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È arrivato Zach LaVine
01 apr 2021
01 apr 2021
La guardia dei Chicago Bulls sta giocando una stagione sorprendente.
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Il 22 novembre 2019 Chicago aveva iniziato malissimo una partita casalinga contro i Miami Heat. Dopo neanche quattro minuti, per mandare un messaggio ai suoi giocatori e per fare la parte dell’allenatore col pugno di ferro, l’allora head coach Jim Boylen richiamò in panchina Zach LaVine, che la prese malissimo. «LaVine ha subìto il parziale di 13-0 da solo, a quanto pare» disse il giocatore stesso a fine gara. La sera dopo accadde questo.

Il massimo in carriera di LaVine con 49 punti con 13 triple segnate. Alcune non hanno senso, come quella nel finale, una versione povera di Reggie Miller contro i Knicks.

Il neo-GM dei Bulls Arturas Karnisovas ha impiegato quattro mesi per convincere i Reinsdorf (il figlio dello storico proprietario Jerry, Michael, è il COO dei Bulls) a sostituire Boylen e a fine settembre è stato ufficializzato l’arrivo di Billy Donovan, strappato a Oklahoma City grazie ad un quadriennale che i Thunder non erano pronti a offrirgli. Commentando la vicenda su TNT, Charles Barkley ha garantito che «solo due lavori al mondo sono peggio» dell’head coach dei Bulls: «il capitano del Titanic e il mio personal trainer».

Effettivamente Donovan ha ereditato un roster disfunzionale, che nelle due precedenti stagioni aveva accumulato un record complessivo di 44 vittorie a fronte di 103 sconfitte. Nonostante ciò, anziché premere il bottone rosso Karnisovas ha usato i guanti, prendendo decisioni significative dopo una quarantina di partite utili a valutare certi giocatori. I Bulls si sono presentati alla trade deadline come compratori: ceduti giocatori marginali e rimasugli della gestione precedente (Otto Porter, Chandler Hutchinson, Luke Kornet, Daniel Gafford), un giovane (Wendell Carter Jr.) e due prime scelte al Draft sono arrivati un All-Star come Nikola Vucevic e veterani più pronti nell’immediato (Al-Farouq Aminu e Daniel Theis).

Nessuno si è detto più felice di queste mosse di Zach LaVine, il primo All-Star dei Bulls dai tempi di Jimmy Butler nel 2016-17. Quando ha ricevuto la notizia di Vucevic, LaVine si è messo a urlare di gioia in casa, e davanti ai microfoni era così eccitato da definire Daniel Theis «uno che fa la differenza». Dopo pochi mesi sotto la guida di Donovan, l’ex Minnesota Timberwolves sembra aver messo assieme tutti i pezzettini del puzzle. Come ha detto PJ Tucker dopo essersi visto sopraffare nei minuti finali di un Chicago-Houston non troppo tempo fa: LaVine «è arrivato».

Flight 8 ha spiccato il volo

La stagione 2020-21 di LaVine non è solo efficiente, ma è efficiente a livelli storici. Se mantenesse le medie attuali di 27.5 punti, 5 rimbalzi e 4.8 assist col 51.3% dal campo e il 42.8% dall’arco, porterebbe a termine una stagione che finora è riuscita solo a Larry Bird e Steph Curry nella storia della NBA. Il suo nome spicca sia per volume di tiri tentati che per percentuale di realizzazione: dei 93 giocatori che tentano almeno cinque triple a sera, per esempio, LaVine è il settimo più preciso.

Un’altra statistica che rende l’idea di che stagione sta vivendo LaVine al tiro: segna 1.19 punti per possesso quando tira in stepback, il 4° dato più alto della lega.

Non è sempre andata così con Zach LaVine, anzi: nei primi anni di carriera è spesso stato etichettato come un divoratore di possessi, un sesto uomo con gigantesco atletismo, punti nelle mani e poco altro. Aggiungendo mattoncino dopo mattoncino e cercando di cambiare la notevole lista di brutte abitudini accumulate, invece, LaVine è diventato un realizzatore completo, con una selezione di tiro più saggia. Prima della partita contro i Sacramento Kings di fine febbraio, coach Luke Walton ha detto che LaVine, vista l’efficienza con cui sta segnando dall’arco, dalla media distanza e al ferro, è uno dei principali candidati al premio di Most Improved Player of the Year. Dimostrando ben poca pietà, pochi minuti dopo LaVine ha segnato 38 punti in qualunque modo.

A oggi LaVine ha giocato solo due partite con Vucevic (saltando peraltro la partita di stanotte a Phoenix per una caviglia malconcia), quindi è troppo presto per parlare estensivamente del fit tra i due, ma i loro skillset offensivi dovrebbero amalgamarsi alla perfezione.

