Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Sylvain Coher
Vincere a Roma
10 set 2020
10 set 2020
Un estratto dal libro di Sylvain Coher sulla vittoria di Abebe Bikila alle Olimpiadi del 1960.
(di)
Sylvain Coher
(foto)
Dark mode
(ON)



 

In questo mondo passiamo come cavallette e di solito corro e basta. È così. Ci tuffiamo sotto il pergolato dei lecci che a tratti hanno la chioma così fitta da coprire tutto il viale fino alle infiorescenze dell’edera, miscelando quell’odore intenso, sulfureo di clorofilla che ci invade il naso e la bocca. Un fuoristrada militare carico di giornalisti ci supera a sinistra sbatacchiando, dentro e fuori dai solchi della strada antica; grazie alla luce di una torcia scorgo lo stemma di questa olimpiade dipinto sulla portiera. È una lupa smagrita in equilibrio sui cinque anelli olimpici, e noi tendiamo le labbra screpolate verso la promessa di quelle mammelle. Scattano i flash, le foto verranno mosse – ancora una volta devo aggrottare le sopracciglia e proteggere gli occhi nell’incavo del gomito. Sento dei fischi, delle grida, ma le parole sono in parte coperte dal rumore dei motori intrappolati tra i muri di cinta che costeggiano la strada. Il campo di battaglia si è considerevolmente ristretto rispetto al Raccordo: l’antica via di Appio Claudio è tutta incassata tra le rovine e le recinzioni delle ville suburbane. La nostra trincea sembra scavata nella pietra – corriamo nel solco come l’acqua di un rivolo che scende da sorgenti lontane.


 

Di una cosa siamo assolutamente sicuri: in questo momento ci so- no due atleti in testa alla maratona! Due minuti li separano dal neozelandese Barry Magee, che sta recuperando lo svantaggio. Alle sue spalle il sovietico Konstantin Vorobjov non sembra avere troppe speranze di aggiudicarsi il terzo gradino di un podio a dir poco fuori dal comune...


       


Il 185 rimane in testa, ma a ogni falcata erodo un pollice che non gli sarà facile recuperare. Gli basterebbe allungare un braccio per rompermi il naso, e a me basterebbe uno sgambetto per mandarlo a gambe all’aria; e invece corriamo concordi – bravi fanti avvezzi alla fatica, nascosti l’uno dall’altro. Quo vadis, Domine?, chiede la Piccola Voce. A Roma, per farmi crocifiggere un’altra volta. Chigri yellem, ho due braccia soltanto ma mille gambe sempre attive. È così. Sono quasi due ore che ciascun appoggio suona come un ordine che ne reclama un altro. Il penultimo round è un round di studio, prima del ko finale; è una fuga in avanti, e ormai vivo solo nella metà bassa del corpo, dalle anche in giù. Per quanto inseparabile dal 185, la mia sagoma comincia a stuzzicare le pellicole dei fotografi: sullo sfondo nero la pelle sgranata dal movimento sarà lucida come l’oro di Roma. Pantaloncini vermigli e canotta verde bottiglia – l’imperturbabile numero 11 sfugge al fuoco degli obiettivi. I flash sono sempre accecanti, a volte ho bisogno di tre o quattro interminabili secondi per ritrovare la testura della strada e la sua linea di fuga. La successione dei negativi fissa gli spettatori nell’atto di applaudire, c’è una devozione fittizia nelle loro mani giunte. Io non sorrido; sorrido raramente e in ogni caso non è ancora venuto il momento. Ho il mento basso, le scapole sporgenti e il ginocchio sempre sollevato come se stessi per dare un pestone. Le foto di una corsa di fondo non sono generose con il corridore: mostrano fin troppo bene le fatiche del corpo, una magrezza che preferiremmo celare. I maratoneti non hanno peso né spessore. Il polpaccio inesistente, il fisico filiforme ma energico, persino il profilo del viso, tutto in lui sembrava predestinato a fendere l’aria elegantemente e indefinitamente. Lo scriveranno presto su di me. Nel tentativo di spiegare la mia vittoria, quando il mio corpo sarà diventato il corpo di tutti. Il confine tra cacciatore e preda resta labile; ma presto potrò dire, come il negus neghesti Tewodros il Coraggioso, che chi ha soggiogato uomini non sarà mai soggiogato da altri uomini.


 

