Sono già passati undici mesi dalla tripla con la quale Kris Jenkins ha fatto esplodere di confetti bianchi e blu l’NGR Stadium di Houston. Undici mesi in cui, mentre noi siamo andati avanti con la nostra vita, centinaia di adolescenti americani hanno lavorato come matti per farsi trovare pronti nell’eventualità che quel tiro questa volta tocchi a loro. La redazione dell’Ultimo Uomo ha lavorato molto meno, ma li ha seguiti per voi e ora è pronta a rispondere alle seguenti pressanti domande.
Qualcuno suggerirà a Roy Williams che le fantasie a quadrettoni sono fuori moda da un paio di secoli? Gonzaga riuscirà a lavare le lacrime di Adam Morrison? Quale Cenerentola si infilerà le scarpette giuste per ballare fino al weekend successivo? Riuscirà il pacemaker di Dick Vitale a reggere questa fenomenale classe di freshman? Seth Davis e Jay Wright sono stati mai visti insieme nella stessa stanza? Quale cheerleader strizzerà l’occhio per far partire One Shining Moment? Quale “double digit seed” si inserirà nella pinacoteca degli upset di Kansas? Duke è la giusta regina di un paese che ha votato Trump? E soprattutto riuscirà Jim Boeheim a tornare alle Final Four dopo essere stato vergognosamente maltrattato dai Commissioner?
The ball is tipped,
Let’s Dance
REGINETTE DEL BALLO
Villanova (#1 East Region) – Repeat, l’ossessione. Se vincere un titolo è un’impresa, ripetersi è leggenda. Dal dominio di UCLA a inizio anni ‘70, solo due squadre ci sono riuscite: Duke 1991-92, quella di Grant Hill e Christian Laettner, e Florida 2006-07, quella di Joakim Noah e Al Horford. Il talento di questa edizione dei Wildcats non è lontanamente paragonabile a quello di quelle due squadre, eppure la sensazione è che Nova sia la squadra campione in carica messa meglio per riuscirci degli ultimi dieci anni. Merito, su tutti, di Josh Hart, uno dei giocatori tatticamente e tecnicamente più versatili della nazione. Alto 1.98 e dal fisico massiccio, non c’è niente che non sappia fare: gioca in post basso, prende rimbalzi come un’ala forte, tira da tre col 40%, passa la palla. E con 18.6 punti a partita è il miglior realizzatore della squadra. Al suo fianco troviamo le rassicuranti presenze dell’ala Kris Jenkins — eroe nazionale della vittoria dello scorso anno, e altro giocatore di grande versatilità — e del play Jalen Brunson, bravo ad approfittare dei minuti lasciati liberi dalla partenza di Ryan Arcidiacono. Al netto del fatto che molto protagonisti sono ancora lì, è anche la disciplina tattica di coach Jay Wright a essere l’arma in più di questo gruppo. Un allenatore che — magia delle giurie popolari — è passato da perdente a eroe nel corso di una sola serata, pur predicando negli anni un credo di una coerenza invidiabile. Responsabilità offensive diluite, difesa a uomo aggressiva, quintetti di estrema versatilità sia davanti che dietro. Questa versione dei Wildcats è tanto fedele alle sue idee quanto quella della scorsa stagione: le possibilità di entrare nella storia rimangono basse, eppure non sono mai state così alte.
Kansas (#1 Midwest Region) – Dei mostri di costanza che anche quest’anno non fanno eccezione. Negli ultimi 17 anni hanno raccolto quattro seed n.4 e due seed n.3: le altre volte sempre numero 1 o numero 2. Cambiano gli uomini, non le idee: Bill Self continua a presentare miscele di talento ed esperienza, fedele alla strategia di diversificare il reclutamento il più possibile, dai freshmen di grandi speranze come Josh Jackson (l’ala dalle mille risorse destinata a una chiamata di alta lotteria nel prossimo Draft) fino a uomini costruiti in casa. Esempio illustre è il guizzante Frank Mason III, una delle cose più vicine a Tyus Edney mai vista nella storia recente del gioco, che alla sua ultima stagione da Jayhawk ha tirato fuori cifre da candidato giocatore dell’anno. Oppure Sviatoslav Mykhailiuk, ala ucraina che, dopo due anni da giocatore di rotazione, ha assorbito bene le nuove responsabilità, portando versatilità e pericolosità perimetrale. L’incognita resta quella di sempre: il sistema molto bilanciato li ha resi macchine da guerra in regular season, ma squadra relativamente vulnerabile nelle serate in cui il collettivo non gira. Senza Jackson, è arrivata l’inaspettata sconfitta nel primo turno del torneo della Big 12 contro TCU. Un campanello d’allarme. O forse una provvidenziale lezione, pochi giorni prima dell’ennesima avventura marzolina.
Bitch, I’m Frank Mason (ndr: sì, è proprio lui che canta).
North Carolina (#1 South Region) – The ceiling is the roof. Con questa frase enigmatica Michael Jordan ha salutato i senior all’intervallo dell’ultima partita della stagione a Chapel Hill, non spiegando se avesse avuto problemi con il piastrellista o se i ragazzi di Roy Williams dovessero ripartire da dove si era tragicamente conclusa la scorsa stagione per fare quel passettino in più che porta dritti al paradiso cestistico. Persi Marcus Paige e Brice Johnson, il peso delle responsabilità è caduto sulle spalle di Joel Berry e Justin Jackson che hanno risposto presente, conducendo i Tar Heels ad una vittoriosa cavalcata nella giungla dell’ACC. In un mondo che cambia senza sosta sotto i nostri occhi, Good Ol’ Roy è certezza di un basket vintage, su e giù per tutta la lunghezza del campo a farne sempre uno in più dell’avversario. North Carolina è la solita squadra alta e fisica, che domina sotto i tabelloni (di gran lunga il miglior team a rimbalzo della nazione) e sfinisce con il ritmo forsennato le resistenze altrui, grazie anche alla lunghezza infinita della panchina. Meeks e Hicks sono due lunghi che si trovano a memoria, Jackson sta avendo la sua miglior stagione in maglia celeste e Joel Berry è un leader oltre che una sicurezza da tre. Nonostante tutto le due sconfitte contro Duke hanno messo a nudo tutte le debolezze strutturali dei Tar Heels, che vanno in netta difficoltà quando non riescono ad imporre il loro tonnellaggio nel pitturato e sono costretti a gestire i minuti che Berry passa in panca, svuotando il parquet di playmaking. North Carolina dovrebbe avere vita facile fino ai Regional, poi servirà un pizzico di quel karma che Kris Jenkins gli deve ancora restituire per finire tra i coriandoli.
Gonzaga (#1 West Region) – Gonzaga ha sfiorato l’impresa di arrivare al Torneo da imbattuta, guadagnandosi comunque una testa di serie pienamente meritata. L’ipotesi che si tratti di una squadra “over-seeded” è confutata dalle vittorie contro squadre come Florida e Arizona (la n°2 nella loro parte del tabellone) e dallo sweep ai danni di St. Mary, che nell’indifferenza generale e coi riflettori puntati sugli Zags ha comunque costruito una signora squadra.
Il punto di forza di Gonzaga è la profondità e un roster capace di trasformarsi e giocare in modo diverso ogni singola notte, senza perdere di efficacia. Coach Few ha potuto contare sulla struttura solida che ha costruito in questi anni per rendere un roster completamente rivoluzionato rispetto all’anno scorso (solo due giocatori in rotazione hanno giocato nel precedente torneo) come se si conoscesse da anni. Gli Zags giocano con una rotazione ad 8 giocatori, 4 guardie (di cui 3 sempre in campo) e 4 lunghi. Nessuno di questi otto sembra fondamentale rispetto agli altri, pur riconoscendo la leadership che portano Nigel Williams-Goss e Przemek Karnowski. Il loro sistema corale sfrutta a volte il gioco in post di Karnowski, a volte l’uscita dai blocchi di Matthews, altre l’alto-basso di Tillie e Collins mettendo in campo un’esecuzione offensiva armonica ed efficace che fa da contrappunto alla rocciosa difesa (la seconda in tutta l’NCAA, dati Kenpom). I dubbi sono sempre quelli di una squadra che, sebbene viaggi con una sola sconfitta a carico, risulta comunque agevolata dalla scarsa competitività della WCC: se l’anno scorso Gonzaga è caduta a causa di una rotazione ridotta agli sgoccioli, quest’anno hanno la consapevolezza che nessun acciacco o problema di falli potrà scuoterli terribilmente.