Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Dario Vismara
A che punto è la notte vol.2
09 mag 2017
09 mag 2017
Appunti, considerazioni e analisi tattiche sulle quattro serie del secondo turno dei playoff NBA.
(di)
Dario Vismara
(foto)
Dark mode
(ON)

Non è semplicissimo trovare un filo comune a questo secondo turno di playoff NBA. Dopo sedici gare disputate, due serie sono già state chiuse mentre altre due sono in perfetta parità sul 2-2; solamente una partita è finita con uno scarto inferiore ai 10 punti (ma nella serie più scontata di tutte), a cui se ne aggiunge un’altra finita al supplementare (ma con scarto finale in doppia cifra); le vittorie in trasferta sono state sei, nemmeno pochissime per la verità, ma quattro portano la firma di Golden State e Cleveland, che ora osservano le avversarie dai televisori esattamente come noi. Insomma, questa post-season sembra ancora mancare di

. Ma i playoff NBA non sono una serie televisiva e lamentarsi dei singoli episodi ha poco senso: molto di più ne ha andare a capire come stanno evolvendo le serie,

, partendo da quelle ancora aperte alla vigilia di due gare-5 cruciali per i destini delle quattro squadre coinvolte.



 



Situazione attuale: 2-2

 

Più passano le partite, più la situazione sulla scacchiera di San Antonio e Houston si fa complicata: da una situazione di partenza “standard” in cui tutti i pezzi erano nelle loro posizioni naturali (Beverley su Parker, Green su Harden, Leonard su Ariza, Aldridge su Anderson e Lee su Capela), ci troviamo ora dopo quattro partite con una situazione di accoppiamenti completamente sottosopra, in cui però nessuno è ancora riuscito a conquistare il Re avversario.

 

Andiamo con ordine ruolo per ruolo: Parker si è infortunato nell’ultimo quarto di gara-2 ed è fuori per il resto dei playoff, lasciando il rookie Dejounte Murray nella spiacevole situazione di dover affrontare un Beverley assetato di sangue (anche se i minuti seri li gioca Patty Mills). Dopo una discreta figura in gara-3, Murray è stato divorato - non per colpe sue, ovvio - da Beverley in gara-4 e Popovich potrebbe già essere costretto a cambiare quintetto in vista di gara-5.

 

Harden ha dovuto affrontare la prevedibile staffetta Green-Leonard, ritrovandosi però molto più spesso accoppiato al secondo - cosa che ovviamente avrebbe preferito evitare, visto che deve sudare molto di più per guadagnarsi ogni canestro. Dopo le prime due partite in cui è sembrato in difficoltà dal punto di vista fisico per i postumi della distorsione alla caviglia subita contro gli Oklahoma City Thunder, il Barba è tornato a metterne 43 in gara-3 (in cui però è stato lasciato solo) e a orchestrare l’attacco in gara-4: inutile sottolineare quanto sia importante per i Rockets averlo al 100% per pensare di andare a vincere a San Antonio, dopo aver perso il fattore campo in gara-3.

 

Al contrario ovviamente Harden non può essere lasciato in difesa su Leonard, e “nasconderlo” è un imperativo categorico per Mike D’Antoni: molto spesso è stato lasciato nell’accoppiamento naturale su Green, ma non è stato raro vederlo lasciato in marcatura su un lungo come Lee o perfino Gasol, sfruttando il baricentro basso e il suo fisico massiccio, in grado di reggere in post senza essere spazzato via. Per Houston è quasi preferibile vederlo coinvolto in quelle situazioni piuttosto che sul perimetro lontano dalla palla (dove tende ancora ad addormentarsi) o a difendere nello spazio contro un pick and roll (dove la sua lentezza di piedi e la scarsa applicazione vengono esposte).

 

Le cose si fanno veramente interessanti quando si affronta la situazione delle ali, il vero punto nevralgico della serie: Trevor Ariza è in marcatura fissa su Leonard (e non potrebbe essere altrimenti, visto che i Rockets non hanno altri difensori da opporgli), ma in difesa viene preso da un lungo come Aldridge, su cui ha un vantaggio di velocità e di

che però gli Spurs sono ben felici di concedergli, visto che è un attaccante perimetrale molto meno pericoloso rispetto a Harden, Eric Gordon o Lou Williams. Le prestazioni di Ariza sono state l’ago della bilancia delle partite: 19.5 punti col 77% “reale” al tiro e il 54% da tre nelle due vittorie; 9.5 punti col 47.6% “reale” al tiro e il 31.3% da tre nelle sconfitte. Vincere quell’accoppiamento è fondamentale per scombinare il sistema difensivo di San Antonio.


 

 

Un’azione presa dalla pessima gara-3 di Houston: Ariza sul perimetro non riesce a battere Aldridge, Beverley sbaglia pur bucando il recupero di Gasol.


 

Di particolare interesse è anche la marcatura di Ryan Anderson, che ha fatto penare Aldridge in gara-1 con il suo pick and pop e da quella partita in poi si è ritrovato addosso Danny Green (con Leonard su Harden) proprio per prevenire quelle situazioni di gioco a due col Barba. Accoppiati in questo modo i Rockets non sono più riusciti a creare vantaggi, anche perché D’Antoni ci ha messo fin troppo tempo ad effettuare l’accorgimento che ha girato tatticamente gara-4, ovverosia schierare Anderson da centro per tirare fuori dal pitturato Pau Gasol, che ha potuto campeggiare tranquillamente per due partite rimanendo su Capela o Nene (fuori per il resto dei playoff dopo l’infortunio in gara-4). Houston non può permettersi di lasciare in campo Gasol o David Lee senza punirli continuamente: toglierli dal campo significa costringere San Antonio ad andare piccola con Aldridge da 5 (una strutturazione che Popovich in generale non gradisce), ma soprattutto spostare la serie su binari più offensivi che difensivi - uno scenario decisamente più congeniale ai Rockets, che nelle vittorie veleggiano a 103 possessi di media e nelle sconfitte vengono tenuti nella melma dei 95.

 

Popovich però ha trovato una contromossa insperata in Jonathon Simmons, fondamentale col suo mix di atletismo e imprevedibilità (che lo rende poco affidabile agli occhi della panchina degli Spurs) e in grado di avere impatto ogni volta che scende in campo: +8.2 di Net Rating (il migliore di squadra su 78 minuti) quando c’è e -10.5 quando non c’è (solo Kawhi Leonard prima di lui a -13.9). Un suo inserimento in quintetto al posto di Murray - con Leonard a portare palla in attesa dell’ingresso di Mills e Ginobili - potrebbe essere la mossa che fa ulteriormente girare la serie in questa infinita partita a scacchi che Popovich e D’Antoni stanno giocando ormai da una settimana - peraltro con tempi di reazione piuttosto lenti visto che gli aggiustamenti sono arrivati quasi tutti

le partite e non

le partite, che difatti sono state tutte decise con scarti in doppia cifra. Questa rimane, in ogni caso, la serie-cartello di questo secondo turno, e dalle due partite rimanenti è lecito aspettarsi un netto miglioramento delle due squadre, quantomeno a livello di equilibrio negli ultimi quarti.

 

 



Situazione attuale: 2-2

 

Al contrario di San Antonio e Houston, nella serie-cartello della Eastern Conference nessuno è ancora riuscito a vincere in trasferta - eppure di cose ne sono successe a pacchi. Nelle prime due gare Isaiah Thomas ha segnato 86 punti, ha perso un dente (e poi lo ha ri-perso in gara-3), ha continuato a fare i conti con il suo lutto personale sotto gli occhi fin troppo curiosi del mondo e ha realizzato la prestazione di questo secondo turno con 53 punti. Eppure, in tutto questo, il miglior giocatore in campo nella serie è sembrato essere John Wall, che sta giocando dei playoff assolutamente celestiali per efficacia e continuità di rendimento, tenendo in piedi sostanzialmente da solo gli interi Washington Wizards (-23.4 di Net Rating nei 41 minuti in cui non è stato in campo, solo Otto Porter meglio di lui).

 

Lo scontro tra Thomas e Wall per la corona di miglior point guard a Est (non ce ne voglia

) finora è stato il motivo principale per seguire la serie, che ovviamente ha vissuto sui binari fragili delle marcature difensive di entrambi. Thomas infatti non ha una chance di tenere Wall in uno-contro-uno (le poche volte che ci ha provato è stato scherzato in post basso), ma trovargli un posto dove nasconderlo contro il quintetto base degli Wizards non è semplicissimo. Finora è stato Otto Porter a poter sfruttare il mismatch (13.3 punti col 71% al tiro quando Thomas è in campo, 3.3 quanto non c’è), ma Brad Stevens è attentissimo a togliere Isaiah contro il quintetto base degli avversari e utilizzarlo soprattutto contro la second unit nel momento in cui entra Kelly Oubre, decisamente meno pericoloso di Porter.

 



 

Se si giocasse solamente cinque contro cinque senza sostituzioni, Washington avrebbe un enorme vantaggio nei confronti degli avversari, visto che il loro quintetto base ha un Net Rating di +45.2 in 69 minuti - frutto dei parziali sprint con cui hanno dominato i primi quarti delle prime tre gare e il clamoroso 26-0 che ha deciso la vittoria in gara-4. Il problema, quindi, è che non appena entra un membro della panchina le cose si fanno drammatiche per Scott Brooks: il secondo quintetto più utilizzato, quello con Oubre al posto di Porter, ha un Net Rating di -26.7, e con Bogdanovic al posto di Markieff Morris si precipita a -40.8.

 

Boston, dal canto suo, sta avendo enormi problemi a trovare il quinto titolare nel ruolo di ala forte che possa produrre qualcosa - o perlomeno che non sia dannoso. L’esperimento Gerald Green che ha girato la serie coi Bulls è morto dopo gara-1 (-25.8 il Net Rating con lui in campo in 43 minuti) e ancora peggio è andato Amir Johnson (-32.8), la scelta di Stevens nelle ultime partite. È lecito però attendersi un cambiamento in quintetto quando la

sta andando così bene? Terry Rozier in particolare con la sua energia sta avendo un impatto difficilmente pronosticabile a inizio playoff (+29.4 nelle quattro partite contro Washington) e ha anche finito in campo l’unica partita tirata di questa serie, vale a dire la divertente gara-2 vinta dai Celtics ai supplementari.

 

Lo scontro tra i lunghi è stato particolarmente interessante, più per quello che è successo all’altezza della linea da tre punti che per quanto realizzato in area. I lunghi di Washington, Morris e Gortat, fanno fatica a tenere Isaiah Thomas - un po’ perché è compito improbo per chiunque in questa stagione, ma anche perché arrivano stanchissimi nei finali di gara, dato che il loro unico cambio è Jason Smith. Sotto questo punto di vista è importante che Ian Mahinmi possa dare qualche minuto di sostanza quantomeno per dar loro fiato, se non proprio per avere un impatto difensivo nella serie chiudendo l’area, perché anche solo un corpo in più potrebbe fare la differenza in uscita da una panchina disastrosa.

 

Dall’altra parte, pur avendo a che fare con un mammasantissima come Wall, Al Horford sta facendo un buonissimo lavoro contro i pick and roll di Washington, anche perché il trio di esterni di Boston (Smart-Bradley-Crowder) sta mettendo enorme fisicità sulle due stelle di Washington - specialmente contro Beal che solo in gara-4 ha ritrovato precisione dall’arco chiudendo con 29 punti. Sulle sue percentuali si gioca la serie, perché se da Wall e Thomas ci si può attendere una produzione quantomeno pari, è lui a dover dimostrare di il terzo giocatore più forte della serie.

 





Risultato finale: 4-0

 

Poveri Utah Jazz: hanno vinto 51 partite in regular season nonostante un’epidemia di infortuni; hanno vinto una serie difficile espugnando per tre volte il campo degli L.A. Clippers, tornando a superare un turno ai playoff dopo sette stagioni; ci sono riusciti dovendo fare a meno di Rudy Gobert per tre partite contro L.A. e di George Hill nelle ultime tre; e hanno giocato una gara-3 come probabilmente meglio non avrebbero potuto, pescando il jolly della partita così-così degli avversari. Risultato finale: la serie contro i Golden State Warriors è comunque finita prima ancora di iniziare.

 

Molto semplicemente, ci vuole un attacco davvero di alto livello per iniziare a fare

alla difesa di Golden State — e Utah non ce l’ha, venendo limitata a fin troppi tiri da lontano dal fatto che in area vige la No Fly Zone diretta da Draymond Green. Per di più, i Jazz non hanno nemmeno quella point guard in grado di far lavorare sui blocchi Steph Curry ed esporre le sue mancanze - un piano partita su cui è fondamentale capitalizzare anche a costo di snaturare il proprio sistema offensivo, come hanno insegnato i Cavs nelle scorse Finals (e anche i Thunder il turno prima con Westbrook). Allo stesso modo, ci vuole una difesa in grado di cambiare sistematicamente per non rimanere indietro contro l’attacco di Golden State — e Utah non è a suo agio quando deve cambiare, oltre a non forzare abbastanza palle perse per vincere quella “partita nella partita” in cui gli Warriors sono vulnerabili.

 

In tutto questo, Green continua a tirare col 51% (su un numero di conclusioni maggiori, visto che Steve Kerr non è più in panchina a dirgli di smetterla…) e Kevin Durant può pagare la cauzione per tutti quanti quando le cose non girano come successo in gara-3. Proprio in quella partita gli Warriors hanno avuto la dimostrazione di quanto sia più forte la squadra di quest’anno rispetto a quella che un anno fa ha vinto la sciocchezza di 73 partite: oggi, quando gli Splash Brothers non sono in giornata e l’attacco non produce nulla, hanno come piano B o C (!!!) la possibilità di andare in isolamento da KD, inserire la monetina del “Pensaci tu” e ricevere in cambio canestri che li levano dalle secche — anche fosse necessario andare a tirare in faccia a un difensore d’élite come Rudy Gobert. E quando mai si è vista una cosa del genere?

 


38 punti con soli tre canestri al ferro, tutto il resto da tiri in sospensione: masterpiece.


 

E così, dopo il risultato di gara-4, i Golden State Warriors avanzano aspettando ancora una sfida che li possa mettere realmente in difficoltà e costringerli a scalare le marce veramente serie del loro potenziale. Visto il modo in cui hanno dominato la concorrenza finora (23 vittorie nelle ultime 24 partite, scarto medio di 16.5 punti a partita nei playoff, più minuti passati a +20 che sotto nel punteggio) viene da chiedersi quale sia, questa squadra in grado di tirar fuori il loro meglio. I Jazz purtroppo non lo sono stati, e sarà interessante scoprire se si daranno un’altra opportunità di diventarlo nei prossimi anni o se l’estate li priverà di membri fondamentali del roster come Gordon Hayward, George Hill e Joe Ingles.

 

 



Risultato finale: 4-0



Se, come è noto, l’onnipotenza logora chi non ce l’ha, pensate a com’è la vita di tutte le squadre della Eastern Conference che non possono contare su LeBron James. Ormai la storia si ripete in maniera ciclica: un roster formato da buoni/buonissimi/ottimi giocatori trova la giusta chimica di spogliatoio, raccoglie vittorie su vittorie in regular season, magari inizia anche i playoff con il fattore campo a favore e poi viene travolto da James e le sue squadre ritrovandosi a fare i conti con un’estate piena di delusione. È successo ai Chicago Bulls di Derrick Rose (che non hanno mai avuto la rivincita), è successo ai Boston Celtics dell’ultimo anno dei Big Three, è successo agli Indiana Pacers, agli Atlanta Hawks, e ora anche ai Toronto Raptors - che dopo il cappotto subito quest’anno non ha più nemmeno le due vittorie strappate lo scorso anno per pensare di poter colmare il gap in qualche modo.

 

Cleveland, o per meglio dire James, ha dato la netta impressione di giocare al gatto col topo fin dall’inizio della serie, trovando modi sempre più fantasiosi e sadici per ridicolizzare gli avversari:

,

come fosse un tiro libero,

,

in prima fila e infine facendo rimontare gli avversari da -16 solo per infilare ancora un po’ più a fondo il paletto che gli avevano piantato nel cuore. La verità è che a Cleveland è bastato accelerare due o tre volte a partita per creare multipli parziali in doppia cifra, e non ha nemmeno bisogno di impegnarsi sul serio in difesa per farlo, eseguendo con giudizio il semplice piano partita pensato per i Raptors.

 

Anche perché a Tyronn Lue è bastato fare i compiti una sola volta per portare a casa la serie, visto che — a differenza di quanto successo in altre serie — il sistema difensivo e lo schema delle marcature non è mai cambiato: raddoppi continui e aggressivi su Lowry e DeRozan (solo su DDR da gara-3 in poi, complice l’infortunio del primo) per far uscire la palla dalle loro mani e tutto il resto del roster sfidato al tiro, dicendo semplicemente “Mostrateci che sapete vincere almeno una partita così, altrimenti noi continuiamo a lasciarvi tiri e ad andare forte a rimbalzo” (85% di rimbalzi catturati sotto il proprio tabellone). Per la verità Toronto è anche riuscita a far girare decentemente il pallone — bastavano due passaggi, non proprio una scienza — per creare triple non contestate, e finché le hanno segnate è rimasta in partita (ad esempio nella rimonta di gara-4), ma ha avuto percentuali pessime in quelle

(mentre in quelle semi-contestate sono andati bene) e di fatto si è consegnata a Cleveland senza l’onore delle armi.


 

 

Chi ha fatto palo? (Scusa Fred VanVleet, non è nemmeno colpa tua)


 

I Cavs hanno esposto una lacuna dei Raptors che si era già vista lo scorso anno: quando il pallone è uscito dalle mani di “quei due”, nessuno degli altri è stato in grado di ricoprire quel ruolo da playmaker aggiunto ormai fondamentale nel basket contemporaneo — anche perché Patrick Patterson è stato l’ombra di se stesso per tutti i playoff. E Dwane Casey si è dimostrato ancora una volta un allenatore troppo lento a cambiare le sue idee, inserendo P.J. Tucker in quintetto solo in gara-4 e continuando a farsi massacrare dal perimetro pur di proteggere il pitturato. Sarebbe finita comunque con una vittoria dei Cavs, ma Casey non ha dato ai suoi nessun vantaggio nella serie.

 

Non riuscendo a punire continuamente il piano A di Cleveland, Toronto non è riuscita nemmeno a forzare il piano B o C, e i campioni in carica hanno potuto fare quello che hanno voluto — anche perché LeBron è

in questo momento, specialmente quando tira col 47% da tre. Per i Raptors si apre ora un’estate molto complicata, perché nessuna delle alternative possibili appare ideale: tenere intatto questo gruppo vuol dire strapagare per una squadra che ha dimostrato di non poter vincere; smontare il giocattolo vorrebbe dire auto-condannarsi a un periodo di grigiore che non fa piacere a nessuno; cercare una via di mezzo (ad esempio tenendo Lowry ma lasciando andare i vari Ibaka e Patterson) non li rende comunque più forti di quello che sono stati in questa stagione. Parleremo più approfonditamente della loro estate settimana prossima con la seconda puntata di

, ma intanto: buona fortuna Masai Ujiri.

 

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura