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La parola chiave è percorso, intervista a Zaynab Dosso
12 giu 2025
Con la velocista italiana abbiamo parlato di allenamenti, infortuni e radici.
(articolo)
16 min
(copertina)
IMAGO / Inpho Photography
(copertina) IMAGO / Inpho Photography
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Zaynab Dosso ha fatto della velocità la sua vita eppure è riuscita a rimettere le cose in ordine solo prendendosi una pausa. Dopo i Giochi Olimpici di Parigi e quella mancata finale nei 100 metri piani, Dosso infatti è recentemente tornata a gareggiare diventando nella stagione indoor la prima italiana a vincere un titolo internazionale nello sprint. Che poi nel suo caso sono due: l’oro all’Euroindoor e l'argento al Mondiale.

Nata nel 1999 in Costa d’Avorio e tesserata con le Fiamme Azzurre, Dosso è arrivata in Italia nel 2009 e ha conquistato la cittadinanza solo nel 2016. Nel frattempo all'atletica ha dato tutto, trasferendosi dall’Emilia Romagna a Roma per allenarsi con Giorgio Frinolli (allenatore con cui collabora dal 2021) e con l'amico Lorenzo Simonelli. Tutti insieme stanno preparando l’obiettivo dell’anno: i Mondiali di Tokyo 2025. Questa è l'intervista che ho realizzato con lei.

Come stai? Si è parlato di un problema fisico…

Sto bene, anche se è stata dura: sapevo che quest’anno avrei dovuto decidere se fare l’inizio di stagione e la fine della stagione. Questo perché, nel 2024, ho pagato la scelta di voler fare tutte le gare indoor. Ci sono stati i Mondiali di Staffette, gli Europei di Roma… sono arrivata abbastanza esausta. La nostra preparazione non inizia solo quando arrivi in gara a marzo, la mia era iniziata a settembre dell'anno prima. Sono arrivata quest’anno agli Europei indoor con un piccolo fastidio, dentro la mia testa mi dicevo: non è reale. Finché non sono uscita dalla pista non ho voluto neanche fare nessun controllo. Prima della partenza per i Mondiali in Cina ne ho fatto uno, ma ho scelto di sapere i risultati solo dopo. Tornata ho scoperto di avere una piccola lesione allo scafoide. Ho preso il tempo necessario per curarlo e sono tornata a correre tardi. Sarei anche potuta partire per le World Relays [che mettevano in palio i pass di staffetta per i Mondiali di Tokyo, nda], però avrei dovuto saltare degli allenamenti troppo importanti per questa parte di stagione: ci sono scelte da fare.

A tal proposito in uno degli ultimi post Instagram hai parlato di “ostacoli silenziosi e battaglie che non si vedono in pista”, ti riferivi a questo momento o c’è altro?

Sì, perché è stato un periodo davvero difficile, per una persona normale le cose vanno in modo diverso, da atleta cambiano, non puoi stare ferma. Quando sei infortunata è il periodo più difficile. Uscivo al mattino e andavo a fare terapia alle 10, poi allenamento, ovvero cyclette per 40 minuti e mezz’ora di corsa, più un’ora di piscina. Pranzavo e ricominciavo a fare tutto il ciclo fino alle cinque del pomeriggio. È stato complesso. Poi, magari, subentrano anche problemi personali. Non si tratta solo di un infortunio, è l’insieme della vita lavorativa e personale.

Hai mai pensato di concentrarti solo sulla stagione all'aperto? Quanto pesa la stagione indoor?

Pesa, perché inizi la preparazione a settembre per essere in forma a gennaio e devi mantenere questo status fino a marzo, è una cosa difficile. È sempre una prova, l'anno scorso abbiamo fatto tutto, a marzo avevo le gare con la staffetta, ero già in raduno full time per essere in forma di nuovo a maggio. Non ho mai avuto un momento di pausa, quest'anno abbiamo fatto una vera e propria programmazione. Poi, c'è stato l'infortunio che secondo me aiuterà ancora di più, perché l'obiettivo è arrivare a settembre [quando c’è il Mondiale, nda]. Da giugno in poi posso iniziare a gareggiare. Non ho mai pensato di rinunciare alla stagione indoor, nulla toglie all'altra se non sono troppe le gare. L'unica differenza tra le due distanze è la partenza, soprattutto se la sbagli, poi sono identiche, devi accelerare e arrivare all'arrivo. Ovviamente nei 60 acceleri molto meno, acceleri per 20 metri mentre nei 100 più acceleri, più arrivi veloce in fondo. Devi spingere dall’inizio alla fine.

