Se c’è una cosa che ci ha insegnato il tennis femminile nel 2015 è la delusione delle aspettative. Non è vero che il circuito è fatto solo del cuore e dei nervi di Serena Williams, come non è vero che la numero uno è imbattibile, nonostante i numeri, nel complesso, abbiano detto il contrario. Questo è stato l’anno in cui abbiamo ritrovato, allo stesso tempo, la supremazia di Serena e la sua fragilità, condensate in un Giano bifronte.
I tentativi di scacco alla regina
Per Serena Williams il torneo di Wimbledon è stato il più importante dell’anno. Più in generale, il percorso negli Slam è stato emblematico per leggere il suo 2015: ha spiccato il volo in Australia, sofferto a Parigi, faticato moltissimo a Wimbledon e si è schiantata a New York. In questa parabola, il ruolo decisivo l’ha giocato quindi il torneo inglese, dove al terzo turno e in finale Serena ha ricevuto gli attacchi più credibili fino a quel punto della stagione, da parte di Heather Watson prima e Garbiñe Muguruza poi. In entrambi i casi la statunitense l’ha spuntata difendendo punto dopo punto e incontrando un’avversaria non solo competitiva, ma niente affatto intimidita.
È successo spesso, nelle partite giocate da Williams, di aver palpabilmente i nervi saldi, il match in pugno, la solidità inscalfibile riconosciuta da tutti—pubblico, spettatori, giocatrici. In quelle due occasioni, invece, la marmorea Serena è stata ridimensionata. Il miracolo tennistico a cui abbiamo assistito (il fatto che Serena Williams possa essere battuta solo se la si combatte sulla tenacia, il suo terreno preferito) è stato una lezione.
La partita contro Heather Watson, classe 1992, è stata una delle migliori dell’anno e non è stato un caso che a giocarla fossero la giocatrice più forte del mondo e una delle tenniste più giovani e brave del circuito. Serena perdeva il secondo set 6-4 e, dopo il già incredibile pareggio del conto dei set conquistato da Watson, il terzo parziale è stato pazzesco: Watson era a due punti dalla vittoria, un risultato meritato e possibile.
La britannica conduceva 5-4. Ci era arrivata con un gioco veloce e mai impostato sulla difensiva, in cui ogni colpo seguiva un disegno ben preciso; mirava a chiudere i punti il prima possibile, per non permettere a Serena Williams di condurre gli scambi: non voleva sopravvivere al match, ma vincerlo. Ogni volta in cui la britannica riusciva a fare ciò che desiderava, il vento cambiava a suo favore: Serena diventava battibile nel giro di un punto e Watson non cedeva nemmeno una porzione di campo, rincorreva le ribattute incrociate e angolate, le governava e le spegneva.
Sul 5-4 la partita girava per l’ennesima volta, quella definitiva, quando la britannica serviva per il match. Vedeva l’impresa, ma cedeva la battuta e si imbatteva nella versione più temibile della leonessa, che, dal canto suo, non aveva mai lasciato andare davvero la partita: nonostante in alcuni frangenti del secondo e terzo set Williams fosse stata sopraffatta dall’agilità del gioco dell’avversaria, riusciva a tirare fuori il suo miglior tennis nei momenti di massima difficoltà, aiutata dall’efficacia del suo servizio.
Entrambe si sono confrontate sul terreno del limite, dove non basta semplicemente stare in campo, ma vanno sfruttate qualità come intelligenza, prontezza di risposta, gioco di gambe, atleticità, in un mix combinato e ben equilibrato: quel qualcosa in più che solo le campionesse hanno.
Avremmo voluto che non la smettessero mai. Insieme, hanno scritto una delle pagine fondamentali dell’anno.
Prima di gareggiare a Wimbledon, Garbiñe Muguruza, classe 1993, era ventesima nella classifica WTA. A torneo concluso, aveva scalato undici posizioni, riuscendo a battere, dal terzo turno in avanti, tenniste con più esperienza, punti e presenze negli Slam: Angelique Kerber, Caroline Wozniacki, Timea Bacsinszky e Agnieszka Radwanska. Fino a luglio 2015, della spagnola non si diceva che potesse fare la differenza sull’erba: forte e talentuosa, ma poco allenata al gioco veloce.