Vengo al mondo per la seconda volta e la lupa capitolina mi offre il latte tiepido dei gemelli fondatori. Nel fuoco traballante delle fiaccole si stagliano il mio corpo e quello del 185, al carboncino disegnano l’ombra fantasmagorica che precede o anticipa il corridore perfetto – la sua sagoma si sovrappone ormai al Filippide dei tempi antichi. Finché esisterà il colosso, esisterà Roma; quando cadrà il colosso, cadrà anche Roma; ma quando cadrà Roma, anche il mondo cadrà, recita la Piccola Voce. Leggendo come un turista l’epigramma della statua di Nerone. Solo un masochista esibisce il dolore come facciamo noi adesso. Non sempre il dolore cresce sulla verticale delle sue radici: non si intensifica nella fatica, si potrebbe addirittura pensare che la fatica lo lenisca. Trovare piacere nel dolore è una beffa difficile da comprendere – eppure il piacere che segue il dolore è una cosa tangibile e noi lo conosciamo come le nostre tasche. Dopo i basoli bitorzoluti, la via Appia ci offre i motivi più lisci e regolari di un tappeto di sampietrini. La pietra è calda e soave come una pelle, perché il suolo racchiude i princìpi della vita: il fuoco e l’acqua da cui veniamo e a cui ritorneremo. Percepisco un attimo di esitazione nel mio rivale, ormai deve riconoscere che ho superato la prova più pericolosa, a un pollice appena da lui e senza mai ferirmi i piedi nudi. È così: se non ci fossi io sarebbe certamente primo. E gli tormenta i timpani lo scalpiccio più netto dei miei piedi sulla pavimentazione di leucite. Mentre le suole delle sue scarpe slittano sulla pietra che ne riduce la tenuta: adesso è il 185 che deve stare in guardia! Uno scivolone e sarebbe tutto finito. Ma a essere sincero non mi auguro che inciampi prima di avermi visto sparire davanti a lui – prima che si spezzi la catena che finora ci ha legati.


 

Soltanto adesso, a pochi minuti dalla fine, possiamo dire con certezza che i veri campioni... i campioni che tutti aspettavamo, mancheranno l’appuntamento con questa maratona...


 

E se anche stavolta dicessero – come lo scorso febbraio a Johannesburg, a proposito di una semplice partita di cricket tra bianchi e neri – che l’incontro è stato organizzato con il solo obiettivo di permettere ai giocatori di colore di affrontare avversari più forti di quelli a cui sono abituati? No, non ripeteremo lo spettacolino delle «giornate antropologiche» della III Olimpiade di Saint Louis; non sarò mai un rappresentante della tribù selvaggia e non civilizzata di cui rideva il vecchio barone de Coubertin. Che altro? Per il leone è sempre un insulto morire per mano di un uomo, propone la Piccola Voce. Timidamente.


 

Duemila anni dopo i Giochi antichi, ad aggiudicarsi la prima maratona olimpica fu un uomo di nome Spyros Louis, un umile pastore. Chi meglio di un pastore, chi meglio di un soldato per reggere lo sforzo sulla distanza? Nel suo discorso agli atleti, il Santo Padre ha lodato il nostro zelo sportivo. Ha lodato le nostre virtù e qualità come la salute, la forza, la flessibilità, l’eleganza e la bellezza dei nostri corpi; ma anche la perseveranza delle nostre anime, il coraggio e la consuetudine alla rinuncia. Nella competizione mostrerete serena costanza e buonumore: sarete modesti nella vittoria, equanimi nella sconfitta, tenaci nelle difficoltà, lo ha detto Sua Santità papa Giovanni XXIII. Possa il felice incontro di questa sera, che riporta alla memoria così tanti ricordi, toccarvi nel profondo dell’anima, ha aggiunto. Perché ciascuno di voi tragga un senso più alto della propria dignità di atleta e si avvicini alla misteriosa voce spirituale di Roma – Amen. Naturalmente non possiamo augurare la vittoria a tutte le squadre partecipanti né a tutti i singoli atleti; che vinca il migliore. Che vinca il più forte, è nell’ordine delle cose, dichiara la Piccola Voce. La schiena del 185 si incurva come se fosse appena invecchiato di dieci anni, nei muscoli scolpiti delle gambe la tensione diventa visibile. Il soleo e il gastrocnemio sono vicini a cedere, le caviglie soffrono per l’inclinazione insolita; il corpo si irrigidisce e stenta, e io ne approfitto per strappargli la falcata che mi porta finalmente alla sua altezza. Non ci guardiamo. Da questo momento procederemo fianco a fianco sullo stretto tracciato della via Appia. Il 185 mi lascia fare, senza tentare nessuna contromisura. Avrà pensato che dal punto di vista aerodinamico la posizione in scia mi stava avvantaggiando? Adesso il fronte della corsa si è allargato, ma la cosa non mi rallenta minimamente. La strada sale con decisione, è l’ultima salita prima di quella del Celio, uno dei sette colli di Roma. L’ho imparato nelle perlustrazioni con papà.


 

Incrociamo via Cilicia, come una fiamma di candela la luce scarta e rimbalza sulle ampie superfici del sottopassaggio – sarà stato un tremito del braccio del soldato che reggeva la torcia. Sotto i robusti piloni di cemento un rombo risuona alle nostre spalle; sono i motori degli spettatori che si gettano a colmare il vuoto che ci lasciamo dietro. Trovo conferma di un fatto di cui ero già abbastanza sicuro senza bisogno di girarmi: Magee, Vorobjov e Popov non sono tanto vicini. Che abbiano abbandonato? I motori ringhiano e scoppiettano; è il suono combinato delle bombe e dei colpi di fucile che stiamo schivando nella trincea che seguiamo come un percorso di battaglia. Tra pochi metri saremo all’incrocio di Porta San Sebastiano, il cui arco tozzo da barbacane ci introduce timidamente nelle mura di Aureliano. Una deviazione obbliga i veicoli del nostro codazzo a svoltare verso Porta Latina. Noi continuiamo dritti, più solitari che mai.


 

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura