Negli ultimi anni si parla sempre di più del livello e dello stato dell’arte del campionato italiano. Anche quest’anno i temi del dibattito sono tanti, a cominciare dal VAR per arrivare alla valorizzazione dei giovani e alle tendenze tattiche. Abbiamo provato ad affrontare sette grandi e difficili questioni, se non per dare delle risposte univoche almeno per offrire dei punti di vista interessanti.
Speriamo vi piaccia, buona lettura!
1. Il VAR aumenta o diminuisce le polemiche?
Dario Saltari
L’introduzione dei VAR, dopo un’inevitabile fase di digestione iniziale, probabilmente porterà ad una diminuzione delle polemiche, ma non per i motivi che di solito si adducono, e cioè che porti effettivamente ad una riduzione degli errori arbitrali. In realtà, già considerarli errori significa nella maggior parte dei casi partire da una base logica erronea. La cosa da tenere bene a mente quando si parla dei VAR, infatti, è che non stiamo parlando di un computer che può calcolare la correttezza delle chiamate dell’arbitro (il calcio è uno sport con un sistema di falli poco codificato e le decisioni possono cambiare molto da arbitro a arbitro, senza essere per questo sbagliate), ma di due persone – due arbitri – che rivedono gli episodi più controversi in video.
I VAR, quindi, possono sbagliare o prendere decisioni su cui lo spettatore non è d’accordo tanto quanto l’arbitro (l’abbiamo già visto con l’intervento di Skriniar in Roma-Inter o il rigore su Galabinov in fuorigioco in Genoa-Juventus) e in realtà portano ad una reale miglioramento dell’occhio arbitrale in una frazione di episodi molto più limitata di quanto non si pensi: i gol segnati o i rigori assegnati in fuorigioco netto, i casi di mistaken identity (quando l’arbitro ammonisce o espelle il giocatore sbagliato) o quelli di violenza a palla lontana. In tutti gli altri casi, che per nostra sfortuna sono anche i più controversi (assegnazione o meno di un rigore, annullamento o meno di un gol per fallo, alcuni casi di espulsione diretta), i VAR non possono fare altro che proporre il proprio punto di vista soggettivo all’arbitro, che poi decide se accettarlo o meno.
La riduzione delle polemiche, secondo me, verrà come conseguenza del fatto che i VAR formano le proprie decisioni sulle stesse immagini televisive con cui l’opinione pubblica decide se fare polemica o meno, e sotto questa spada di Damocle gli arbitri tenderanno sempre di più ad abdicare al proprio potere decisionale in favore dei VAR e quindi, indirettamente, del pubblico. Anche se il campione statistico è ancora limitatissimo, è interessante notare che già in queste prime giornate tutte le volte in cui un mancato fischio è stato messo in discussione dai VAR, l’arbitro ha sempre deciso di cambiare la propria decisione. È paradossale, perché si spinge l’arbitro a fidarsi di più di un’immagine zoomata e rallentata che dei suoi occhi a pochi metri dall’azione, ma in questo modo si dà al pubblico l’illusione che un errore sia stato corretto.
Fabrizio Gabrielli
Uno degli aspetti più interessanti dell’introduzione del VAR è la sua sfaccettatura culturale: come nella trama di un romanzo sci-fi di Asimov dagli esiti ribaltati, la tecnologia, anziché trasformarsi in una minaccia potenzialmente distruttiva, viene investita del compito di restituire all’essere umano la serenità perduta. Rizzoli, che ha illustrato a ogni singolo uomo coinvolto nei processi decisionali degli arbitri in campo il funzionamento del VAR in un tour pedagogico prima dell’inizio del campionato, ha raccontato di aver riscontrato come «giocatori, allenatori, dirigenti e pubblico hanno accettato il cambio di alcune decisioni con grande serenità». È un concetto fondante della nuova Serie A, la serenità, o almeno uno spunto promozionale, perché potrebbe permette di gettare le basi di un nuovo inizio. A quella stessa pacatezza d’animo ha accennato anche Buffon, che anziché effetto l’ha individuata come causa in mancanza della quale il cambiamento è stato percepito come necessario: davvero ci voleva un’innovazione di questa portata per tornare a mettere, al centro del villaggio, il campanile della meritocrazia, della libertà di giudizio del valore di tutte le parti coinvolte?
Se ci aspettavamo grosse rivoluzioni, forse quattro giornate non sono sufficienti per darcene prova: alla fine i rigori assegnati sono stati esattamente quelli dell’anno scorso. Cambia però la percezione del pubblico che a goderne, o a subirli, non siano stati gli stessi attori che, tradizionalmente, in virtù di una legacy costruita negli anni più nell’immaginario che nella realtà, li hanno sempre subiti o ne hanno goduto. Questo, soprattutto in partenza (perché poi la bilancia cosmica finirà per tornare in equilibrio, inevitabilmente) è sembrato il successo più grande del VAR: lo sgretolamento, o l’idea che se ne stesse compiendo uno, dei falsi miti, dei pregiudizi, delle nomee.
Dario Saltari
Oltre all’impatto culturale sul pubblico, che ha già sviscerato Fabrizio, bisogna infine parlare dell’effetto che i VAR hanno e avranno sul gioco, aspetto in cui mi sembrano si annidino i problemi principali. La criticità maggiore mi sembra ci sia sui calci di rigore e sui falli in area che portano all’annullamento di un gol. L’immagine televisiva non è imparziale e neutra come sembra, e un giudizio su un episodio di questo tipo può cambiare radicalmente a seconda dell’inquadratura e della velocità a cui è portata l’immagine – lo slow motion, in particolare, tende a dare l’impressione che un contatto sia stato molto più duro di quanto non sia stato dal vivo. In questi casi, quindi, ci potrebbe essere il pericolo che l’arbitro venga confuso più che aiutato. Pensiamo anche ai casi di espulsione diretta per gomitata, che rivisti rallentati al replay possono sembrare molto più gravi di quanto non siano stati in realtà (c’è stato un episodio di questo tipo abbastanza controverso durante il Mondiale U-20, ad esempio).
Poi c’è il problema dei tempi di gioco. Al di là della semplice quantità dei minuti di recupero, che mi sembra più un pretesto degli allenatori e dei tifosi per contestare l’operato dell’arbitro, c’è più che altro la questione dell’interruzione del flusso di gioco, che a volte oltrepassa i confini della “naturalità” (cioè di quello a cui eravamo abituati finora) fermando l’azione per troppi minuti. Questa è una preoccupazione reale dell’IFAB (l’organo che decide sulle regole del gioco) che nelle sue linee guida, però, afferma chiaramente che l’accuratezza della revisione dei VAR è più importante della velocità a cui si arriva alla decisione finale. Soprattutto nelle partite più tese e combattute, i VAR rischiano quindi di spezzare il filo emotivo della partita. La soluzione di cui si parla più al momento, e cioè il tempo effettivo, magari solo per gli ultimi (10? 20?) minuti di partita, potrebbe peggiorare ulteriormente il problema, allungando il tempo di gioco indefinitamente e rendendo i finali di partita, che basano il loro pathos proprio sull’esaurimento del tempo, più noiosi di quanto non siano attualmente. Forse sarebbe meglio prendere spunto da altri sport e impostare un numero di chiamate della revisione dei VAR limitato per ogni allenatore (magari 2), come succede già nel tennis e nel football americano. In questo modo, si limiterebbe l’invadenza dei VAR nel flusso di gioco e si darebbe anche l’impressione agli allenatori, ai giocatori e ai tifosi di avere un’arma contro i presunti torti arbitrali.
2. Quale strategia di mercato pagherà di più: rivoluzione o conservazione?
Daniele Manusia
Anche se non sono amante delle opposizioni troppo nette vorrei difendere l’argomento della “conservazione” come possibile alternativa a quello della “rivoluzione” che mi sembra essere diventata la quotidianità di molte squadre non di prima fascia. Anzitutto perché tenere i propri giocatori migliori dovrebbe essere considerato come parte del mercato: sui giocatori in rosa è stato già fatto un lavoro tecnico, tattico e di ambientamento, che andrebbe calcolato come investimento per ogni nuovo acquisto (ovviamente non parlo di squadre che possono comprare Neymar). È un “costo” intangibile, difficile da misurare e comunque fuori dai bilanci, per questo si può tranquillamente non tenerne conto finché l’eventuale nuovo acquisto avrà deluso di brutto le aspettative: anche a quel punto, però, si parlerà del giocatore con cui sostituirlo, facendo ricominciare la giostra da capo. Non converrebbe aumentare gli investimenti quotidiani sulla squadra, su tutte quelle cose che possono migliorare le condizioni in cui vive e lavora, che possono ulteriormente professionalizzare il gruppo già a disposizione, piuttosto che su risorse esterne?
Dico questo perché, oltretutto, sono dell’idea che escludendo il 5% composto dai migliori giocatori del pianeta la differenza tecnica non sia così marcata da giustificare da sola un nuovo acquisto. Mi sembra che moltissimi scambi siano a somma zero dal punto di vista strettamente tecnico (tattico e atletico) e che poi la differenza tra le prestazioni di un giocatore o di un altro dipendano in gran parte dalle connessioni con i compagni (difficili da anticipare e comunque non molto considerate quando si parla di fanta-mercato), dall’adattabilità alle richieste dell’allenatore (e quindi dalla coordinazione tra allenatore e DS), dallo stato mentale e fisico del giocatore stesso (anche questo difficile da prevedere). Anziché lavorare su altre variabili con cui si può migliorare una squadra per un periodo anche lungo, si tenta sempre la strada più breve: l’acquisto che può svoltarti una stagione, o anche un paio, e che magari al momento della rivendita possa finanziarti altri acquisti con cui mandare avanti la giostra.
Un’alternativa sarebbe quella in cui un allenatore lavora sulle proprie idee con un gruppo di giocatori collaudati, tenendo, anche con dei sacrifici, i migliori, con la possibilità che magari i dirigenti si concentrino su tutti quegli altri dettagli che mandano avanti un club ogni giorno, senza la pressione di dover portare un nome che sazi la piazza ogni sei-dieci mesi. Ci sarà una ragione se certi giocatori, diciamo così, “normali” in alcune squadre diventano “qualcosa di più che normali”, mentre certi altri con un talento naturale evidente appassiscono come cactus in una cantina buia?
Quest’anno ci sono alcune squadre che si sono dette che difficilmente sarebbero riuscite ad alzare il proprio livello tecnico e che non per questo saranno meno competitive, anche se su differenti livelli. Il Napoli su tutte, ma anche l’Inter (pur cambiando allenatore il gioco e i giocatori sono in decisa continuità con alcuni princìpi dello scorso anno), il Chievo, il Bologna (mentre uscendo dall’Italia l’esempio principale è quello del Tottenham). Adesso, non sempre a questo tipo di mercato, o di non-mercato, si accompagnano dei cambiamenti strutturali o un tipo di gioco che richiede apprendimento lento e profondo, ma sono curioso di vedere se in alcuni casi non basterà semplicemente lasciare che i giocatori giochino per due anni di seguito insieme ad alzare le prestazioni della squadra.
Francesco Lisanti
If it ain’t broke, don’t fix it è sempre una valida strategia di mercato, d’altra parte mi rendo conto che la maggior parte dei direttori sportivi si trovi di fronte al problema opposto: ritrovare la credibilità per tornare a vincere dopo anni di sconfitte. È banale dirlo oggi, ma la nuova dirigenza milanista non avrebbe mai ricevuto lo stesso credito, dalle banche, dalla stampa e dai tifosi, se avesse insistito sul centrocampo Sosa-Poli-Kucka-Bertolacci per risalire la china del calcio mondiale.
Alle condizioni attuali, programmare il futuro di una società di calcio significa tenere in conto fattori come le dimensioni del mercato e la solidità del brand. Soltanto una società con un forte bacino economico e di tifosi alle spalle può permettersi di assorbire senza contraccolpi il fallimento sportivo, come ha fatto il Manchester United dopo Moyes e Van Gaal. In questo senso è più utile inquadrare la rivoluzione come una strategia comunicativa, piuttosto che una strategia di mercato: il Milan ha scelto (perché poteva permetterselo) di restituire da subito l’immagine di una grande società, per poterci costruire sopra con il tempo una grande squadra.
Presumo che il mercato aggressivo sottintendesse una precisa priorità, trascendente da valutazioni tecniche: recuperare il prima possibile quella fetta di pubblico che negli ultimi anni si era allontanata dal club. Il dato degli abbonamenti sottoscritti negli ultimi anni segnalava vertiginose vette di disaffezione, fino al paradosso per cui il Verona di quest’anno, costruito per salvarsi a forza di preghiere, ha registrato più abbonati del Milan della passata stagione. Impressionante, se pensiamo ai vent’anni di vittorie in Italia e in Europa, anni in cui la maggior parte dei tifosi di calcio contemporanei cresceva e formava la propria cultura calcistica.
Certo, per inseguire questa visione i dirigenti hanno dovuto accontentarsi di strappare ogni opportunità disponibile, lasciando a Montella una rosa non perfettamente funzionale, senza le istruzioni per l’assemblaggio. Eppure questo travolgente calciomercato, capace di sollevare l’asticella delle aspettative settimana dopo settimana come una serie tv ben costruita, ha portato 65mila persone allo stadio per un preliminare di Europa League contro il CSU Craiova, una partita che sotto una luce diversa sarebbe stata la metafora perfetta per descrivere la caduta dell’impero.
In un campionato che non smette di innovarsi sul piano della ricerca tattica, e che pure fatica a tenere il passo della competizione in termini di stadi pieni e appeal commerciale, ho apprezzato particolarmente la forza del messaggio: la rivoluzione è servita, venite già mangiati.