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Yuto non è una mascotte
04 gen 2018
04 gen 2018
Non tutti prendono sul serio il terzino dell'Inter, ma in Giappone è un'istituzione e la sua personalità è lontana dagli stereotipi.
(articolo)
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Era assordante il coro: “Yūto! Yūto!”, quando è andato sul dischetto a battere il rigore decisivo, il 12 dicembre, contro il Pordenone in Coppa Italia.

Si invocava la mascotte per battere la squadra-simpatia. Come se avessero lo stesso segno e quindi solo lui potesse neutralizzarla. Il piccolo club che aveva spaventato l'Inter a San Siro, da una parte, il piccolo giapponese volenteroso dall'altra. Yūto Nagatomo, uno che dice: «In questo ambiente difficile in cui solo un piccolo numero di persone riescono ad emergere, io sono orgoglioso di esserci con il mio duro lavoro».

Nagatomo è quello che a inizio stagione pare solo un rincalzo e poi trova stima e attenzione. Quest'anno aveva iniziato da titolare e anche se da novembre Santon ha preso il suo posto in campionato e nel girone d'andata ha avuto comunque un minutaggio superiore a gente come Brozović e João Mário, oltre ai due terzini acquistati in estate: Dalbert e Joao Cancelo. La prossima estate, ai Mondiali di Russia, sarà una colonna della nazionale giapponese, con cui ha collezionato 101 presenze (3 gol e il numero incredibile di 24 assist). A maggio taglierà il nastro dei dieci anni dall'esordio.

Arrivò all'Inter dopo sei mesi a Cesena, nel gennaio 2011. Aveva giocato appena 16 partite in Europa. Scambio di prestiti: in Romagna andava il talento Santon, a Milano arrivava il primo giapponese nella storia della società.

Un accordo chiuso nelle ultime ore del mercato invernale, con il contratto che arrivò in Lega in tempo grazie alle due ruote di un pony-express.

Si rivelerà un rapporto intenso sul piano emotivo, da entrambe le parti. Molti tifosi gli vorranno bene pur non considerandolo all'altezza. Nagatomo sceglierà il prato dello stadio Meazza per fare la proposta di matrimonio alla fidanzata.

Il rigore contro il Pordenone (foto di Emilio Andreoli / Stringer).

È nato il 12 settembre 1986 a Saijō, centomila abitanti nella prefettura di Ehime, ai piedi del monte Ishizuchi, il più alto del Giappone occidentale. I suoi genitori si separano e lui cresce con la madre, una sorella e un fratello, in una situazione non particolarmente agevole.

Se non avesse fatto il calciatore, dice che sarebbe stato un ciclista su pista. Gli ha trasmesso la passione suo nonno, professionista della specialità keirin (grosso modo: andare per due chilometri dietro a una moto che gradualmente accelera).

Si laurea in Scienze Politiche ed Economiche, nel 2009, all'Università Meiji. In quei quattro anni conosce “persone meravigliose” e apprezza la cura del piano umano che trova nell'ambiente accademico. Gioca nella squadra universitaria fino al 2007. Poi firma con l'FC Tokyo e arriva nella J1 League.

Oggi si interessa e legge di psicologia e filosofia. Quando deve sfogarsi per le critiche ricevute dice frasi tipo: «Non c’è morale, non c’è rispetto per la mia persona».

2010, in amichevole con la Nazionale (foto di Kazuhiro Nogi / Getty Images).

Ha percorso e continua a percorrere una strada in salita.

È piccolo (170 cm), in un calcio fisicamente sempre più massiccio. Dall'Asia arriva in Serie A senza un periodo di ambientamento in un campionato meno competitivo. E senza nessuna conoscenza linguistica all'infuori del giapponese («Ficcadenti mi diceva vai a destra e andavo a sinistra. Durante le riunioni tecniche quasi dormivo»).

Poco dopo essere stato ammesso nella selezione dell'università, ha un'ernia del disco che non gli permette di giocare e addirittura pensa di smettere col calcio. Essendo un bravo suonatore di tamburo, a colpi di tamburo si mette a guidare i cori dei tifosi. È talmente bravo che una specie di capo-ultras dei Kashima Antlers va a proporgli di passare nel loro gruppo. Lui declina.

Per tornare in forma e trovare posto in squadra, deve fare una lunga riabilitazione. In quel periodo, spiegherà poi, capisce di dover lavorare «più duramente di tutti gli altri».

Piccolo (foto di Suhaimi Abdullah / Getty Images).

Nagatomo è un compagnone, un ragazzo di buon carattere che si fa ben volere. La prima espressione che ha imparato in italiano pare sia stata: «Andiamo a mangiare».

Sta al gioco volentieri, si fa mettere in mezzo senza offendersi. Teorizza che lo scherzo, praticato o ricevuto, sia un mezzo positivo per ambientarsi. Uno strumento di conoscenza e dialogo. «Ridere insieme agli altri è coinvolgente».