L’incontrarsi in questo preciso istante delle carriere di Donovan e LaVine è piuttosto singolare. L’head coach non ha mai avuto una stagione perdente: in un lustro a Oklahoma City ha vinto quasi il 60% delle partite di regular season. Per LaVine vale il discorso opposto, dato che non è mai arrivato ai playoff e ha vinto solo 123 di 395 partite giocate in carriera. Anche per questo Donovan è riuscito a convincere la sua stella che less is more: dopo tre anni in cui lo Usage di LaVine continuava ad aumentare, in questa stagione si è assestato attorno al 30%, poco più di De’Aaron Fox e poco meno di Steph Curry. «Penso che per LaVine si tratti di un processo di apprendimento. Siccome è così talentuoso, tante volte pensava “datemi la palla e proverò a vincere la partita”. Ha capito che così non funziona» ha detto Donovan.

L’attacco di Chicago non è dogmatico. In off-season LaVine lo definì «free-flowing», che punta cioè sulle letture e sull’improvvisazione dei giocatori per costruire il miglior tiro possibile. A OKC il mantra di Donovan era «ogni tiro aperto è un buon tiro», cercando di minimizzare la circolazione di palla alla ricerca di conclusioni veloci, e anche a causa della presenza di un catalizzatore di palloni come Westbrook i Thunder finirono ultimi per passaggi a partita per quattro stagioni consecutive. I Bulls quest’anno sono nella media NBA per passaggi a partita, ma in Top 10 per assist, assist potenziali e secondari.

L’approccio di Donovan dà molte libertà ai propri giocatori, purché facciano tre cose, imprescindibili per l’ex allenatore di University of Florida: correre in transizione, non stare fermi in attacco, tagliare al ferro. L’esplosività di LaVine gli permette di individuare cosa concede la difesa e approfittarne in una frazione di secondo.

Tre occasioni in cui LaVine usa il taglio backdoor per segnare o servire un compagno libero.

Sta andando moltissimo al ferro (6.8 tentativi a partita) e nell’ultimo metro di campo realizza col 66.4%, una percentuale simile a quella di bulldozer come Ben Simmons o Zion Williamson. È sempre sotto controllo, ha migliorato il lavoro dei piedi ed è sempre più raro vederlo abbassare la testa e schiantarsi contro un muro di mattoni. «Dal primo giorno che sono qui LaVine ha voluto fare tutto ciò che è necessario per vincere. Vuole che gli si dica cosa deve fare per raggiungere un livello superiore perché fino a oggi non ha vinto molto» sostiene Donovan.

In passato, la discrepanza tra i numeri che LaVine metteva a referto e il suo reale impatto nel vincere partite era enorme. Oggi si sta sempre più riducendo e in molti modi LaVine migliora chi gli sta attorno. Il più evidente è la qualità con cui fa uscire la palla dai raddoppi: tantissime squadre preferiscono togliere la palla dalle sue mani, costringendo il resto dei Bulls a prendere decisioni 4-contro-3, dato anche un talento offensivo medio non proprio esaltante specialmente nel frontcourt pre-Vucevic. La presenza di LaVine ha comunque permesso di sbloccare le qualità di altri giocatori: Thaddeus Young, per esempio, si è guadagnato il soprannome di “Thadgic Johnson” per le giocate che riesce a fare in queste situazioni, viaggiando alla ragguardevole cifra di 8.2 assist per 100 possessi.

Non è un caso se i Bulls sono molto produttivi (+7.5 di NetRtg) nei 726 minuti in cui LaVine e Young hanno giocato assieme, ma molto negativi (-9.5 in 852 minuti) quando LaVine gioca senza Young. Anche fuori dal campo c’è stima reciproca tra i due, che avevano giocato assieme già a Minnesota.

Nonostante le percentuali al tiro di tutti i giocatori di rotazione siano migliorate, i Bulls rimangono una squadra senza troppo talento a cui a volte si spegne la luce. In una recente partita contro San Antonio hanno buttato alle ortiche per la seconda volta in stagione un vantaggio di più di 20 punti con un ultimo quarto perso 39-19. Chicago è 27ª per punti concessi nel quarto periodo e l’attacco ristagna, rimanendo spesso a guardare LaVine, il cui Usage è il più alto della lega nei quarti periodi. Solo Damian Lillard segna più punti di LaVine nel clutch time, che però torna percentualmente umano in questi frangenti, come si vede da questo grafico di Owen Phillips.

Un difensore nella media?

Fino a poco tempo fa Zach LaVine era considerato - con buone motivazioni - uno dei peggiori difensori della lega. Impiegava un’eternità per aggirare il meno solido dei blocchi, si perdeva nella più semplice rotazione difensiva, sui cambi raramente comunicava con i compagni. In transizione difensiva era svogliato e quel suo straordinario atletismo si vedeva solo nella metà campo offensiva. Non è stato aiutato da svariati fattori: le stesse, minime attenzioni che alcuni compagni dedicavano alla fase difensiva (ve lo ricordate Jabari Parker in maglia Bulls?) e sistemi difensivi esigenti, come quello di Jim Boylen basato sui blitz sul portatore di palla avversario.

Attraverso un’intervista che Paul, il padre di Zach, concesse a Darnell Mayberry di The Athletic, si scoprì che LaVine «in difesa al liceo non giocava nemmeno. Zach era tutto per la sua squadra liceale, non avevano mai vinto nulla prima che arrivasse lui. Gli davano la palla in mano in attacco e gli facevano marcare il giocatore più scarso in difesa». L’unico anno a UCLA non è servito granché: «Scelse quella università perché il coach, Ben Howland, lo avrebbe fatto migliorare molto in difesa. Ma venne licenziato», ha ricordato Paul LaVine.

Neanche quest’anno i Bulls sono la difesa più solida della lega, piazzandosi al 20° posto per rating difensivo. E Markkanen-Vucevic contro San Antonio è sembrato un frountcourt perfetto per concedere un migliaio di punti a partita in vernice. In offseason hanno lasciato partire i due migliori difensori perimetrali che avevano, Kris Dunn e Shaquille Harrison. Ma - questa sì che è una notizia - LaVine ha fatto piccoli passi verso il diventare vagamente accettabile nella propria metà campo. «Se continuo a migliorare in difesa, potrei diventare un candidato per i quintetti All-Defensive» ha detto LaVine poche settimane fa. Magari no, visto che mancano ancora diverse nozioni base, come capire meglio su quali blocchi passare sotto o meno. La strada però è quella giusta.

Un video che raccoglie ciò che LaVine fa bene, ciò che fa meglio rispetto al passato e ciò che ancora sbaglia in difesa. «Sono stanco di sentirmi dire che difendo da schifo», disse sempre LaVine nel 2019. Finalmente questa frase sta assumendo i contorni della verità.

Il futuro è adesso

Che Chicago si fosse stancata di aspettare il lento sviluppo dei suoi giovani era chiaro già dalla sfida del 14 marzo contro Toronto, quando Donovan ha inserito Tomas Satoransky e Thaddeus Young in quintetto al posto di Coby White e Wendell Carter Jr. LaVine e White non hanno mai dato prova di essere un fit perfetto, mentre WCJ è ancora estremamente grezzo e non ha mai convinto la nuova dirigenza Bulls, anche per via di numerosi infortuni.

Pochi giorni dopo, i movimenti alla deadline hanno messo Chicago nella prospettiva di vincere adesso. Vucevic è il miglior compagno che LaVine abbia mai avuto ai Bulls, un lungo determinante in regular season che gli toglierà il peso di diverse responsabilità in attacco. In un ecosistema più funzionale, LaVine potrebbe essere ancora più devastante.

Nelle ultime otto partite, Chicago è +4.2 per 100 possessi con LaVine in campo e -12.1 senza, invertendo i preoccupanti dati On/Off dei suoi primi tre anni ai Bulls. Anche per questo la narrativa del “Zach LaVine giocatore perdente” che è andata per la maggiore in questi anni si sta rivelando sempre meno aderente alla realtà. LaVine ha evidentemente dei difetti (è il quinto giocatore NBA per palloni persi, per dirne un’altra), ma solo la sua stagione surreale è riuscita a elevare Chicago dai bassifondi della lega.

Le scelte al primo giro cedute a Orlando per Vucevic (entrambe protette 1-4) obbligano i Bulls ad essere competitivi almeno nel prossimo biennio. Il contratto di LaVine scade al termine della prossima stagione e difficilmente farà sconti in sede di rinnovo, visto che se in qualche modo entrasse in uno dei quintetti All-NBA diventerebbe automaticamente eleggibile per il Super Max da 235 milioni di dollari in cinque anni da partire dal 2022-23.

Un’altra situazione delicata è quella di Lauri Markkanen, che voleva rinnovare ma non ha raggiunto un accordo soddisfacente per entrambe le partite e sarà quindi restricted free agent in estate. I contratti in scadenza di Theis, Valentine, Temple e Felicio libereranno circa $21M, mentre Thaddeus Young e Satoransky hanno pochi milioni garantiti per la prossima stagione. Il contratto di Vucevic non è impegnativo (24 e 22 milioni nelle prossime due stagioni), la player option da $10M sull’ultimo anno di Aminu lo rende un perfetto salario in uscita. Insomma, Chicago avrà margine di manovra e Karnisovas potrà migliorare ulteriormente il roster. Sembra, per esempio, che Lonzo Ball sia stato trattato alla deadline, sottolineando come il front office stia cercando un upgrade nel ruolo di point guard con una certa urgenza.

Sebbene il quarto posto a Est disti quattro misere partite, non sarà facile evitare il play-in tournament. Il calendario rimanente non è esattamente agevole e i Bulls hanno vinto 5 partite su 23 contro avversari sopra il 50% di vittorie (peggio fanno solo carrarmati costruiti per il tanking come Orlando, Minnesota e Houston). Niente che LaVine non abbia già visto: nella sua stagione più vincente in NBA - la 2016/17 a Minnesota - vinse 31 partite su 82, quando ne giocò solo 47 a causa di un infortunio al ginocchio. Donovan è sicuro che sia merito suo, della sua etica del lavoro, se è tornato mostruoso fisicamente e iper-efficiente in attacco. Per usare le parole di LaVine: «Non puoi rimanere lo stesso giocatore di prima. Non puoi pensare “oh povero me”. Fin da quando io e mio padre restavamo sotto la pioggia a tirare 500 volte coi guanti da giardino, è sempre una lotta. Ed è divertente».

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