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Dormire è morire
26 giu 2015
26 giu 2015
Il romanzo di Yasiel Puig, in MLB da solo 2 anni e già giocatore di culto.
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La Alligator Alley è un’autostrada che attraversa le Everglades, la vasta palude che occupa la parte meridionale della Florida, da Fort Lauderdale a Naples. Il 28 Dicembre 2013 una Mercedes bianca sfreccia ad alta velocità in direzione ovest. La intercetta un’auto della polizia, che accende le sirene e si getta al suo inseguimento. Dopo pochi chilometri la Mercedes accosta. L’agente esce dall’auto e si avvicina al finestrino: «Stava andando a 110 miglia orarie. Qui il limite è 70. La devo portare in prigione», conclude l’agente, che apre lo sportello e chiede al conducente di uscire.

Compare la sagoma muscolosa di un uomo di colore di 22 anni, 1 metro e 90 per 115 chili, in ciabatte e pantaloncini rosa: «Signore, la prego non mi faccia questo». L’agente però non sente ragioni, lo ammanetta e lo invita a salire sull’auto della polizia. L’uomo è al secondo arresto per guida spericolata in poco più di sei mesi. Ad aprile lo avevano fermato per lo stesso motivo a Chattanooga in Tennessee, ma allora giocava ancora in doppio-A. Adesso la storia è differente, perché il personaggio in questione è l’esterno destro dei Los Angeles Dodgers. Si chiama Yasiel Puig, viene da Cuba e risiede sul suolo americano solo da un anno e mezzo.

In fondo che saranno mai un paio di arresti per eccesso di velocità se hai appena messo alle tue spalle un’avventurosa fuga da Cuba che ha tutto, ma proprio tutto, il sapore delle storie sul mar dei Caraibi e sulle persone che lo solcano.

La fuga da Cuba

Alle prime luci dell’alba di un giorno di aprile del 2012 un motoscafo con a bordo Puig, la sua fidanzata, Yunior Despaigne (un ex pugile della Nazionale cubana) e un sacerdote della santería, che prima della partenza aveva officiato una cerimonia augurale sacrificando un pollo e recitando preghiere, lascia la costa a nord-ovest dell’isola di Cuba. I quattro stanno abbandonando clandestinamente la propria patria per cercare fortuna in America. Tra di loro l’unico piuttosto certo di potercela fare è Yasiel Puig, un giocatore di baseball già famoso in patria nonostante abbia solo 21 anni. In realtà la fuga è stata pensata e organizzata proprio per lui. Raul Pacheco, un oscuro faccendiere di Miami di origini cubane, ha contattato Despaigne offrendogli denaro e il passaggio gratis purché convincesse Puig a disertare.

La missione non è delle più semplici, perché per il regime castrista assistere alla diaspora dei propri campioni ammaliati dalle sirene del capitalismo, non è esattamente quello che si dice una buona propaganda. Per questo motivo chi è sorpreso con le mani nel sacco viene punito severamente. Puig del resto ha già tentato quattro volte di scappare da Cuba, ma ogni volta i suoi tentativi sono andati a vuoto, compreso un improvvido intervento della Guardia Costiera americana che lo ha rispedito al mittente in prossimità dello sbarco.

Stavolta però, anche secondo il sacerdote della santería, i presagi sono favorevoli. Eppure il viaggio per raggiungere il luogo dell’appuntamento con i “lancheros” che li devono portare via dall’isola non è stato dei più semplici. I quattro, dopo essersi imbattuti in alcune pattuglie della polizia, sono stati costretti a percorrere a piedi l’ultimo tratto, attraversando, per circa 35 chilometri, paludi di mangrovie infestate dai coccodrilli nel parco nazionale Ciénaga de Zapata.

Sfiniti dallo sforzo e dalla paura di essere scoperti dalla polizia, scorgono finalmente il motoscafo. A bordo ci sono tre uomini con le facce poco rassicuranti. Sono contrabbandieri collegati al cartello messicano dei Los Zetas, un’organizzazione criminale di trafficanti di droga. Li ha assoldati Pacheco, secondo uno schema piuttosto semplice: Pacheco pagherà il prezzo del biglietto, che costa 250mila dollari, e in cambio otterrà da Puig il 20% del suo primo contratto con una squadra di baseball americana.

