
«Guardavo Kobe ogni giorno. Guardavo Jordan ogni giorno. Era come se fosse in loop, ogni singolo giorno. Qualsiasi mio compagno di squadra - da Portorico, dalla Turchia, dalla Corea - in ogni partita mi vedeva con il telefono in mano. Non stavo su Instagram. Guardavo Kobe. Guardavo Jordan. Guardavo come si muovevano, come venivano marcati, tutte queste cose».
Così Rondae Hollis-Jefferson ha raccontato il suo incredibile Mondiale 2023, quando si trasformò in Kobe Bryant per una settimana. Certo, in una sua copia minore, un’imitazione fatta da un giocatore naturalizzato dalla Giordania, respinto dalla NBA e finito a giocare in campionati esotici. Ma, se amate il basket, e avete amato Kobe, quelle tre partite di Hollis-Jefferson vi saranno rimaste impresse nella memoria.
Se lo sport fosse arte, e non è detto che non lo sia, quello di Rondae Hollis-Jefferson potrebbe essere definito, più che omaggio, addirittura come kitsch. Secondo Umberto Eco il kitsch “è la messa in scena dei sentimenti convenzionali, la ripetizione di modelli estetici già noti per suscitare emozioni facili”. Eco lo considera una semplificazione del messaggio estetico di un’opera: un modo per offrire lo stesso tipo di bellezza dell’arte, ma preconfezionata, facilmente decodificabile, e che quindi non ha niente della vera arte, di cui uno dei principi fondamentali è mettere in discussione lo spettatore.
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