Da esordiente in finale a Wimbledon, aveva approcciato la partita nel modo migliore possibile: giocando su ritmi elevati. Nessuno se lo sarebbe aspettato, nemmeno Serena Williams, che, dopo aver vinto il primo gioco quasi con facilità e aver forse sottovalutato l’avversaria, era riuscita comunque a vincere in due set, ma aveva scricchiolato. Eccome, se aveva scricchiolato.
Muguruza affrontava uno dei suoi idoli di sempre; durante la conferenza stampa prima del match aveva rivelato: «È stata di ispirazione per me, perché quando guardavo la TV la vedevo giocare le finali ed era la numero 1. È uno di quei momenti in cui vuoi imparare come gioca e provare a vedere cosa puoi fare per contrastarla».
Riempite la Spagna di campi d’erba.
La finale è terminata 6-4, 6-4 per Serena Williams e, a dispetto del punteggio netto, per la statunitense è iniziato il periodo più cupo dell’anno, mentre per la spagnola quello più florido, culminato in ottobre col terzo posto in classifica WTA e la qualificazione alle Finals di Singapore.
Ciò che Muguruza ha fatto vedere in Inghilterra è stato sorprendente per due motivi. Il primo è che ha infastidito Serena Williams, come un pensiero latente, durante tutta la partita. Se ci si confronta con la più forte di tutte senza rinunce, riuscendo anzi a imporsi in alcuni momenti, significa che si è mentalmente pronti per sfide importanti. Il secondo riguarda più strettamente il suo gioco, fiorito game dopo game: la copertura del campo, con ordine e puntualità, e gli attacchi coi piedi dentro la linea di fondo, senza cedere a Serena lo spazio di cui aveva bisogno, sono stati l’evoluzione del suo modo di stare in partita. Se Heather Watson era già pronta ai sacrifici dell’erba—velocità, agilità, gioco di gambe—Garbiñe Muguruza lo è diventata.
Serena Williams si è confrontata, in entrambi i casi, con la possibilità reale di perdere. A torneo finito, quello che è venuto fuori è stata la sua solita voglia inesauribile di vittoria, ma con molta meno tranquillità.
Una delle storie che si raccontano più spesso sul tennis femminile odierno è la mancanza di un’alternativa duratura. Serena Williams ha perso diverse volte negli ultimi anni, ma la differenza tra una sconfitta importante e una passeggera sta nella sua modalità e nelle conseguenze che ne derivano. Quando Serena soffre i ritorni delle avversarie, la loro tenacia, la loro ostinazione nel non abdicare subito alla sua incontestabile determinazione, ci troviamo di fronte a una giocatrice vulnerabile. Umana.
A Wimbledon, l’umanità di Serena Williams si è mostrata più evidente di ogni altro aspetto del suo gioco. L’attacco ai suoi danni è arrivato da due insospettabili nemiche, con strategie molto differenti: la kryptonite di Serena potrebbe arrivare da più di un pianeta.
Lo scacco alla regina
Alla vigilia della semifinale degli US Open, Roberta Vinci non pensava di vivere il miglior momento della sua carriera, né che sarebbe toccato a lei uccidere il sogno di Serena Williams.
Pensare che sia stata la solita storia di Davide che sconfigge Golia, la vittoria del coraggio contro la bruta violenza, non è solo sminuire Serena Williams, ma celebrare malamente il successo di Roberta Vinci, che ha giocato il tennis migliore della stagione (e probabilmente dell’intera carriera) e ha guadagnato ogni punto con l’esperienza, la pazienza e la caparbietà che occorrono per onorare risultati indescrivibili.
L’inizio della partita sembrava non dovesse dire niente di inusuale: Serena vinceva il primo set 6-2. Negli altri due parziali, invece, l’italiana scivolava con leggerezza e precisione in ogni angolo del campo, copriva perfettamente i tentativi di affondo della statunitense, che non aveva molto di eccellente da ribattere, né particolare rapidità.