Ci avviciniamo alla stagione all'aperto, quando farai il debutto e quali sono gli obiettivi?

Avrei dovuto fare il primo debutto il 25 maggio a Rabat, ma abbiamo pensato che è meglio focalizzarci su gare mirate e farne poche, invece di farle tutte senza un obiettivo finale. Il mio è andare in finale a settembre al Mondiale, poi lì, può succedere di tutto. Ho deciso di iniziare il più tardi possibile, farò le tappe di Diamond League a giugno a Oslo e Stoccolma [12 e 15, nda].

Che voto dai alla tua stagione indoor?

Per la persona autocritica che sono mi do un nove, ma so benissimo che dovrei dare un 10 perché più di così non potevo fare.

Che gare sono state l’Europeo e il Mondiale e che valore hanno per il tuo percorso?

La parola chiave è proprio percorso, lo interpreto così. Hanno un bel valore, so di essere maturata quest'anno ma il percorso non è iniziato ora, ma negli anni scorsi. Mi ricordo benissimo tre anni fa il mio primo Mondiale assoluto indoor… quando dicevo che volevo fare la finale ed essere tra le migliori, c’era qualcuno che quasi rideva. Il mio scopo era crescere, ho sempre pensato e lavorato in prospettiva futura. Essere arrivata all’Europeo e aver vinto quell’oro è stato importante: l’ho sognato, ho lavorato e ce l’ho fatta. Al Mondiale, sono arrivata un po’ stanca. In quei dieci giorni di ritorno dall'Europeo non sono riuscita nemmeno a godermi quanto fatto, perchè avevo questo problema al piede. Non ho fatto nulla, zero allenamento, acqua, piscina. Sono arrivata in Cina quasi insicura. Una cosa che ho odiato… ero nel mio flow, in un bel momento. Poi, ho fatto la batteria e mi sono resa conto che non stava andando così male. Il problema è che la mia resa non dipendeva solo da me stessa, che di solito è la cosa più bella: tra un turno e l’altro dipendevo dai fisioterapisti. Volevo fare il mio solito riposino, mangiare il burro d'arachidi, guardarmi la serie tv… e invece dovevo fare terapia e ghiaccio. È stato brutto dover essere gestita da qualcun altro, questo problema del piede mi ha tolto anche l'uso del piede stesso. In finale, a distanza di 20 minuti dalla semi, il piede mi pulsava, non riuscivo neanche a sentire gli appoggi. Alla fine sono partita, mi sono detta di andare a tutta pensando che era l’ultima gara, la velocità è questo: quando cedi un attimo anche di testa, è finita. Inizialmente c’è stato un po’ di rammarico, pensando di aver buttato un’occasione, ma in realtà non è così.

L'hai detto: la velocità è anche un fattore legato all'aspetto mentale, come gestisci questo aspetto? Parli con un mental coach?

Sì è importantissimo, l’allenamento in pista deve essere proporzionale al lavoro che fai su te stessa. Da due anni lavoro con uno psicologo, proprio perché secondo me non bisogna solo affrontare l'aspetto mentale in quanto atleta ma anche in quanto persona. È necessario “occuparsi” di quello che si affronta quotidianamente, le sfide della vita vengono prima di pensare al devo correre veloce, non si andrà mai veloce con dei blocchi.

Come hai gestito quelle persone, di cui parlavi prima, che quasi ridevano di te? Anche lì bisogna avere una certa forza mentale…

Ho sempre pensato, visto che sono scaramantica, di non dover mai dire i miei obiettivi alle persone, però non si tratta di questo. Quando sei un'atleta è il valore che tu pensi di avere che conta, quello che pensa la gente è veramente superficiale, è relativo. Il mio allenatore, da quando ero ragazzina e correvo forte, ha sempre pensato che potessi arrivare a certi livelli. Mi vedeva alle gare con le migliori, con Mujinga Kambundji e altre, mi diceva che mi vedeva a competere con loro. Io mi stranivo, gli dicevo: “Ma che dici, sono i miei idoli”. Poi, c’è stato un momento in cui anch'io ho iniziato a crederci, in cui ho capito che non potevo sprecare il mio talento. Mi sono trasferita a Roma, ho fatto di tutto per arrivare dove sono oggi e so dove posso arrivare ancora di più perché questo ovviamente non è l'obiettivo finale, è un momento di crescita.

Dopo i Giochi di Parigi e la mancata finale hai spiegato più volte di aver pensato di smettere, che è successo? Cosa scatta nella mente?

Eh cosa scatta… Per me Parigi era l’obiettivo dell’anno: andare sotto i 10 secondi per fare la finale, un po’ il sogno di ogni bambina. È come un tarlo, un pensiero fisso sempre presente che mi ha accompagnato per tutta la stagione. Dai Mondiali di staffetta, alle Bahamas, sono tornata con un piccolo problema e non ci ho dato peso. Ho gareggiato agli Europei di Roma e questo infortunio è diventato un grande problema fisico. Non gli ho dato ancora importanza, ho continuato a correrci sopra. Peccato che il rendimento non fosse lo stesso, era frustrante. Il tutto si è accavallato con un altro infortunio e a luglio mi sono ritrovata a capire che forse avrei dovuto ascoltare di più il mio corpo e fare delle rinunce. Il corpo era diventato come una macchina senza benzina, andavo al campo e non mi accendevo. Alle Olimpiadi ho fatto la gara peggiore degli ultimi tre anni, anche a livello mentale. Non ho fatto nulla per cambiare quello stato d’animo, non mi godevo più la competizione, non ero più io. Di solito vado in pista felice, consapevole di essere una persona fortunata, questa sensazione non la provavo più. Quando sono uscita dallo Stadio Olimpico di Parigi mi sono chiesta se forse le mie aspettative fossero più grandi di quello che potessi avere, ho iniziato a dubitare di me stessa. E questo è stato il motivo per cui ho iniziato a pensare… forse devo prendermi una pausa dall'atletica.

E infatti poi so che sei partita, sei andata in Costa D’Avorio, no?

Esatto. Quando sono uscita dallo stadio mi hanno chiamato i miei cugini e mia nonna. Mi hanno detto che ero stata bravissima, mentre sotto la pioggia piangevo. Dicevo e pensavo che fosse finita, che oltre le Olimpiadi non ci fosse altro. Loro mi hanno consolata, mi hanno detto di andare lì piuttosto che rinchiudermi in casa. Il giorno dopo essere tornata in Italia, sono partita per la Costa d'Avorio: sono arrivata e ho spento il telefono. Per me è un ambiente genuino, tutto si basa sulle cose vere, spesso qui ingigantiamo le cose… “Oddio, ho un'unghia rotta, la vita è finita”, mentre lì le cose essenziali sono quelle che contano. Un giorno stavo andando in un ristorante e ho negli occhi questa scena, ce l'ho impressa nel cuore. In mezzo alla strada c’erano persone che vendevano qualsiasi cosa, dalle patatine, ai libri di scuola, alle penne, gli pneumatici, di tutto. C’era una ragazzina che passava in mezzo alle macchine e si è fermata davanti alla nostra con in mano delle chips di platano, sono una fan del platano [una varietà di banana molto diffusa in Africa e in Sudamerica, nda]. Ha catturato la mia attenzione e l’ho guardata, non avrà avuto più di dieci anni. Ho pensato a me stessa alla sua età… probabilmente non va nemmeno a scuola perché non ne ha possibilità. E così mi sono detta: penso di avere una vita di merda, solo perché non sono riuscita a fare quello che volevo fare. Mi sono resa conto che prima di essere un’atleta sono una persona, devo vivere la mia vita e devo ricordarmi di essere una privilegiata. Ho visto persone come queste che non hanno la metà, un quarto di quello che ho io. Non sanno neanche cos'è sognare. Io, invece, ho tutto questo e non posso limitarmi a pensare che sia finita solo perché una gara è andata male.

Quindi, come si fa a non farsi schiacciare dal peso dei Cinque Cerchi? Alcuni dicono di vederla come una gara qualsiasi…

Sì, secondo me ci si autoconvince che sia una gara come le altre, ma dipende sempre da come ci arrivi. Se arrivi alla tua forma migliore, ti autoconvinci perché gli avversari sono gli stessi. Il contesto, ovviamente, è gigante, però sei lì per quell'obiettivo. Se arrivi con tanti dubbi, ovviamente, ti carichi di mille domande. Quando si è nella miglior condizione, non ne hai, vuoi solo divorare gli avversari e basta.

Che rapporto hai con la paura di fallire e di deludere le aspettative, anche nei confronti di te stessa?

Esatto, hai detto bene. Fino a poco tempo fa, le mie erano più grandi ma non mi fermavo mai a pensare. Ora vivo giorno per giorno. Quando affronti una gara, devi avere aspettative diverse rispetto ad altre: è un percorso, un processo di costruzione. Quest'anno ho lavorato molto su questo aspetto: per la prima gara che ho fatto a gennaio, l'aspettativa non poteva essere arrivare a fare 6.90. L’ideale è arrivare all’impegno e fare le cose di gara in gara. Nell'atletica è l’elemento più semplice perché non c'è una tattica, non c'è niente, devi correre e basta. È necessario liberarsi di questi macigni che noi stessi ci mettiamo.

E credo che in questo ti abbia aiutato anche il rapporto che hai sia con il tuo allenatore, Giorgio Frinolli, che con Simonelli, sembra che ci sia un clima sereno…

Sì è davvero così, è molto sereno. Lorenzo quest'anno non ha avuto una stagione felice per gli infortuni. Noi “dall’interno” lo abbiamo vissuto in prima persona. Per me agli Europei e ai Mondiali ha fatto un lavoro che nessuno potrà mai fare perché ha un talento gigantesco. Prima degli Europei è stato fermo quasi due mesi e ha messo le scarpe chiodate la settimana prima, eppure in testa si diceva che sarebbe andato lì per vincere. Io pensavo fosse pazzo e invece nel suo piccolo ha vinto... non si era mai allenato bene e nonostante tutto è arrivato in finale.

Lo ripeto: a volte il nostro limite e le nostre paure sono rappresentati da noi stessi. Lorenzo non ha mai avuto paura e non ha mai limitato se stesso, è andato lì e si è divertito. Si potrebbe dire che non ha vinto medaglie, ma la medaglia più grande era già partecipare, tornando da tre infortuni di fila poteva temere di farsi male, ha scacciato via tutto. È un grande punto di riferimento, anche se più piccolo. A volte, bisogna essere spensierati, fare le cose un po' da pazzi. Lui dice sempre che è pazzo… e sì, serve avere questa mentalità. Per quanto riguarda il mio coach, Giorgio è un grande, solo vedendo un nostro allenamento si può capire perché dico così. In pista o in palestra si sentono sempre le sue urla di incitamento e quando non sono tante vuol dire che i test sono un po' sballati, quasi mosci. È una persona fantastica e la cosa che mi piace del nostro rapporto è che diciamo sempre di essere sulla stessa lunghezza d'onda. Se facciamo un allenamento non lo facciamo perché è scritto sul programma, ma perché dobbiamo interpretarlo, c'è sempre una comunicazione... questa è una cosa che mi piace.

Come sei arrivata all’atletica, so che sei appassionata di basket, cosa è scattato con la corsa?

In realtà niente [ride]. Se fossi stata alta.. sì, sicuramente avrei fatto basket, ora mi piace solo guardarlo. In un'altra vita, se avessi potuto scegliere, avrei iniziato con la pallacanestro. In ogni caso, del mio sport amo la sensazione di potermi sempre migliorare perché non è mai abbastanza. Qualsiasi cosa faccia, che tu vinca un Europeo, un Mondiale o i Giochi Olimpici... penso a Marcell Jacobs. Devi sempre migliorarti perché l'anno dopo non sei mai migliore, ma neanche la stagione o la gara dopo, questo è l'aspetto che mi affascina, puoi sempre fare qualcosa di più.

Non studi all'Università e sei concentrata solo sullo sport: visto che in Italia purtroppo abbiamo il problema che non c’è professionismo, non è qualcosa di frustrante? Non ti sei pentita di non aver studiato?

No, non mi sono mai pentita perché so quello che voglio fare dopo e so anche che lo studio è una cosa che posso intraprendere adesso o l'anno prossimo, in qualsiasi momento. Per il professionismo, noi sappiamo che essere atleti non garantisce tutele, è qualcosa di momentaneo, bisogna pensare sempre al futuro, L'unica cosa è che si ha sempre è il pensiero di cosa accadrà dopo.

Tempo fa dicevi che non facendo esultanze particolare gli sponsor non ti chiamavano. È cambiato qualcosa?

Faccio un esempio: penso a Sha'carri Richardson, a Parigi non ha vinto l’oro, cosa che ha fatto Julian Alfred conquistando due medaglie. Julian è meno “scenica” e appare meno di Sha’carrie o come Elaine Thompson, anche lei è meno visibile perché non fa “show”. L'atletica, secondo me, sta andando verso la direzione del fare un po' i pagliacci, una cosa che a me dà fastidio. Sembra che il focus non sia solo sulla prestazione, ma anche sul farsi vedere. Rispetto ad altri sport in cui viene più naturale, perché sono mondi un po' più diversi, un po' più scenici. Il nostro non è proprio così. Spesso ci si ridicolizza solo per farsi vedere.

Sembri molto concentrata, ma prima dicevi ci vuole un aspetto un po' pazzo. C'è un aspetto più estroso di te che non viene fuori?

Sì, sicuramente, è quello che piano piano sto provando a far emergere. In realtà, sono sempre stata una molto sulle nuvole, pazzerella, però nell'atletica ho avuto sempre la volontà di stare sul pezzo, concentrata. Sto ritrovando quel lato... perché: enjoy just enjoy.

Hai ottenuto dopo anni la cittadinanza, come hai vissuto quegli anni?

Quando ero ragazzina non ho mai capito questa cosa, vincevo le gare, vincevo magari i campionati italiani, poi però per fare i Mondiali giovanili portavano la seconda o la terza, e io mi chiedevo: perché? Mi veniva solo detto che c'era una procedura. Mi limitavo al chiedere perché, non ascoltavo nemmeno cosa c’era dietro, per me era strano vincere le gare, fare il tempo, ma non rappresentare il Paese in cui sono cresciuta.

Essere italiana è motivo d’orgoglio, ma come dicevi prima non dimentichi le tue origini, cosa ti porti dietro da quella cultura?

Per moltissimi anni non sono tornata, l’ho fatto quando ero più grande, quando ero più consapevole di quello che c’è lì e qui. La Costa D’Avorio è un posto ancora arretrato, per cui tu capisci, con consapevolezza, quello che hai, vedi ciò per cui essere grato. Mia madre è qui e vive per tornare in Africa. Io non capivo, dicevo, ma perché? Abbiamo tutto qui, hai tutto quello che vuoi e lei diceva: "no, io voglio andare lì perché c'è la semplicità e la mia famiglia. La gente assapora le piccole cose". Io ero lì con i miei nonni che non vedevo da una vita, ma era come se non fossi mai andata via, come se il tempo si fosse fermato, emozioni che non so come descrivere sinceramente. Se mi chiedessero di gareggiare per l’Italia o la Costa D’Avorio direi l’Italia tutta la vita, perché è il Paese in cui ho studiato l'inno per la prima volta. Quando lo sento è la cosa che mi emoziona di più, non che sentire quello della Corsa d'Avorio non lo faccia, però mi rappresenta di più, è quello che ho imparato alle elementari. È stata una delle prime cose che ho appreso qui in Italia. Recentemente, abbiamo fatto un incontro con il Presidente Sergio Mattarella: ho cantato l'inno e ho sentito una sorta di spirito di appartenenza. Faccio parte di questo, che è ciò che mi rappresenta.

Che fragilità hai?

Sono una persona molto sensibile, cosa che intacca anche la mia concentrazione. Ai Mondiali indoor, c'era questa ragazza che due anni prima aveva vinto l'argento sui 60 e quest'anno non è riuscita a qualificarsi. Durante il riscaldamento, si è messa in un angolo, lontano. L’ho vista e per un momento mi si è spezzato il cuore perché, parlando sempre di futuro, un giorno sei qui e domani non sai in che condizioni sarai. Lei due anni prima era all’apice e due anni dopo in un angolo a piangere. Mi sono fermata un attimo a riflettere, sono tornata nel mio mondo in cui posso essere fragile.

E nel futuro cosa vedi, oltre all’atletica?

Da bambina, ancora prima di iniziare con lo sport, facevo sempre le treccine ai miei amici, a chiunque. Il mio obiettivo sarebbe avere un salone tutto mio di parrucchieria afro. Magari più di uno.

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La parola chiave è percorso, intervista a Zaynab Dosso