Quello della “tratta” dei giocatori di baseball cubani che si trasferiscono negli USA è un fenomeno piuttosto collaudato negli ultimi anni. Organizzazioni abituate a muoversi nell’ombra sono in grado, non solo di preparare la fuga, ma anche di ottenere i documenti che permettono al giocatore in questione di presentarsi all’appuntamento con gli scout con le carte “in regola”. La legalità ovviamente è un aspetto secondario, ma di fronte al frusciare dei dollari tutti, comprese le franchigie delle Majors, preferiscono chiudere un occhio. Il presupposto perché il giochino funzioni è far eleggere all’esule la propria residenza in un paese terzo, che non siano gli USA, il Canada o Portorico: in questo modo potrà ottenere un contratto da professionista, senza passare per l’ingessato meccanismo del draft. Quello che per le squadre di MLB può essere un affare lo è senz’altro per i “trafficanti” che, scatenando furibonde aste al rialzo, prelevano una percentuale del contratto.

Il motoscafo con a bordo Puig e i suoi amici approda in Messico a Isla Mujeres, poche miglia al largo di Cancún. Qualcosa però va storto perché i contrabbandieri provano a chiamare Miami, ma dall’altro capo del telefono non risponde nessuno. Pacheco non ha i soldi promessi. I giorni diventano settimane e i quattro, fuggiti da Cuba verso la libertà, ma costretti a restare prigionieri in uno squallido motel di Isla Mujeres, si accorgono che la situazione sta prendendo una brutta piega. I contrabbandieri non nascondono il nervosismo e minacciano il ricorso al “machetazo”, ovvero la mutilazione per rappresaglia di un braccio o un dito del giocatore. Ma all’improvviso, non si sa bene come, una notte di fine aprile nel motel irrompono degli altri uomini che prendono Puig e i suoi e li portano via. Pacheco infatti ha stretto un accordo con El Rubio, capo di un’altra gang di trafficanti che, fiutato l’affare, si è offerto di fare il lavoro sporco, sottraendo il giocatore dalle grinfie dei messicani.

Sugli spalti dello stadio del baseball a Città del Messico c’è un uomo dei Dodgers con i baffetti e l’inseparabile panama e sta osservando Puig durante una sessione di battuta. Si chiama Mike Brito ed è cubano pure lui. Ha saputo della notizia della fuga di Puig direttamente dai suoi parenti che vivono ancora sull’isola: «Il ragazzo che ti piace tanto è scappato», gli hanno detto. Il resto lo hanno fatto Jaime Torres, l’agente degli esuli cubani (è di un suo assistito il primo contratto multimilionario firmato da un transfuga cubano, quello da 32 milioni di dollari tra José Contreras e gli Yankees) diventato nel frattempo anche manager di Puig, che ha organizzato l’esibizione, ed El Rubio, che ungendo le persone giuste in soli 15 giorni ha procurato a Puig la residenza messicana, facendolo perfino volare a bordo di un aereo di linea da Cancún a Città del Messico, nonostante il giocatore avesse con sé soltanto la carta di identità cubana.

Brito ha visto Puig per la prima volta nel 2008 in Canada, durante un torneo tra Nazionali Under-18. Nel frattempo del giocatore, nonostante l’esplosione nella stagione 2009/10 con la maglia dei Cienfuegos Elephants, si erano perse le tracce. Puig infatti era stato escluso sia dal club che dalla Nazionale, verosimilmente per punizione in seguito ai tentativi di fuga. La scommessa che Brito e i suoi uomini fanno è di quelle pesanti: 7 anni di contratto per 43 milioni di dollari, un record per un esule cubano. Il 28 giugno 2012 viene annunciato l’accordo. Puig vestirà la maglia dei Dodgers; Pacheco ed El Rubio possono stappare: hanno appena intascato più di 8 milioni. Non gli resta che accompagnare Yasiel al confine con gli USA, fargli attraversare il ponte sul Rio Bravo e chiedere l’asilo politico, tracciando un colpo di spugna su quanto fatto per arrivare fin lì. «Può darsi che un giorno facciano un film sulla storia del mio arrivo in America», è stata una delle rare dichiarazioni rilasciate da Yasiel sulla sua avventura. Considerate le persone coinvolte, infatti, è meglio tacere. Ma anche questo non basterà, perché qualcuno il conto deve ancora presentarlo.

America

L’adattamento di Puig al secolo XXI non è semplicissimo. Gli spiegano come destreggiarsi con cose con cui a Cuba non si ha dimestichezza, come per esempio usare il bancomat. Per il resto si concentra finalmente sul baseball e sul recupero della forma fisica, provata dalle tante fibrillazioni degli ultimi mesi. La parte finale della stagione 2012 la trascorre tra l’Arizona Rookie League, il singolo-A ai Rancho Cucamonga in California e la winter league in Portorico con i Mayaguez. Dopo aver impressionato non poco durante lo spring training dei Dodgers, viene spedito a Chattanooga in doppio-A. La sua occasione arriva a giugno del 2013. I Dodgers, penalizzati dagli infortuni e con una classifica pessima, non sanno più a che santo votarsi e lo chiamano. L’esordio ufficiale di Yasiel avviene il 2 giugno contro i San Diego Padres. Alla prima volta al piatto batte un singolo (finirà la partita con 2 valide su 4 turni di battuta). Ma il gesto che fa sussultare per la prima volta il cuore dei tifosi è questo.

Elimina al volo il battitore avversario e dalle barriere lascia partire un missile in prima base che consente di eliminare anche il corridore.

Il giorno dopo mette a segno il primo fuoricampo, e nelle prime 5 partite ne batte 4. Alla fine dell’anno colleziona 19 home run e una media Ops superiore a .900, arrivando secondo nella corsa al titolo di rookie dell’anno per la National League. L’anno dopo tutti si aspettano la definitiva consacrazione, che però non arriva. Dopo un paio di mesi al fulmicotone, che gli consentono di partecipare all’All-Star Game, incappa in una serie di fastidiosi infortuni. A settembre poi si eclissa, finendo spesso in panchina. Durante la sfida di playoff contro St. Louis va 8 volte strike out su 12 turni di battuta. Il bilancio del 2014 è scarso: 148 partite (solo 44 più del 2013) e la miseria di 16 home run, tre in meno rispetto all’anno precedente.

Yasiel è vittima troppo spesso dell’incostanza e dell’indisciplina. Fa tardi agli allenamenti, sbaglia a correre tra le basi, si fa fregare troppo spesso dai lanciatori, girando la mazza quando invece sarebbe il caso di aspettare. Ma anche in difesa mostra parecchie lacune: errori di concentrazione ed eccessiva confidenza nei suoi paurosi mezzi, come in quest’episodio durante una partita contro San Francisco.

Perde banalmente una fly ball ma riesce ad eliminare il corridore in seconda base.

Per Don Mattingly, l’allenatore dei Dodgers, è il carico di emozioni e di vita vissuta che si porta appresso a causargli le maggiori difficoltà. Indubbiamente però incide anche un’inclinazione personale, molto latina, che lo porta a vivere la propria vita in un certo modo. Yasiel non sembra per nulla interessato a uniformarsi alle regole non scritte del mondo del baseball. Una di queste è il bat flip, ovvero il gesto (sprezzante secondo alcuni) di gettare la mazza all’aria dopo aver colpito un fuoricampo in segno di trionfo, che nel suo caso è diventato quasi un marchio di fabbrica.

«Non voglio offendere il lanciatore, ma solo esprimere le emozioni che sono dentro di me», ha spiegato una volta. Mentre sul base-running ha aggiunto: «Se vedo che l’esterno si muove lentamente verso la palla provo a correre verso l’altra base: più basi prendiamo più punti segniamo».

I tifosi però apprezzano questo modo aggressivo di interpretare il baseball e adorano naturalmente il suo essere naïf, un personaggio poco costruito in un mondo che invece va nel verso opposto. Puig ricambia sottoponendosi volentieri alle lunghissime sessioni di autografi o di foto con i tifosi, riservando loro parole dolcissime: «I tifosi vengono allo stadio per divertirsi. Dopo il lavoro passano il loro tempo libero a vederci giocare. Noi dobbiamo fare del nostro meglio per farli divertire». Non è un caso che la sua casacca numero 66 nella seconda metà dello scorso campionato sia stata la quinta più venduta dopo stelle del calibro di Derek Jeter, Clayton Kershaw, Mike Trout e Buster Posey. Superfluo aggiungere che quando si tratta di scherzare con i compagni di squadra, fare casino o festeggiare Yasiel è sempre in prima fila.