Incertezza. Immobilità. Inefficacia. (Minuto 3:08) Il controllo dello scambio da parte di Williams si perdeva quando non seguiva col corpo la palla corta, innescando la ribattuta di Vinci, che la attaccava risoluta e guadagnava il punto. (Minuti 4:00-4:23) All’incertezza, la statunitense aggiungeva immobilità di gambe, sfruttata al meglio dall’italiana, sia in risposta sia in battuta, dove si esibiva nel più tradizionale dei serve and volley. (Minuto 9:17) Serena non chiudeva subito un punto facile: le occorrevano un rovescio a volo e due smash, l’ultimo dei quali sulla linea.
Probabilmente, se avessero giocato la partita altre dieci volte, per dieci volte Williams avrebbe vinto, ma in questa ha sbagliato qualsiasi cosa e, a differenza del solito, ha avuto di fronte a sé qualcuno di così pronto e intelligente da approfittarne. La trama psicologica su cui ha fondato tutto il suo 2015, la certezza crescente di poter conquistare il Grande Slam sfuggitole nel 2002, è venuta meno, il suo gioco si è svuotato, mentre quello di Roberta si magnificava. È stata una vittoria fisica quella di Roberta Vinci. Cercata. Arrogante. Soprattutto: solenne.
Il duello dell’anno: Garbiñe Muguruza vs. Agnieszka Radwanska
In totale, le due si sono scontrate sette volte, cinque delle quali nel 2015. Il computo dei successi pende a favore della spagnola, che quest’anno ha perso solo in semifinale alle WTA Finals di Singapore, quando Radwanska, nettamente più lucida e meno stanca, era desiderosa di prendersi la rivincita sia sul confronto avuto a Wimbledon, dove ha perso l’accesso alla finale contro Serena Williams, sia su quello di Pechino, dove Muguruza è stata autrice di una bellissima rimonta sotto di un set a zero.
Nel primo set dell’Open cinese, entrambe avevano fatto molti errori e ceduto spazio e punti all’avversaria. Sul 4 pari, però, Radwanska aveva preso in mano il set e aveva costruito la vittoria approfittando di ogni disattenzione di Muguruza. La ricetta per la rimonta era stata proprio la correzione di questo difetto: la spagnola aveva ricominciato una nuova partita, aveva rimesso piede in campo e aveva attaccato.
Le chiavi della vittoria—lucidità, precisione, incisività nell’imporre il gioco, appannaggio di Muguruza prima a Wimbledon, poi a Pechino—erano state invece sfruttate al meglio da Radwanska a Singapore.
Durante le WTA Finals, come le era accaduto anche contro Serena Williams a Wimbledon, Garbiñe Muguruza aveva peccato nel controllo dei punti più importanti. Era sembrato peraltro che quando il suo fisico aveva ceduto qualcosa alla stanchezza o a una forma meno che ottimale, il gioco ne avesse risentito molto più del dovuto, interferendo anche sull’approccio mentale.
Uno dei suoi obiettivi del 2016 potrebbe essere una migliore gestione delle energie, soprattutto fra una partita e la successiva: se ci riuscisse, potrebbe arrivare a sorprenderci ancora di più.
Finali speciali
Agnieszka Radwanska, dopo la sconfitta al primo turno del Roland Garros contro la numero 83 del mondo Annika Beck, era tredicesima in classifica WTA, non aveva collezionato alcun risultato positivo in stagione e aveva dichiarato di essere in profonda crisi, senza riuscire a spiegarsi esattamente il motivo. Già prima dell’inizio della stagione sulla terra, il suo allenatore Tomasz Wiktorowski parlava della necessità per la polacca di aggiungere più aggressività al suo gioco per contrastare rivali più giovani e preparate e di tempistiche di adattamento incerte.
È nella seconda parte dell’anno infatti che ha iniziato ad accumulare punti in classifica, invertendo radicalmente la rotta, raggiungendo tre quarti, tre semifinali e quattro finali. A Singapore Agnieszka Radwanska era la meno attesa fra tutte e vincere ha certificato questa risalita difficile, ma fortemente cercata.
Aveva perso le prime due partite del girone eliminatorio, recriminando molto soprattutto contro Flavia Pennetta, quando aveva sprecato molte occasioni per vincere e aveva avuto un atteggiamento rinunciatario. Ma nella partita contro Simona Halep il suo torneo era cambiato radicalmente. Aveva portato a termine un’impresa personale, puntando su ciò che le era mancato spesso negli ultimi anni, come all’inizio di questa stagione e, fino a quel momento, a Singapore: aveva ribaltato l’andamento del primo set, quando perdeva 3 a 1, sconfiggendo Halep in un avvincente tie-break, vincendo poi il secondo 6-1.