Pare significativo che in uno scambio su Twitter col suo amico e connazionale Keisuke Honda, a proposito di derby e penitenze, Nagatomo lo rimproveri di essere «troppo serioso».

Lo prendeva in giro Antonio Cassano, ridicolizzando lo spot pubblicitario di uno yogurt che Nagatomo ha girato in Giappone, in cui peraltro suona un tamburo. Lo prendeva in giro Wesley Sneijder, riempiendo il suo tovagliolo di grana grattuggiato. Lo prende in giro Ivan Perišić, postando una foto su Instagram dei suoi calzettoni che hanno le dita dei piedi separate: «È normale che sbagli tutti i passaggi».

Lo prende in giro Fiorello, che ha dato l'assalto allo stereotipo del giapponese distaccato e a lui ha assegnato una specie di rubrica nel suo programma, dal titolo: “I saggi proverbi di Nagatomo”. Di recente è uscito un video in cui Nagatomo dice: «Fiorello suca!».

2011, il giorno del ritorno a Cesena da avversario, riceve in dono un ippocampo bianconero (foto di AFP).

Buffo, saggio, composto. Nagatomo personifica l'Oriente agli occhi occidentali. E lui ha di certo alimentato la rappresentazione.

Pratica lo yoga e lo insegna ai compagni (ma non solo: in Giappone è stato pubblicato un libro + dvd con le sue lezioni, dal titolo “Yogatomo”). Si inchina dopo ogni gol. Spiega che la principale risorsa a cui attinge, la cosa più importante, è la “forza spirituale”. Parla di Javier Zanetti come di un Senpai, un mentore, un riferimento non solo tecnico. Appena arrivato all'Inter sostiene che il suo segreto sia l'umeboshi giapponese, prugne salate e tenute in salamoia, che lui prende prima di ogni partita.

Giappo-scugnizzo”, “Italo-samurai”. Fin dall'arrivo in Italia, la sua figura si arena tra esotismi e stereotipi. Bisogna togliere molto fumo da davanti agli occhi per accorgersi che Nagatomo non è un pupazzetto, un cartone animato.

È quello che fallisce un provino a dodici anni nella società della sua prefettura, l'Ehime FC, e passa lunghi pomeriggi tristi nelle sale-giochi. Quello che da universitario, quando è costretto a interrompere il calcio per l'ernia, si dedica compulsivamente al Pachinko, un gioco d'azzardo giapponese tra la slot-machine e il flipper: «Mi sono perso», ammetterà.

È quello che da quando sta all'Inter si è preso 4 espulsioni. È quello che in nerazzurro divide la stanza con Handanovič e se ne lamenta perché è troppo monacale e va a dormire alle otto, mentre lui vorrebbe stare sveglio «per vedere le partite».

È quello che si sentiva brutto e ora grazie al calcio non più, per quello che definisce “il miracolissimo”. Quello che sposa una ragazza dello spettacolo, Airi Taira, famosa in Giappone per aver vinto un talent musicale e recitato in film e serie tv. E la spara grossa: «Voglio undici figli, come una squadra di calcio». Il primo è in arrivo.

Febbraio 2011. Ha appena firmato per l'Inter, si intende già col nuovo allenatore, Leonardo (foto di Valerio Pennicino / Stringer).

Il ruolo di giocatore-mascotte ha il vantaggio di essere protetti dall'affetto ma implica anche che si è considerati scarsi o comunque non all'altezza. Questo sembra ingeneroso nel caso di Nagatomo. Un terzino che sa difendere, un giocatore rapido e ostinato, che supplisce alla statura ridotta con l'intensità e l'applicazione. E la duttilità: se già in Giappone nasceva centrocampista ma era stato arretrato, nel tempo ha continuato ad adattarsi: destro ma impiegato prevalentemente a sinistra, terzino o anche fluidificante.

Per restare all'Inter ha rifiutato il Manchester United. E nel 2013/14, oltre a indossare per la prima volta la fascia da capitano, è stato il difensore con più gol in serie A (5, con 7 assist).

In Giappone è un'istituzione, dopo aver vinto una coppa d'Asia (2011) ed essersi fatto valere all'estero. Prima di lasciare il Paese per l'Italia, fa un discorso d'addio allo stadio davanti a 25mila spettatori. Quando prende un 4 in pagella dopo una brutta partita col Napoli, racconta lui, «in Giappone è scoppiato un casino pazzesco». E nel primo periodo all'Inter, in una fase di difficoltà, a sostenerlo e consigliarlo è il suo allenatore ai tempi dell'FC Tokyo, Hiroshi Jōfuku. Un aiuto «soprattutto psicologico».

Oggi è tra i dieci giocatori con più presenze in Nazionale (101). Ha trentun anni. Il record di Yasuhito Endō (152) può essere in pericolo.

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