sa, che deve parlare coi dirigenti. «Dovremo parlare e fare valutazioni sotto tutti i punti di vista», dice, lasciando intendere che per continuare con il suo calcio c’è bisogno di innesti, di scuotere la squadra. Tutte le dichiarazioni di Conte in quelle settimane lasciano presagire più di quanto dicono: «Impossibile fare di più», «Bisogna capire se ci sono margini per migliorarci ancora, su questo nutro dei dubbi», «I cicli di vittoria durano tre anni».
Il piano sembra inclinato verso un addio difficile da capire, ma annunciato. Conte mette delle condizioni per il mercato, la struttura societaria, la comunicazione, tutte cose che in un apparato pachidermico come quello della Juventus è difficile che possano essere decise da un uomo solo.
Marotta e Agnelli provano a smussare gli angoli di Conte. Il direttore sportivo arriva a dire: «Sono convinto che Antonio anteporrà l'interesse della Juventus al suo». L’allenatore gela tutti quando in conferenza stampa gli chiedono se davvero vuole lasciare la squadra prima di vincere in Europa e lui risponde: «La Champions League l'ho vinta da calciatore e la vincerò da tecnico, ma oggi alla Juventus non è fattibile». Rapidamente le posizioni si ghiacciano. La società intima: o rinnovo o rescissione, Agnelli ricorda che sono tutti utili ma nessuno è indispensabile.
Il lieto fine sembra arrivare il giorno dopo l’ultima partita di campionato, il 19 maggio all’ora di cena, quando con un tweet ermetico la Juventus annuncia che Conte sarà l’allenatore per la stagione successiva.
https://twitter.com/juventusfc/status/468459802231074817
Sembra la naturale prosecuzione di una storia di successo, ma la realtà è più intricata. Conte rimane, ma non rinnova; la Juve se lo tiene, ma non avalla i cambiamenti radicali richiesti dall’allenatore. Conte capisce che non può vincere il campionato facendo 103 punti per far felici tutti, ma che tutti si aspettano qualcosa di ottimo in Europa. Quando Elkann, presente allo stadio per Real Madrid-Atletico Madrid, dice che sogna di vincere la Champions League, Conte gli risponde che l’importante è poi svegliarsi e vedere la realtà.
Il 31 maggio è già in ansia per la nuova Juventus: secondo i più informati l’allenatore vuole passare dal 3-5-2 al 4-3-3 e per farlo ha bisogno di molti innesti. I rumori di mercato sono tantissimi. Si passa da Marcelo e Lukaku a Ranocchia e Candreva, ogni obiettivo sembra credibile per saziare la fame di Conte. Noi ancora non lo sappiamo, ma il campanello d’allarme scatta a metà giugno quando nella classica lista di Conte rispunta il nome di Cuadrado. Non è ancora la Juventus cannibale sul mercato delle ultime stagioni e le trattative procedono a rilento.
Il 14 luglio 2014, al primo giorno di ritiro a Vinovo, l’unica faccia nuova è quella di Coman, arrivato a zero dalle giovanili del PSG. Complice il Mondiale appena chiuso in Brasile, è facile pensare che i colpi veri chiesti da Conte arriveranno più avanti. Il secondo giorno di ritiro, il 15 luglio, Conte si incontra in sede con i dirigenti.
“Prove di disgelo” le chiama la Gazzetta dello Sport sul proprio sito internet ipotizzando un vertice per parlare del rinnovo del contratto dell’allenatore, che scade a fine stagione, e di mercato, con l’acquisto di Iturbe che sembra a un passo. Invece l’allenatore alle 18 e 30 mette la sua firma sulla rescissione del contratto e due ore dopo si siede su uno sgabello e senza mai guardare dritto in camera comunica la decisione al mondo Juventus.
È un video che rimarrà impresso nella memoria dei tifosi, con Conte che sembra un ostaggio stranamente abbronzatissimo mentre abbandona una piazza che ne ha fatto un eroe. «Un fulmine a ciel sereno» lo definisce Buffon, e se lo è per lui, figuratevi per tutti gli altri.