Un colpo che ha riassunto la partita e la nuova consapevolezza di Radwanska (minuto 1:57), che ha creduto nell’opportunità di un punto angolato e sorprendente.
La finale delle WTA Finals fra lei e Petra Kvitova è stata davvero una delle più emozionanti dell’anno, perché si sono misurate due tenniste che avevano parecchio da riscattare. Petra Kvitova ha avuto un 2015 altalenante, con l’unica punta del successo a Madrid e varie delusioni, principalmente sulla sua superficie preferita, l’erba: ha partecipato solo a Wimbledon, dov’era detentrice del titolo, uscendo al terzo turno.
Il terzo set della partita l’aveva vista subito in svantaggio 2 a 0. Kvitova veniva dalla conquista del secondo set e da un momento della partita in cui sembrava potesse chiudere in breve tempo e con un netto predominio. Ma sul 15 pari del terzo gioco, la polacca aveva reagito, appena in tempo per rubare il servizio all’avversaria e portarsi sul 2 a 1, per poi lasciarla a 0 nel turno di battuta successivo per il 2 a 2. Radwanska aveva poi affondato il gioco della ceca, era rimasta concentrata sull’obiettivo, puntando su un gioco semplice ed efficace, aveva tenuto il servizio e si era costruita ben tre match point: gliene è servito solo uno per vincere.
Flavia Pennetta ha giocato la sua ultima partita in carriera giovedì 29 ottobre 2015, contro Maria Sharapova, e aveva perso 7-5 6-1, ma il suo match migliore del torneo è stato quello contro Agnieszka Radwanska, battuta 7-6 6-4.
L’italiana ha giocato splendidamente: anticipando l’avversaria con aggressività in ogni parte del campo, non permettendole di impostare la partita secondo ritmi frenetici e sfruttando al massimo il servizio.
Alla vigilia della partita, sarebbe stato difficile prevederne il risultato: entrambe avevano bisogno della vittoria, avendo perso il primo incontro. Sul campo, però, Flavia Pennetta si era imposta in modo convincente e netto, strappando il primo set al tie-break e avendo vita molto facile nel secondo. Contro Maria Sharapova, invece, ha subìto di più. Era stata la siberiana a fare la gara, aveva sbagliato poco, si era presa una rivincita sugli ultimi scontri, finiti per lei sempre male.
Ciò che ricorderemo dell’anno di Flavia Pennetta non sarà tanto il suo cammino nelle Finals di Singapore quanto la vittoria a New York e le parole che ha scelto a fine partita per salutare il tennis. Sicuramente è la premiazione più importante dell’anno, la sua, e forse lo sarà a lungo.
«[…] Ascolta, non gioco moltissimo, ma se gioco una dozzina di partite all’anno, sono felice. […]» (Pete Sampras, in un'intervista del 2011).
Non ha (ancora) l’età?
Nel 2015, Belinda Bencic ha dimostrato solidità, talento e misura nell’affrontare avversarie più titolate. Belinda Bencic per il momento è una giocatrice più di tecnica che di potenza, che si muove sul campo con una fine tattica di gioco, che ne dimostra già il potenziale. È l’unica teenager a occupare un posto tra le prime quindici del mondo—attualmente è quattordicesima—e quella che più di tutte smania per arrivare tra le prime.
Il 2016 potrebbe già essere il suo anno e da tempo si parla di lei come una predestinata: nel 2013 vinceva il Roland Garros e Wimbledon juniores, nel 2014 arrivava ai quarti degli US Open e nel 2015 raggiungeva quattro finali su due superfici diverse, erba e cemento indoor ('s-Hertogenbosch, Eastbourne, Toronto e Tokyo), conquistandone due. È allenata da Melanie Molitor, madre di Martina Hingis, a cui è stata molto spesso paragonata soprattutto per intelligenza tattica e talento.
Le sue migliori vittorie quest’anno sono arrivate contro Serena Williams, in semifinale a Toronto, e contro Agnieszka Radwanska in finale a Eastbourne. Qui la svizzera ha vinto il suo primo titolo WTA, con il punteggio di 6-4, 4-6, 6-0. Quando la polacca si era imposta nel secondo set, si sarebbe potuto scommettere sulla sua vittoria: l’esperienza, a quel punto, avrebbe giocato un ruolo fondamentale. È stato uno di quei momenti, emotivi e pericolosi, in cui essere consci di cosa fare è un vantaggio enorme, ma Bencic non ha ripreso il terzo set nervosa, né tantomeno sconfitta. Anzi: sembrava divertita, a suo agio, ha concluso il set lasciando a zero l’avversaria.
A Toronto, soltanto due mesi dopo, Belinda Bencic è riuscita a scalare la montagna più alta, vincendo contro il suo idolo di sempre e annoverandosi tra le atlete che sono riuscite a sconfiggerla quest’anno, un club molto esclusivo, su cui nel 2016 la statunitense potrebbe vendicarsi sonoramente o da cui potrebbe essere messa in difficoltà ulteriormente.
Il primo set aveva avuto l’impronta di Serena Williams. Ma, dopo il 2 a 2 nel secondo, Bencic aveva tirato fuori due colpi magistrali: una volée di diritto dopo tre recuperi e un diritto incrociato spiazzante.
A testa alta, nel terzo set era iniziata la vera partita. Bencic conduceva 4 a 0, conquistando il primo, nervoso, game riuscendo a sbagliare meno dell’avversaria, il secondo rubando il servizio a zero, il terzo imponendo il suo gioco con una serie di profondi colpi da fondocampo, il quarto sfilando ancora il servizio a Williams sfruttandone un rovescio lungo.
La sensazione che si è avuta nel vederla giocare, come in alcuni sprazzi della gara al terzo turno di Wimbledon da parte di Heather Watson, è stata di crescita sostanziale all’interno della partita, come se riuscisse a imparare da Williams e migliorare il suo gioco fino a portarlo a un livello davvero molto alto.
Serena, a quel punto, doveva riorganizzarsi per rimanere in partita: aveva cercato più volte il suo allenatore per trovare una soluzione e, aiutata da qualche colpo appannato di Belinda, vinceva il suo primo gioco del set. Questo primo passaggio a vuoto della svizzera era durato poco: un nuovo break la portava sul 5 a 1, e quindi a servire per il match.
Quando a Williams si lascia spazio di reazione, però, nessun vantaggio è sicuro e Bencic lo ha imparato a sue spese proprio durante questa semifinale: la statunitense aveva ripreso le redini del gioco, era tornata a colpire la palla con precisione e velocità, aveva rimesso i piedi in campo, dimenticando per un momento il punteggio e riuscendo a portarsi sul 5 a 4.
L’ultimo game della partita (dal minuto 22:22) ribaltava ancora una volta la situazione: la svizzera non rinunciava a una strategia offensiva, rischiando l’ennesimo ritorno dell’avversaria, variava molto i colpi—dal chop al pallonetto al passante lungolinea—e controbatteva l’efficacia del servizio. Il match point è stato la somma perfetta delle sue qualità: precisione e potenza.
Finita la partita, Belinda Bencic era un’altra atleta: più convinta, più solida, più impavida.
I punti più belli dell’anno
1. Singapore, Simona Halep vs. Agnieszka Radwanska
Non è finita finché non è finita.
2. Miami, Serena Williams vs. Simona Halep
Una giravolta e un passo.
3. Tokyo, Agnieszka Radwanska vs. Dominika Cibulková
Ridefinire l’angolo.
4. Singapore, Maria Sharapova vs. Simona Halep
Drop shot, my love.
5. Toronto, Belinda Bencic vs. Serena Williams
Con applauso.
6. Doha, Victoria Azarenka vs. Venus Williams
Scivolare, a volte, non è un problema.
7. Pechino, Flavia Pennetta vs. Teliana Pereira
Rapido e doloroso.
8. Stoccarda, Angelique Kerber vs. Maria Sharapova
La precisione che batte la potenza.
9. Melbourne, Serena Williams vs. Maria Sharapova
La traversata del campo.
10. Melbourne, Serena Williams vs. Madison Keys
Ace. Game, set, match.