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Il video di calcio che ha commosso il web
11 giu 2020
11 giu 2020
Il calcio di strada, la viralità e il calcio vero.
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Dall’inizio della pandemia circola su Twitter il video di un bambino che segna un gol per strada. È uno di quei contenuti virali che parte da lontano e prende una strada frastagliata, di cui è impossibile ricostruire un contesto: quando l’ho visto per la prima volta, a marzo, si sapeva solo che era stato girato in Brasile, perché nel video si sente una persona parlare in portoghese. L’account di Mundial Magazine chiedeva di aiutarli a rintracciare il bambino, perché meritava il Puskas Awards.

Il successo del video a quel punto era già incredibile. Solo il tweet di Mundial era arrivato a 20mila mi piace e 4mila retweet. Io l’ho riguardato più volte perché lo trovavo semplicemente perfetto: c’è una partitella con le porticine sul cemento di una strada, sullo sfondo una luce blu tropicale, palazzoni, qualche palma troppo giovane, recinzioni di lamiera poverissime, calcinacci; giocano tutti scalzi, alcuni a torso nudo, la risoluzione è così bassa che i loro visi sono delle macchie rosacee; c’è un bambino in maglia rosa e calzoncini azzurri (o grigi?) che parte in dribbling, esegue un primo tocco di suola, poi uno di esterno per superare un avversario, poi fa una piccola croqueta (il dribbling di Michael Laudrup, o di Iniesta) per evitare un bambino avvicinatoglisi improvvisamente.

Basterebbe fermarsi qui per trovarlo eccezionale anche rispetto agli standard odierni. Persino in un’epoca in cui i video dei ragazzini fortissimi a calcio sono diventatiuna specie di inquietante sottogenere di YouTube, non possiamo rimanere indifferenti di fronte a un’espressione così pura di tecnica calcistica.

La parte più stupefacente del video deve ancora arrivare.

Dopo l’ultimo dribbling, il ragazzino cerca d’appoggiare d’esterno la palla nella porticina, ma mentre si vede un difensore respingergli il tiro, lui quasi precipita in una buca vicino a un tombino. Non una vera e propria buca, piuttosto un punto in cui la strada è diventata terra, fango e sassi. Forse per lo spavento, rimane per qualche secondo immobile in una strana posizione: mani a terra, un piede sul tombino, l’altro alla fine della buca.

L’inquadratura resta su di lui per qualche secondo e quando torna sulla palla quella è tra i piedi di un suo compagno in difesa. Quest’ultimo, con un lancio di interno destro di dolcezza straordinaria, gliela ripassa subito. Così anche la telecamera torna subito sul ragazzino protagonista, che si è improvvisamente rialzato: è in una posizione defilata, spalle alla porticina ma riesce a segnare con un tocco di interno di sensibilità e disinvoltura irreali.

Il climax perfetto di un’azione del genere: un bambino che in pochi secondi si eleva dalla materialità brutale della terra alla leggerezza aerea della tecnica. Qualcosa che però non è solo l’espressione del suo talento calcistico; piuttosto è un moto di vitalità gratuito e improvviso. E fa ancora più impressione perché un simile esempio di bellezza e leggerezza arriva in un contesto aspro, e subito dopo aver rischiato di slogarsi la caviglia o peggio.

Guardando il video ci sembrava di sentire l’asfalto ruvido sotto ai piedi. Come tutti, ho giocato molto per strada da ragazzino, ma mai scalzo, una cosa che associamo a zone del mondo in cui i bambini sono troppo poveri per avere scarpe decenti con cui giocare. In realtà, nel mio campetto, in un quartiere tutto sommato normale di Roma, c’era uno che giocava scalzo, era il più tecnico tra noi e lo faceva per semplice vanità. Arrivava, si levava le scarpe e giocava dieci minuti scalzo, poi se le rimetteva. Era un modo come un altro per trasmetterci il suo senso di superiorità: non ho neanche bisogno delle scarpe per farvi i tunnel.

Passava il tempo a sistemarsi i capelli e, mentre noi sfoggiavamo le maglie prese alla bancarella, lui indossava delle semplici t-shirt di qualche marca pariolina che oggi suona patetica (Crazy Duck, Fauro Street, RAMS) con le maniche corte leggermente arrotolate. In quel periodo io non credevo ci fossero ancora persone al mondo che giocassero scalze per necessità, neanche in Brasile. Pensavo fosse una nostra immagine stereotipica: bossa nova, donne dalle forme rotonde e dal costume sottilissimo, bambini che giocano in strada h24 con doti tecniche sovrannaturali. Probabilmente anche in Brasile quelli scalzi volevano solo tirarsela.

Tornando ai nostri giorni, il video del ragazzino è stato rilanciato da “Brazil out of context” e in questo modo è diventato una specie di pubblicità ironica dell’essenza stessa del Brasile. Dove, se non nella terra del calcio, potevamo vedere un video del genere? Sempre a cavallo tra realtà stereotipata e autenticità, ancora oggi colleghiamo la nostra immagine mentale del Brasile a bambini scalzi con doti innate, che giocano danzando e assecondando un istinto che hanno nel sangue. Bambini che vivono nelle favelas e vivono di pane e calcio. Bambini che tra le loro prime parole hanno imparato “ginga”, che si può usare indifferentemente per riferirsi a tre cose: danzare, muoversi e giocare a calcio.

Del resto è difficile non scivolare nella retorica guardando un video del genere. I fiori che nascono dall’asfalto, la gioia nella difficoltà, l’arte nella semplicità più povera. Ed è interessante come queste immagini vengano rafforzate dalla situazione di queste settimane, in cui il calcio ricomincia senza tifosi e si allontana ulteriormente dalla sua natura popolare.

È facile essere tentati di dare un’interpretazione reazionaria a questo video: l’essenza del calcio è lontana dai riflettori, dal contesto iper-mediatizzato, dagli stadi pieni, dagli stipendi astronomici. Si gioca per strada nei contesti più difficili, senza scarpe ai piedi per sentirsi in perfetta comunione con l’ambiente e col pallone.

Ci piace mettere in opposizione i due discorsi e non ci accorgiamo di quanto invece uno sia indispensabile all’altro. Ad esempio, dopo aver segnato il ragazzino lancia uno sguardo furtivo al cellulare che lo riprende: sa di essere guardato, e si esibisce nella classica esultanza di Cristiano Ronaldo. Il giocatore per molti simbolo della corruzione morale del calcio. Il suo è un gesto decontestualizzato e carico di ironia, se non fosse per la convinzione intima con cui il bambino esegue la coreografia. Come sempre è stato, ancora oggi la dimensione più spettacolare e di intrattenimento nutre la passione popolare, e viceversa.

C’è un epilogo talmente romantico di questa storia che quasi mi vergogno a raccontarlo.

Dopo che il video in Brasile è diventato virale, due club professionistici, il Flamengo e il Santos, hanno dichiarato di voler concedere un provino al ragazzino. E così oggi sappiamo che si chiama Caio e tifa Santos, il club che ha pubblicato sul suo profilo twitter una sua foto con la maglia della squadra, annunciando che farà un provino alla fine della quarantena.

Qualcuno ha commentato di prendere anche l’autore dell’assist. Chissà se un giorno potremo guardare a questo video come a un affascinante reperto storico della vita di un grande calciatore.

Ma durante la quarantena era diventata virale la foto di un altro bambino. Quello che sulle rotaie del tram di Milano colpiva la palla di tacco, indossando la maglia della Roma di Nicolò Zaniolo. Una foto pubblicata sul Corriere della Sera che è diventata subito un simbolo di libertà, dell’infanzia repressa dal lockdown: una foto che a qualcuno è sembrata finta, una messa in scena della purezza del gioco di un bambino in una città svuotata dall’angoscia e dai decreti legge (cose con cui hanno a che fare gli adulti).

Una natura consolatoria che lo accomuna al video del ragazzino brasiliano. Ai nostri occhi è rassicurante pensare che in Brasile si continui a giocare per strada con grazia cristallina, mentre il paese è messo in ginocchio dal Covid-19 e il governo cade quasi in mano a una dittatura militare. Ma dal punto di vista di un bambino la sua vitalità rappresenta un gesto molto vero e ben poco consolatorio. Il fatto che un’espressione così pura si contamini con la citazione di Cristiano Ronaldo, di uno dei maggiori simboli del globalismo calcistico, non cancella le ingiustizie e le diseguaglianze su cui si fonda il calcio attuale. Eppure dovrebbe farci forse riflettere la prossima volta che discutiamo di cosa sia il “vero” calcio.

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