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Lorenzo Iervolino
Venticinque anni senza Drazen Petrovic
23 ago 2018
23 ago 2018
Un reportage sentimentale a 25 anni dalla scomparsa del fenomeno di Sibenik.
(di)
Lorenzo Iervolino
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7 giugno 2018


Come seguendo una misteriosa e improvvisa direttiva, i cameramen si stringono spalla contro spalla formando l’abituale semicerchio. Al centro un uomo con un abito grigio chiaro e una donna dai capelli biondi fino alle spalle, completamente vestita di nero, compresi gli occhiali. Spuntano i microfoni tesi, ricoperti dalle spugne colorate. Prima l’uomo e poi la donna parlano. Lui dice qualche parola in più, con gli occhi grigio-turchesi che oscillano in diversi punti di fuga, la voce che si rompe almeno un paio di volte, tra la commozione e la ricerca del tono più consono al luogo in cui ci troviamo: il cimitero monumentale Mirogoj di Zagabria. La donna sembra sorreggere le proprie frasi con le mani, forti e stanche al tempo stesso, che vibrano nell’aria già calda. Dopo circa due minuti, o poco più, il piccolo assedio si scioglie in saluti fugaci, una decina di persone si allontana in fretta assieme all’uomo dal completo grigio chiaro, il sindaco di Zagabria Milan Bandić.


 

Gli altri presenti, non molti, rimangono a pregare in silenzio davanti alle corone di fiori o a parlare appartati, sottovoce. La donna vestita di nero è l’unica che si muove con energia e sicurezza: sistema le candele ai piedi della lapide in alabastro; ne riaccende una dopo averla raccolta da terra ed estratta dal cilindro di plastica rossa; dà l’acqua ai grandi vasi di rose bianche, che troneggiano, bellissime, davanti alle quattro steli di granito. Sulla seconda stele da destra risplende, abbagliata dal sole, l’immagine di Dražen Petrović che palleggia. Concentrato, tranquillo. Ha lo sguardo rivolto verso il campo che non c’è, la palla è incollata alle cinque dita della mano destra e la maglia che indossa è la solita numero 4, nella versione bianca della nazionale croata.


 

Altre persone, nel frattempo, si sono allontanate passeggiando a due a due. La donna ha smesso di mettere in ordine, di guardarsi di lato, perfino di farsi forza. E per un istante si blocca. Sospira. Osserva davanti a sé quell’immagine scultorea, immersa nel verde sfolgorante dell’ala nuova del cimitero; un’immagine che conosce bene e che quotidianamente la condanna a credere a ciò che vede. A non poter sovvertire quel che ancora la divora dentro. Guardo l’orologio: sono le 7:50 del mattino. Esattamente 25 anni, 2 ore e 30 minuti fa, il suo secondogenito – il «più grande sportivo croato del Novecento» – moriva in un terribile incidente stradale all’altezza di Dekendorf, in località Ingolstadt, sull’autostrada tra Francoforte e Monaco di Baviera: non aveva ancora compiuto 29 anni. E per la donna, tutto questo, nel silenzio solenne e nella cura dei gesti che, sporadici, ma attenti, rispettosi, e spesso genuinamente amorevoli le si muovono attorno, è uno strazio inaccettabile.


 

«Mrs. Petrović» le dico io con garbo, avvicinandomi.


 

Lei si toglie lentamente gli occhiali scuri. Torna dal luogo mentale in cui si trovava.


 

«Lorenzo, sei qui?» dice poi con dolcezza, stupita. Ci abbracciamo.


 

Šibenik, costa dalmata. Due mesi prima.


Josip Milaković lo incontro grazie a Biserka Petrović, la mamma di Dražen. «Lui è il tuttofare della Scuola Basket intitolata a Dražen, praticamente il settore giovanile del Šibenka, anche se sono due società diverse: penserà lui a te» mi aveva tradotto Miran, un ragazzo alto, intelligente e molto attivo, che dirige il Museo Petrović di Zagabria. Mrs. Petrović non parla inglese. Avremmo, tempo dopo, dialogato in un accettabile italiano, ma in quel momento era per lei una lingua ancora sepolta, non risvegliata.


 

Ho aspettato Josip Milaković seduto sullo spazio vuoto del monumento al giovane Dražen, una panchina in cui il futuro campione è ritratto da adolescente, i folti ricci, l’immancabile pallone da basket a terra, tra i piedi. Alle spalle del monumento c’è un campo da basket. «Lo abbiamo fatto costruire noi. Anzi, alla fine, lo abbiamo proprio tirato su noi con le nostre mani» dice Josip.


 

È un uomo non molto alto, una rarità in questa parte di Croazia, in cui noto tantissimi uomini anziani sopra il metro e novanta. Ha qualche anno in meno di quelli che avrebbe avuto Dražen oggi, che, mi dice «era compagno di scuola di mia moglie, al biennio di economia, dopo il ginnasio». Parliamo un po’ di questi intrecci personali, di quelli che ho raccolto per le strade, nei bar, attorno a quello che era stato il playground dove Dražen ha iniziato a giocare, misurandosi con i ragazzi più grandi: un canestrino attaccato a una botte di ferro issata sopra un garage. Ciascuno, in questa città, ha almeno una storia, un ricordo, un aneddoto legato a Dražen Petrović. «Perché Šibenik è conosciuta nel mondo grazie a Dražen. E noi cresciamo volendo seguire il suo esempio» mi aveva detto un ragazzo del liceo che Petrović aveva frequentato. Un ragazzo nato otto anni dopo la sua morte.


 

«I canestri li abbiamo portati noi fisicamente, io e un amico. E abbiamo dipinto il campo, messo le sedie e fatto tutto il resto» riattacca Josip Milaković, sempre con una sigaretta in mano, la risata ampia e rumorosa che fa sobbalzare il ventre sporgente. «Non poteva esserci un monumento a Dražen senza un campo in cui i ragazzi continuassero a giocare pensando a lui» aggiunge sorridente. Ma forse è più orgoglio, che contentezza, quello che il suo viso mi vuole comunicare.


 

Nei giorni precedenti, su quel campo, avevo visto tante persone diverse. Dai piccolissimi dell’asilo, sorridenti e chiassosi, ai ragazzi che nel pomeriggio venivano a sfidarsi due contro due, fino a quelli più grandi che tenevano il punteggio ad alta voce, giocando i loro quattro contro quattro confortati dal fresco della sera.


 

A Šibenik la famiglia Petrović si trasferisce all’inizio degli anni Sessanta. Jole Petrović, il padre, di etnia serba, nato però a Trebinje nel sud della Bosnia-Herzegovina, è un ufficiale di polizia. La madre, croata, cresciuta in una cittadina dei dintorni, lavora nella biblioteca comunale. Dražen nasce qui, in Dalmazia, nella più antica città di fondazione croata, il 22 ottobre 1964. Suo fratello Aleksandar, detto Aco, è più grande di cinque anni. Sono due ragazzi studiosi, amati, due come tanti nella Jugoslavia che sopravvive tra i due blocchi in conflitto. Il padre li segue negli studi, la madre li iscrive alla scuola di musica della città. Aco studia clarino, Dražen la chitarra. Ma un altro oggetto – forse, chissà, pure questo lo potremmo definire uno strumento musicale, in un certo senso – sta per irrompere nella vita di entrambi. E, contro ogni possibilità di controllo dei genitori, diventerà la loro ossessione, il loro destino: un pallone da basket.


 

Dražen riceve il primo, in regalo, a dieci anni. Non lo abbandonerà più. Aleksandar è uno dei giovani cestisti più interessanti della città e già all’età di 14/15 anni, si parla di lui in tutto il paese. È un grande talento, il futuro playmaker della nazionale, si dice. Mentre Dražen è, per un po’ di tempo, solo il fratellino appiccicoso di Aco Petrović. Lo segue ovunque, lo imita. Fuor di metafora, è il suo “portaborse” agli allenamenti.


 

Ma è da questa relazione, fatta di ammirazione e ardente competizione, che nasce il Petrović giocatore. E mi riferisco ovviamente a Dražen: farsi notare da Aleksandar, diventare come Aleksandar, sfidare Aleksandar. Infine batterlo ed essere più grande di lui. Tutte cose che in pochi anni accadono.


 

Sull’infanzia di Dražen Petrović si dicono e si scrivono, spesso, le stesse ripetitive informazioni. Elementi, per chi ne parla e ne scrive sotto qualsiasi forma, a cui non manca mai però il sostegno del rispetto, dell’ammirazione. Di una certa forma di amore. Dražen Petrović e le sue sveglie all’alba – alle cinque? alle sei? alle sei e mezza? – per andare ad allenarsi da solo – ma dove? alla palestra della scuola, al palazzetto? – e a che età? A volte, si legge in questa frammentata corrispondenza sentimentale che da noi in Italia, come in tantissimi altri paesi, continua ad essere inviata a un indirizzo inesistente, a otto anni, a undici. O forse più tardi? E ancora: le chiavi della palestra, il tiro che nei primi anni è un mattone – sembra impossibile crederlo, ma lo stesso Dražen diceva di sé «c’è poco da fare, non ero un tiratore naturale, quindi potevo solo allenarmi duro». E così le raffiche di duecento tiri, trecento tiri, o cinquecento? Numeri che si susseguono e si scavalcano, in una leggenda che aggira la realtà, la stravolge, ma non la tradisce mai, perché la verità in fondo a tutti i numeri e gli aneddoti stantii è questa: il giovane Dražen vive per il basket e dedica al suo obiettivo adolescenziale – diventare più forte di suo fratello Aleksandar, passato a vent’anni al forte Cibona di Zagabria – ogni minuto del suo tempo.


 

A Šibenik, soprattutto nei mesi caldi, la vita inizia alle sei di mattina, le saracinesche si alzano, e le persone scendono a piedi verso la città vecchia, affacciata sull’Adriatico. E spesso, proprio a causa del caldo, gli allenamenti delle squadre giovanili di basket vengono anticipati rispetto all’orario scolastico, alle 7:30, per poi riprendere nel tardo pomeriggio. Ma nonostante questa aurea di eccezionalità diminuita, c’è solo un tredicenne – sì, inizia a farlo in maniera sistematica e ossessiva all’età di tredici anni – che si alza tutte le mattine alle 6:15 e alle 6:30 è già ad allenarsi al Baldekin, il palazzetto del Košarkaški Klub Šibenka, squadra professionistica della seconda divisione iugoslava in cui lui inizia a giocare nel 1976, all’età di dodici anni. Il palazzetto spesso è aperto, oppure glielo apre Jakov Ivaš, il bidello della vicina scuola primaria (un ciclo di studi equivalente alle nostre elementari e medie messe assieme), per la quale il Baldekin funziona da palestra per le lezioni di educazione fisica degli studenti.


 

È in queste mattine, da solo, o assieme a Teta Ana — “zia Anna”, la signora che rassetta il palazzetto a quell’ora, lavando per prima la metà campo lasciata libera da Dražen – che il ragazzo lima la sua ambizione. Inizialmente tira per un’ora. Da ogni posizione, non c’è ancora l’arco dei tre punti. Usa le sedie distribuite sul campo per provare finte, crossover, combinazioni di palleggi, arresti e passi. Non vede l’NBA, che in Jugoslavia non arriva, «al massimo» racconta il suo dirimpettaio e migliore amico d’infanzia Neven Spahjia (attualmente allenatore del Maccabi Tel Aviv), «vedevamo qualche documentario su Pete Maravich o delle brevi trasmissioni tramite la tv italiana». Quindi i suoi modelli vengono tutti dai grandi giocatori della cosiddetta Prima generazione d’oro del basket jugoslavo. Dražen infatti si mette in testa di affinare le proprie abilità fino ad accentrare su di sé la capacità di tiro di Dragan Kicanović, il passaggio di Mirza Delibašić e la difesa di “Moka” Slavnić. Sarà proprio quest’ultimo, vincitore di tre ori europei e di un mondiale con la scintillante nazionale iugoslava degli anni Settanta, che in qualità di giocatore/allenatore lo lancerà in prima divisione a soli quindici anni, nel campionato 1979-80.


 

Non vedeva l’NBA, è vero, ma il basket americano, quello universitario, sarà parte fondamentale della sua formazione, in un’epoca in cui pochissimi europei andavano in NCAA e praticamente nessun non-americano – al di là di sperimentali, se non addirittura casuali, insignificanti, avventure – aveva giocato tra i professionisti statunitensi. Attraverso le conoscenze e l’influenza dell’allenatore Mirko Novosel, arrivano in Jugoslavia tanti coach di squadre collegiali: tra questi c’è Bob Sassone, del Bonaventure College, che si accorge del «ragazzino coi ricci che si allena nell’altra metà campo». Lo coinvolge nelle partite con i grandi. Poi chiede all’allora allenatore della squadra cadetti del Šibenka, Nikola Kessler, perché non facciano giocare quel fenomeno. La risposta è secca: «Non è ancora pronto, è selvaggio. Indomabile».


 

Ed è invece proprio quell’indomabile Dražen, che Slavnić lancia in prima squadra al termine dell’estate del 1979. Vuole dargli l’opportunità che a lui da giocatore non avevano concesso: «Non volevo che Dražen dovesse aspettare come me fino a 21/22 anni, in panchina. Era forte e lo misi in campo» ricorda “Moka”. Ma nelle prime due stagioni Dražen gioca pochi minuti, forse chissà, proprio per non oscurare l’importanza dello stesso Slavnić, come lui playmaker, nazionale 29enne, con il proprio orgoglio da difendere. La svolta però è veramente vicina: nel campionato 1981-82, Dražen gioca una media di venti minuti a partita nei primi cinque turni, con buone percentuali realizzative. A novembre arriva al Baldekin l’Hapoel Tel Aviv, per il ritorno di Coppa Korac. Dražen segna 20 punti ed è decisivo per la vittoria. Ha appena compiuto 17 anni. Da quel momento in poi non esce più dal campo.


 



 

Dai 15 ai 19 anni, trascorre tutte le estati sotto la guida di coach Rusmir Halilović, capo-allenatore del settore giovanile della nazionale. Halilović si prende cura dei migliori talenti jugoslavi, preparando per ciascuno allenamenti individuali specifici, e insieme al suo staff organizza trasferte negli USA. Chiede a Dražen di lavorare sul tiro da fuori, di non accontentarsi del suo incredibile primo passo, della fiducia che ha con la palla in mano; di crescere ancora, al di là delle letture da giocatore già maturo. Gli dice: «Devi rendere il tuo tiro sempre uguale». Dražen non se lo fa ripetere due volte. Corrompe letteralmente dei suoi compagni di classe comprando loro cioccolate o sigarette, se non a volte lo stesso bidello Iakov con dei drink, al fine di farsi prendere i rimbalzi e passare il pallone. Rende routine la sua meccanica di tiro. Non smette prima di duecento segnati. Poi trecento. Dopo l’introduzione del tiro da tre punti, quando sarà al Cibona, dal 1984-85, non se ne va dalla palestra se non mette a segno almeno una batteria di triple da 90 su 100. E succede molto spesso che dopo la prima ne completi una seconda, e poi una terza.


 

Ai campionati europei cadetti del 1981 in Grecia segna 227 punti in 7 partite: più di 32 di media, senza il tiro da tre. L’intero continente si accorge di lui. E grazie alle tournée americane — e alla promozione, da 17enne, nella nazionale maggiore allenata da Boša Tanjevic — Dražen dal 1981 al 1986 gioca ben 46 partite contro le migliori squadre NCAA. Una sorta di stagione parallela, in cui si misura con i giovani Patrick Ewing, James Worthy, Antoine Carr, Sam Perkins, Doc Rivers, Cliff Livingston e sua maestà Michael Jordan, che diventerà per lui l’avversario preferito.


 

Il suo gioco diventa più duro, il fisico più esplosivo. Gli hanno cambiato la dieta, impedito i dolci di cui andava goloso, diminuito i carboidrati. Continua con la sua incredibile routine giornaliera: gli allenamenti al mattino presto, la scuola, poi i compiti nel primo pomeriggio e di nuovo allenamenti, con i cadetti, con gli juniores e con la prima squadra la sera. Cena. Letto. E tutto daccapo. A 18 anni gioca una stagione folle, la quarta con il Šibenka. Finalmente sfida e batte suo fratello Aleksandar, che con i campioni nazionali del Cibona torna a casa per la prima giornata di campionato. Il fratellino, ormai astro nascente del basket jugoslavo, la mattina dell’incontro dissemina per tutta casa bigliettini intimidatori; in campo, per ben due volte, gli fa passare la palla in mezzo alle gambe. Segna un canestro dopo l’altro, mostra la lingua, esulta sotto il settore caldo dei tifosi arancio-neri, saltando e gridando come se a ogni azione vincente si aggiudicasse una coppa del mondo. Era anche questo Dražen Petrović: provocatorio, competitivo fino all’eccesso. Uno che non voleva soltanto vincere, ma vincere da protagonista indiscusso e, se c’era la possibilità, annientare l’avversario. Lo dimostra il suo record tanto sbandierato di 112 punti in una singola gara, ottenuto nel 1985, quando veste la maglia del Cibona, contro l’Olimpija Lubiana che in quell’occasione è però rappresentata dalla squadra juniores, distrutta 158-77. Dražen segna dieci triple, fa 22/22 dalla lunetta. Vuole ogni pallone, non si ferma un’azione; sa che può scrivere una pagina di storia, un record imbattibile – e ancora imbattuto – e non ha pietà. Quando chiedo a Josip Milaković come si spiega questo atteggiamento, lui mi dice che da loro c’è un termine per definire la fusione tra competizione e scherno, un termine preciso. Mi guarda e dice: «dišpet». Io sorrido, non c’è bisogno di aggiungere altro.


 

L’epica di Dražen Petrović al Šibenka può essere riassunta alla perfezione attraverso una partita drammatica, surreale, mi viene da dire del tutto balcanica: la finale del campionato 1982-83, la sua ultima in maglia arancio-nera. Il Šibenka, che non ha mai vinto un titolo, ha portato a termine una grandissima stagione. Oltre a Dražen ci sono in campo due futuri “padri illustri”, l’ala Predrag Šarić (padre di Dario) e la guardia Srecko Jarić (padre di Marko), e due ottimi giocatori da quintetto come Branko Macura e Zivko Ljubojević. Dall’altra parte c’è il Bosna Sarajevo allenato da un giovane Svetislav Pešić. È gara-3, la serie è sull’1-1. Si gioca al Baldekin in virtù del primato in regular season, un record di 16-6 da antologia. Il Baldekin ha 900 posti a sedere ufficiali e una capienza massima di 1.500 spettatori: quella sera ce ne sono 4.000, arrampicati fino ai cornicioni sotto le vetrate dell’impianto. Si contano otto agenti delle forze dell’ordine in tutto, una buona metà dei quali fa un tifo sfegatato per la squadra di casa. È un «Ši-Ši-Šibenka» ritmato per quaranta minuti, musica folkloristica suonata dalla banda di ottoni in curva, che poi è un segmento di sedili grigi (oggi arancio-neri), a pochi metri dalla linea laterale. A due secondi dalla fine, il Šibenka è sotto di uno. Rimessa in favore, palla a Dražen. Tiro. Fallo. Fallo? Proteste, la panchina ospite si riversa in campo, i dirigenti corrono al tavolo degli ufficiali di gara. Sì, fallo, conferma Ilija Matjiević, uno dei due arbitri. Dražen va in lunetta. Segna il primo. Ovazione. Rade Petrović, che porta il suo stesso cognome ma non è un parente bensì il secondo arbitro, nel passargli il pallone gli propone di sbagliare il secondo libero. Anche Vlado Djurović, allenatore del Šibenka fa segno a Dražen di lasciar stare e accontentarsi del supplementare. Con tutte quelle contestazioni al fischio arbitrale, l’allenatore di casa sente puzza di bruciato. Ma Dražen non ne vuole sentir parlare. Segna il libero. Il suo punto numero 40. È festa grande.


 

La notte precedente aveva rinunciato al ballo dell’ultimo anno di liceo. Si era concentrato totalmente sull’appuntamento fino al quel momento più importante della sua vita: l’opportunità di dare una gioia enorme alla sua gente. Ma la puzza di bruciato diventa, in sole sedici ore dal fischio finale, un vero incendio. Nonostante l’arbitro Matjiević difenda in diretta nazionale tv il proprio operato, supportato dalla moviola che mostra il fallo di Hadzic sulla mano sinistra di Petrović, la gara viene annullata dalla Federazione. Viene tutto rinviato a un re-match in campo neutro, a Novi Sad. Dražen non può accettarlo. Non giocherà. Il Bosna Sarajevo, città in cui intanto si stavano organizzando le Olimpiadi invernali del 1984, più forte politicamente, si aggiudica il campionato. «Per noi, quel titolo è vinto» mi dice, sempre sorridente, Josip Milaković, dopo una giornata intera in cui passiamo in rassegna le scuole che Dražen ha frequentato, compresa quella di musica, attraversiamo le sue strade, gli angoli di città che preferiva. Visitiamo la casa di infanzia dei Petrović al primo piano di Ulica Petra Preradovića numero 3 (già, proprio quel 3 che si porterà fino in NBA) «e nessuno ce lo toglierà, il campionato del 1983. Il campionato di Dražen Petrović. Del nostro piccolo grande campione».



1° giugno 2018. Treviso


«A quell’epoca non c’era uno scambio di giocatori tra l’NBA e l’Europa. La maggior parte dei giocatori NBA ignoravano le possibilità e le caratteristiche dei campionati europei e i proprietari delle franchigie non pensavano neppure di poter valutare un giocatore europeo per il proprio roster, fondamentalmente perché non li conoscevano». Sono seduto nel dehor dell’Hotel Maggior Consiglio di Treviso, è il giorno di convocazione dei partecipanti del fu Eurocamp, la Summer League Europea dell’NBA. Ragazzoni provenienti da tutti i paesi del continente gironzolano per la hall in ciabatte e calzini, con i pantaloncini rossi che gli hanno consegnato all’arrivo. Il mio interlocutore è il manager della Summer League di Las Vegas, a cui questa di Treviso è collegata. Si chiama Warren LeGarie, ha 65 anni. Dall’autunno del 1988 fino all’incidente in cui perse la vita è stato l’agente di Dražen Petrović.


 

«Iniziai la mia attività presentandomi a giocatori e dirigenti nel corso della Summer League a Los Angeles. Non mi conosceva nessuno, non fu facile. Io però conoscevo bene il basket europeo, le caratteristiche non solo dei diversi campionati, ma delle culture, delle lingue, perché passavo tantissimo tempo in Europa: cercavo di capire fino in fondo cosa volesse dire vivere in un altro paese» prosegue. «In Italia mi ascoltò e mi aiutò molto Valerio Bianchini. Iniziai quindi a convincere alcuni giocatori NBA a intraprendere esperienze nei campionati europei in cui il livello era alto, gli stipendi davvero buoni». «E per il percorso inverso?» chiedo io, intendendo la possibilità che i giocatori si muovessero dall’Europa verso l’NBA. «Per il percorso inverso si dovette aspettare la fine degli anni Ottanta. Alcuni giocatori su cui scommettere c’erano. L’NBA però non era ancora pronta».


 

LeGarie e Petrović si conoscono all’inizio della stagione 1988-89 che Dražen gioca con la maglia del Real Madrid. L’agente era andato nella capitale spagnola per incontrare un suo assistito, Johnny Rogers. Aspettando il suo uomo, nel silenzio dei corridoi sotto le gradinate, sente un solo pallone che rimbalza. Attratto da quel suono – che sì, forse per alcuni è proprio musica – si avvicina al campo. E trova il grande giocatore jugoslavo che è lì a tirare, da solo, mentre tutti gli altri sono già sotto la doccia. LeGarie ha visto giocare Petrović, lo ha seguito, ma è la prima volta che i due si parlano dal vivo. E la prima domanda che l’agente ha la freddezza di fare al suo futuro assistito, è quella giusta: «Che dici se ti prendo i rimbalzi?». Oltre il rapporto di lavoro, nasce tra i due una solida, intensa, fraterna amicizia.


 

Ma cosa era successo fino a quel momento? Fino all’espatrio di Dražen — per il quale era stato necessario modificare il regolamento della Federazione di basket jugoslava che impediva di lasciare il paese fino al compimento dei 28 anni, un limite imposto per dare il meglio della propria carriera in patria (e andare a guadagnare stipendi migliori solo negli ultimi anni) — era successo che dopo la rocambolesca finale contro il Bosna, Dražen aveva rimandato la sua iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza – la stessa a cui era iscritto suo fratello – per andare ad assolvere il servizio di leva obbligatoria di un anno.


 

Va quindi a Pola, dove raduna un gruppo di buoni giocatori e prosegue la sua pratica di estenuante allenamento. A Pola intanto mette in ordine le tantissime offerte che gli sono arrivate da tutte le maggiori squadre del paese e sceglie il Cibona Zagabria, la squadra in cui milita Aleksandar. Lì trascorre quattro stagioni strabilianti. Nella prima, l’annata 1984-85, quella del record dei 112 punti, chiude a 43.6 punti di media. Vince lo Scudetto jugoslavo (primo e unico), la coppa nazionale (prima di tre in quattro anni), la Coppa dei Campioni (prima di due consecutive, al centro di un decennio in cui il massimo trofeo continentale se lo aggiudicano solo squadre italiane e croate), e dà vita a un ciclo eccezionale, nonostante il Cibona perda due finali di playoff Scudetto.


 

Le partite che gioca in questi quattro anni andrebbero descritte una per una, azione per azione, finta per finta, finanche gomitata per gomitata. Per fortuna c’è chi l’ha fatto: Stefano Olivari in Italia, Todd Spehr negli Stati Uniti, Juan Francisco Escudero in Spagna e soprattutto Marjan Crnograj e Vlado Radicevic in Croazia, nei loro puntuali e appassionanti resoconti della carriera di Petrović. «Dražen era sempre concentrato sul suo percorso di crescita professionale. Preparava le sue mosse con due anni di anticipo. Voleva sempre salire un gradino: cercare la sfida successiva» ricorda Aco Petrović. Ed è così che a ventidue anni progetta l’assalto all’NBA per quando ne avrà 24: «Sarò più pronto di adesso, ed è lì che voglio andare». Intanto si trasferisce a Madrid, in cui lo stipendio è già da NBA, e dove diventa l’idolo di tifosi che fino a quel momento lo avevano odiato dal profondo: Dražen, in maglia Cibona, aveva giocato contro i madrileni partite eccezionali e turbolente (come questa), ma si sarebbe fatto perdonare, portando nella capitale spagnola la Coppa del Rey e la Coppa delle Coppe, quest’ultima vinta inscenando un duello memorabile con Oscar Schmidt della Juvecaserta: 62 punti Dražen, 44 Oscar.


 

«Abbiamo dovuto forzare il contratto che lo legava al Real. Mettemmo in campo tutte le forze a disposizione. I Portland Trail Blazers che, come sai, lo avevano scelto al Draft del 1986 assieme a Arvydas Sabonis, nell’89 erano fortemente decisi a prenderlo e Dražen ad andare. Ci rendemmo conto che con lui sarebbe potuta iniziare finalmente una nuova epoca per i giocatori europei e per l’NBA. Ma fu dura. Davvero dura».


 

Con il numero 24 assoluto nel Draft del 1986 i Portland Trail Blazers scelsero Arvydas Sabonis, centro lituano/sovietico, primo europeo ad essere scelto nel primo turno. Nello stesso Draft, i Trail Blazers selezionano anche Dražen Petrović, nel terzo giro, con il numero 60 assoluto. Sabonis fu bloccato dalla sua federazione e dal governo: inammissibile che in quegli anni un cittadino sovietico andasse a lavorare per il nemico. Il suo viaggio oltreoceano è rimandato di ben nove anni. Petrović invece va.


 

Sabonis e Petrović sono in quel momento, senza alcun dubbio, i due migliori giocatori europei, i due sui quali i primi pionieri, come il GM di Portland Bucky Buckwalter e lo stesso Warren LeGarie, non hanno dubbi a puntare: non solo possono giocare in NBA, ma possono spostare gli equilibri. «Chissà cosa sarebbe stata la nostra squadra se Petrović e Sabonis fossero venuti da noi già nel 1986. Eravamo una squadra dal grande potenziale, un gruppo in costruzione. Avremmo potuto vincere il titolo» racconta Clyde Drexler, la guardia titolare di quella squadra, il giocatore più rappresentativo della franchigia, che in qualche modo copriva, assieme a Terry Porter, il posto e i minuti a cui Dražen ambiva.


 

«Non si trattava solo di Porter e Drexler, e successivamente, nel secondo anno, di Danny Ainge. Il fatto era che coach Adelman aveva messo anche Danny Young davanti a Dražen, in rotazione. Chi se lo ricorda Danny Young?» prosegue LeGarie, mentre i ragazzi continuano ad arrivare al Maggior Consiglio e ad essere accolti dallo staff della Summer League. Vengono consegnate le borse, lo schedule dei tre giorni, la divisa con il famoso omino stilizzato rosso e blu. «Sebbene la dirigenza fosse convinta che Dražen potesse fare bene, coach Adelman non voleva tra i piedi uno che doveva imparare un nuovo sistema di gioco, che parlava poco la lingua, e che nelle sue caratteristiche aveva l’esigenza di tenere molto il pallone tra le mani.  Era il miglior giocatore europeo, da lì a poco avrebbe vinto da protagonista il mondiale argentino sbarazzandosi degli Stati Uniti in semifinale, eppure aveva a disposizione una manciata di minuti a fine gara».


 

Con LeGarie parliamo a lungo delle difficoltà di Portland e lui, gradualmente, cambia tono, s’immalinconisce. Dopo la morte di Dražen non volle rappresentare più nessun giocatore. Petrović era diventato l’idolo di suo figlio e l’orgoglio della sua sfida personale vinta contro il sistema. Gli chiedo se vuole fermarsi un po’, che per me non c’è problema. Ma lui mi dice assolutamente no, che gli fa piacere riparlare di quei momenti perché le emozioni sono le vere cose importanti della vita, sono quel che ci continuano a condizionare nei nostri giorni.


 

«Era triste, c’è poco da fare. Alcune volte era davvero umiliante, per uno come lui che poteva guadagnare il doppio in Grecia o in Spagna, uno che aveva vinto tutto, entrare a tre minuti dalla fine sul +25. Quando nacque la figlia di Drexler, Dražen entrò in quintetto e ne fece 23. Era triste, sì, ma reagì lavorando ancora più duramente. Io avevo già portato Fernando Martìn in NBA, ma era durato una sola stagione, aveva giocato una ventina di partite senza mai incidere. Ed era tornato a casa. C’era stato il bulgaro Georgi Glouchkov: ancora peggio. Dražen non voleva in nessun modo essere il prossimo Martìn, il prossimo Glouchkov. Lui voleva essere Dražen Petrović: il giocatore che apre le porte dell’NBA ai giocatori europei».


 

Dražen si allena ancora più forte. A casa trascorre ore alla cyclette orizzontale o al telefono con famigliari, amici, colleghi per sfogarsi. Renata, la sua fidanzata, lo ha seguito in questa esperienza americana. Dražen è sconfortato. Eppure non molla. Assieme a LeGarie decide che devono farcela. E la svolta arriva grazie ai numeri. Petrović è sempre stato affascinato dai numeri, ne ha sviluppato nel tempo una vera mania. Ricordava tutte le sue statistiche e quelle degli avversari. Sapeva in tempo reale durante una partita quanto stesse tirando ai liberi quello o quell’altro giocatore, quale fosse il numero di falli di tutti i suoi compagni. Memorizzava le targhe, numeri dei documenti. Ogni suo numero di maglia significava qualcosa. «Un giovane, Roger Newell [figlio del grande Pete, ndr], che in maniera del tutto avanguardistica stava iniziando a vendere alle franchigie NBA un sistema di calcolo di analytics che aveva adattato dalle Major League di baseball, venne da me a farmi notare come Dražen, sebbene avesse un minutaggio molto ridotto, risultasse il migliore in due categorie di efficienza: la percentuale di tiro assoluta e la conversione di punt

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