«Non sono un tifoso e so che, per il progetto di uno stadio, l'elemento essenziale è sempre la relazione con il contesto»
arch. Vittorio Gregotti, 1927-2020
La principale capacità di Vittorio Gregotti è stata quella di adattare i progetti al loro contesto locale, delineando scelte e forme che andavano al di là di un proprio tratto distintivo. Il suo nome è legato allo stadio Luigi Ferraris, nell'opinione generale "il più inglese degli stadi italiani", soprattutto per la vicinanza degli spalti al terreno di gioco, ma che ha uno stile unico che riesce a mantenerne il fascino ancora oggi. La sua morte, all'età di 92 anni, però, ci permette di riflettere sull'eredità dei suoi lavori nel complesso tra quelli in ambito sportivo. Lavori da cui emerge un insegnamento senza tempo nella capacità di ragionare per il luogo e non per l'estetica.
Originario di Cameri, in provincia di Novara, l'architetto Gregotti si formò e sviluppò i primi passi del suo lavoro in un periodo storico nel quale i dettami del Movimento Moderno erano preponderanti. Gregotti, però, si discostò da teorie che restituivano su carta profili e segni progettuali dominanti rispetto all'effettiva realtà degli edifici. Il Movimento Moderno, nato a cavallo delle due Guerre Mondiali, con maestri e teorici fondamentali come Alvar Aalto, Walter Gropius, Le Corbusier e Ludwig Mies van der Rohe, ispirò una rivoluzione nel concetto architettonico dell’epoca. L'idea era di fare edifici soprattutto funzionali, e attorno a questo criterio fondare le scelte estetiche e dei materiali, che andavano adeguate alla miglior fruibilità possibile da parte delle persone. Gli edifici restituiti da questa idea erano validi per qualunque luogo e situazione ambientale, replicabili in modo automatico ed efficace.
Il suo approccio, in netta contrapposizione a questi dettami, lo avvicinò in breve tempo ai temi dell'urbanistica, di cui fu un fondamentale teorico, e all'importanza del legame fra edifici e contesto (progetterà il quartiere Zen a Palermo, nel 1969, e firmerà il Piano Regolatore di Torino, nel 1995), e ne favorirà le scelte architettoniche nei suoi lavori legati allo sport.
Gregotti, nella sua lunga carriera, ha progettato 5 stadi di calcio fra Europa e nord Africa, regalando a ognuno tratti distintivi che dialogano con le città d'appartenenza, impossibili da traslare e replicare altrove in modo asettico e senza traduzione. In questo risiede il grande insegnamento dell'architetto piemontese, valido ancora oggi nel rapporto sempre più stretto fra gli stadi, l'urbanistica e l'utilizzo pubblico al di fuori delle competizioni ufficiali.
La sua firma, in ogni caso, era sempre presente. E la troviamo nell'inserimento di parallelepipedi agli angoli del campo da gioco, che eliminavano il concetto di spicchio curvo di raccordo fra le gradinate e, anzi, implementavano gli spazi vuoti di richiamo anglosassone con porzioni edificate utili alla creazione di spazi interni di distribuzione per il pubblico. Questo elemento angolare si ritrova, per esempio, allo Stade des Costières di Nîmes, realizzato fra il 1987 e il 1989, così come al Ferraris di Genova, fino allo stadio di Marrakech in Marocco.
Lo stadio di Nîmes, dedicato a calcio e rugby, e che sarà demolito nel 2025 come parte di un progetto di completa ricostruzione, fu il primo esempio di questa capacità di Gregotti di reinventare lo stadio all'inglese e portarlo nel calcio contemporaneo. Lui, che non era tifoso, approcciava il tema dal punto di vista funzionale e, nel caso della città francese, il progetto si legò alla nascita del quartiere Costières, realizzato a metà anni '80 nella periferia sud della località occitana.
Orientato est-ovest, lo Stade des Costières, con una capienza di 18.500 posti, propone due curve scoperte (dietro le porte) e due tribune centrali coperte con elementi di torri e tiranti che Gregotti stava parallelamente disegnando anche nel progetto di trasformazione dello Stadio Ferraris di Genova. A Nîmes, nei quattro blocchi angolari dello stadio trovano posto una palestra multifunzionale, una sala conferenze e altri servizi di sport e svago, mentre le pareti esterne delle curve vengono proposte con un declivio che simula un pendìo naturale, preferito alla scelta più impattante di tradizionali pareti verticali a tutta lunghezza.
Lo stesso declivio nel profilo esterno, che Gregotti scelse una quindicina d'anni dopo per il progetto dello Stade Adrar di Agadir, in Marocco. Basato questa volta su una pianta ovale, più comune alla tradizione degli stadi locali, l'edificio è fondato su un'idea estetica che richiama le colline e i promontori circostanti, grazie a un profilo a gradoni degradanti verso l'esterno. Quattro alte torri angolari sottolineano la firma dell'architetto, ma hanno anche la funzione di ospitare i riflettori.
I blocchi angolari e il binomio fra torri e tiranti si rivede, sempre in Marocco, allo Stade Marrakech. Qui Gregotti cita chiaramente il suo lavoro a Genova, nelle forme e nell'impianto generale, ma lo declina su stili e metodi costruttivi fortemente legati al luogo, come la muratura rossa che richiama la terra e la sabbia del deserto, il rapporto con la luce del sole e le zone d'ombra, e l'inserimento di profili urbani semplificati. Il suo tratto peculiare, però, si trova a cozzare con la presenza della pista d'atletica, che rompe in modo irrimediabile il delicato rapporto fra la conformazione delle gradinate e la visuale sul campo.
L'opera sportiva principe di Vittorio Gregotti rimane, certamente, il Luigi Ferraris di Genova, trasformato in vista dei Mondiali di calcio di Italia '90. Demolito e ricostruito un settore alla volta, in 26 mesi di lavori, lo stadio genovese conservò solo l'ingresso principale del vecchio impianto e il primo ordine di facciata ad arcate, ritrovando però sé stesso in una forma ampliata, più moderna e abbastanza fedele all'impianto architettonico precedente. Il colore rosso del rivestimento, la scansione ripetitiva delle aperture e le dimensioni contenute dell'edificio (rispetto all'edilizia circostante e alla capienza da 40mila posti), portarono il Ferraris a diventare un eccellente esempio di stadio urbano, in particolare all'interno di una gestione costruttiva piuttosto deficitaria riferita a quel Mondiale.
Foto di Jonathan Moscrop/Getty Images.
Lavoro meno celebrato, ma di eccezionale importanza, fu invece quello dell'ammodernamento dello Stadio Lluís Companys di Barcellona, in vista dei Giochi Olimpici del 1992. Situato sulla collina del Montjuic, e inaugurato nel 1929 su progetto dell'architetto Pere Domènech i Roura, in occasione dell'Expo di quell'anno, fu abilmente rinnovato dall'architetto Gregotti, con un intervento che ne preservò la funzione multi-sportiva, l'impianto ovale e, soprattutto, la storica facciata esterna.
Lo stadio catalano fu, di fatto, scavato e ricostruito al suo interno, con la realizzazione di due nuovi ordini di gradinate secondo i dimensionamenti dell'architettura sportiva moderna, ma confermando lo sviluppo complessivo della struttura, e dando nuovo risalto allo stile originale dello stadio, che strizzava l'occhio al neoclassico con le aperture ad arcate, la torre e i timpani ornamentali di ispirazione classica.
L'approccio di Vittorio Gregotti all'architettura sportiva è stato di estremo valore e di fondamentale insegnamento. L'architetto piemontese lascia un'eredità fatta di progetti misurati, e ragionati in base alle necessità locali, in contrapposizione con un'epoca in cui l'architettura sportiva stava muovendo i primi passi verso la dirompente necessità di stupire e di sovradimensionare.
Talvolta criticato per progetti troppo lontani dal carattere intrinseco dell'epica di stadi di vecchia concezione, e per scelte non sempre ottimali per la fruizione da parte di grandi masse di tifosi, la visione di Gregotti rimane una lungimirante lezione nell'ambito dell'architettura sportiva urbana, e di quanto sia sempre più urgente pensare a stadi di calcio inseriti nel tessuto cittadino e capaci di valorizzarlo senza stravolgerlo.