I giornali rincorrono le cause, mentre nel malessere generale Allegri si insedia a Torino. Si parla di un Conte stanco, senza più motivazioni, ma anche e soprattutto di screzi di mercato, anche se l’entourage dell’allenatore smentisce: «Non parlate di problemi di mercato, non sono questi i motivi del divorzio. È semplicemente maturata la consapevolezza di un matrimonio consumato, succede anche nelle coppie di tutti i giorni».
Con il tecnico muto - pare che tra le clausole della rescissione ci sia anche il suo silenzio come prezzo - si fa strada la teoria secondo cui il nodo della discordia sia stato Juan Cuadrado. L’esterno della Fiorentina era così fortemente voluto da Conte per modificare l’assetto tattico della squadra che quando Marotta e Paratici hanno deciso di virare su altri profili, l’allenatore aveva capito che lui e la società non erano più in sintonia. Una rottura praticamente uguale a quella con il Bari, arrivata dopo aver accettato controvoglia di restare, usando un pretesto più o meno valido per liberarsi, come se l’impazienza fosse una ragione più forte della sicurezza della squadra più forte d’Italia, che infatti da lì in avanti avrebbe continuato il suo ciclo di vittorie ancora a lungo.
La Nazionale è vista come un fastidio
Meno di un mese dopo, Conte si siede sulla panchina della Nazionale. Firma un biennale dal 2014 al 2016, prendendo pieni poteri: non solo CT, ma anche coordinatore delle Nazionali giovanili. Lo stipendio viene pagato in parte dagli sponsor, allettati dall’aumento di valore degli azzurri con il miglior allenatore d’Italia in panchina.
Oggi ricordiamo il suo biennio con affetto, grazie a degli Europei memorabili, se non nel risultato finale, almeno nelle prestazioni, con una squadra di poco talento che nonostante gli infortuni ha battuto Belgio e Spagna, cedendo solo alla Germania ai rigori. Non ci ricordiamo però che in quei giorni Conte siede sulla panchina azzurra già dimissionario, dopo due anni passati a litigare con la Federazione, i club e i giornali.
Si pensa che alla guida dell’Italia Conte possa ammorbidirsi: meno lavoro quotidiano, assenza di mercato, riflettori meno presenti. Ma il CT da subito inizia ad accusare il rapporto conflittuale con tutti quelli che non vestono la maglia azzurra. A novembre 2014 se la prende con i club: «O si lavora alle mie condizioni o sono problemi. La Nazionale è vista come un fastidio». È già un lui e la squadra contro tutti: «Detto questo, abbiamo fatto cinque vittorie e un pareggio. Batteteci».
A febbraio del 2015 annulla uno stage pochi giorni prima del suo svolgimento. In un comunicato scrive: «Viste le risposte ricevute abbiamo scelto di non procedere con uno stage che rischiava di non essere utile né alla Nazionale né ai club».
L’anno dopo con gli Europei alle porte, Conte non solo vede la Lega storcere il naso per una richiesta di stage, ma anche negare l’anticipo della finale di Coppa Italia per garantire qualche giorno di riposo ai calciatori. Anche il secondo tentativo di stage viene abortito da Conte a pochi giorni dalla sua partenza.
Negli stessi giorni l’allenatore si allontana dalla Nazionale. Fuori pare ci sia la fila di squadre pronte a ingaggiarlo, con uno stipendio migliore di quello offerto dalla Federazione, che dal canto suo prova a farlo rinnovare, senza successo. Il 15 marzo 2016, a tre mesi dagli Europei, Tavecchio ufficializza l’addio di Conte alla fine del biennio. Sembra un funerale: «Antonio Conte mi ha comunicato che al termine del campionato europeo la sua esperienza finirà».
L’allenatore lancia parole d’amore alla Nazionale, ma ammette che essere CT non è una cosa per lui: «È un’esperienza fantastica ma bisogna capire dove si è felici. Io farei molta fatica a stare in garage».
Anche da dimissionario, praticamente seduto sulla panchina del Chelsea, Conte continua a lanciare bordate contro tutti. Assistiamo a una versione unica dell’allenatore: già scappato, ma con l’obiettivo ancora da centrare. Ogni occasione diventa un'occasione buona per fare polemica: «Ci sono situazioni in cui bisogna capire quando si è incudine e quando si è martello, in questo caso siamo una bella incudine. Ne prendiamo atto anche se un po' dispiace sicuramente».
Torna anche il Conte che parla in terza persona, che come disse un suo collega sente il rumore dei nemici: «Mi è dispiaciuto vedere in questi due anni che qualsiasi cosa veniva fatta per Antonio Conte o contro Antonio Conte e non per la Nazionale, dispiace perché la Nazionale è di tutti, non mia». Sui motivi del suo addio, cita il bisogno di lavorare, sporcarsi le mani, ma anche qui riesce a infilare una polemica: «Mi avevano promesso che avrei lavorato tantissimo, invece sono stato utilizzato poco. Avrei voluto essere più usato nel mio ruolo».
Il 4 aprile 2016 con le parole Conte appointedil Chelsea comunica al mondo quello che il mondo già sapeva. Va dato però atto all’allenatore di aver vissuto quei mesi come se non fosse già altrove, anzi sfruttando la sua panchina a orologeria per caricare ancora di più il gruppo. Il motto è “testa alta”: dopo l’assoluzione nel terzo grado di giudizio della vicenda di calcioscommesse che lo ha coinvolto dice: «Un'esperienza terribile che ho affrontato a testa alta». A testa alta devono andare anche i suoi giocatori, i 23 scelti per l’Europeo.
Lo spirito quasi autodistruttivo di Conte si appiccica bene alla squadra, che dopotutto tra infortuni e una rosa non eccezionale è l’underdog perfetto per l’allenatore. Da De Rossi a Giaccherini, da Buffon a Pellè sono tutti pronti a morire per qualcuno che di fatto li ha già lasciati.
Dopo la vittoria col Belgio si scaglia contro i detrattori, quando gli mettono davanti la Spagna si rivolge ai giornalisti: «Ditelo voi chi è favorito, siete bravi con le previsioni». Al 2-0 continua a rivolgersi ai suoi nemici immaginari: «Vorrei che mi ripeteste oggi la domanda sul bilancio dell'Europeo, vittoria o fallimento».
Poi arriva la sconfitta con la Germania, l’ultimo atto da CT. Pur al termine di un’esperienza in cui Conte è riuscito a farsi amare, a suo modo, da tutto il Paese, trova il modo di fare polemica: «Un arrivederci, non un addio. Ma ho dovuto fare la guerra da solo». Un addio che si consuma con il veleno, come se fosse impossibile lasciarsi bene con qualcuno.
La sua idea, dice, era continuare per un altro biennio, «Però di fronte ad alcune evidenze, di fronte ad alcuni fatti, purtroppo non ho potuto soprassedere, anche perché sinceramente non vedevo nessuno al mio fianco, compresi i giornalisti, sembrava dovessi fare sempre io la guerra, Conte contro tutti».
In qualche modo è lo stesso discorso fatto in tutte le altre circostanze. Là dove non può parlare di mercato, parla di mancata collaborazione, dove non può citare un progetto parla di immobilismo che non gli ha consentito di fare il suo lavoro come avrebbe voluto.
C'è un senso di irrequietezza profondo in questi addii di Conte, come se scappasse da qualcosa o qualcuno, ma forse c'è anche una forma di consapevolezza, l'idea che il suo rapporto con una squadra abbia bisogno di vivere in uno stato emotivo di perenne tensione, che però non può durare per sempre. Quando arriva il momento di normalizzare, formare un progetto costante più che sparato come una palla di cannone sugli avversari, Conte vacilla. Non si riconosce. Una scelta legittima, che però è difficile possa durare per sempre. Magari arriverà il club che calmerà Antonio Conte, ma non sarà facile.