Ed è di quegli amici che, se non hai un apribottiglie a portata di mano, ti apre la birra con i denti.

«Dormir es cuando te toca morir»

«Dormir es cuando te toca a morir», ha dichiarato una volta alla reporter del Los Angeles Magazine. Una frase in cui viene fuori la gioia di vivere ma anche la voglia di recuperare il tempo perduto. Da un altro punto di vista non si può non cogliere una piccola ombra, una sfumatura intesa come senso di caducità dell’esistenza. Infatti per Puig i conti con il passato non sono ancora chiusi.

I contrabbandieri messicani del cartello dei Los Zetas non hanno mollato la presa e sono tornati a bussare alla sua porta e a quella dei suoi amici, chiedendo i soldi loro dovuti e, a quanto pare, non ancora riscossi. Le minacce di morte sono state l’inevitabile corollario. In principio sono cominciate le telefonate, una marea di telefonate a Pacheco, El Rubio, Despaigne ma anche ai suoi parenti rimasti a Cuba. Inequivocabile il messaggio: «Quello che avete fatto non è uno scherzo. Dateci i soldi oppure vi uccideremo». Un giorno, durante lo spring training del 2013, sembra che qualcuno si sia introdotto nell’albergo della squadra riuscendo a entrare nella camera di Yasiel; Despaigne è stato soggetto a minacce più pressanti da un tizio armato di pistola. La resa dei conti potrebbe però essere andata anche oltre. Sembra essere collegato a questa vicenda il ritrovamento in una strada di Cancún del cadavere, crivellato da 13 colpi di pistola, di un membro dei “lancheros” che avevano portato Puig in Messico.

I patemi per il giovane Yasiel però non si sono fermati alle minacce di morte. Infatti nel 2013 l’avvocato Avelino Gonzalez ha citato Puig per 12 milioni, in una causa per conto di Miguel Corbacho Daudinot, un cubano attualmente detenuto nelle patrie galere con l’accusa di aver tentato la diserzione dall’isola. Secondo Gonzalez, Puig avrebbe ingiustamente denunciato alle autorità il fatto. Lo avrebbe fatto per migliorare gli allora pessimi rapporti con il regime. Gonzalez ha promosso questa causa sul suolo americano in virtù del Torture Victim Protection Act, che consente ai cittadini vittime di torture, anche in altri paesi, di chiedere i danni per quanto subito. Non è la prima volta che Gonzalez, definito con sprezzo da Fidel in persona “l’abogadito di Miami”, porta Cuba e il suo regime sul banco degli imputati. In questo caso sembra abbia giocato un ruolo decisivo la testimonianza giurata di Yunior Despaigne, che ha raccontato il suo rapporto con il giocatore dei Dodgers. Ciò che avrebbe spinto Despaigne a gettare fango sull’ex amico pare sia la mancata riscossione della cifra promessagli da Pacheco, con il quale Puig avrebbe invece assolto il suo dovere. La causa sarà discussa a novembre di quest’anno.

Nemmeno la stagione 2015 è iniziata per Puig sotto i migliori auspici. Dopo poche partite si è infortunato, tornando nella lista dei disponibili soltanto ai primi di giugno. Rispetto agli scorsi anni però, almeno a giudicare dalle dichiarazioni, qualcosa sembra cambiato. Si è presentato allo spring training in forma, spiegando che quest’anno sarà senz’altro più puntuale, più concentrato e rispetterà le consegne tattiche dell’allenatore. Ha promesso anche di rinunciare al bat-flip, uniformandosi al mondo ingessato delle majors: «Voglio dimostrare al baseball americano che non disprezzo il gioco». Probabilmente le sue statistiche miglioreranno, e magari vincerà anche un titolo, ma vedere quella mazza volare in aria ci mancherà.

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