Lo scorso 30 aprile, in occasione del trentesimo anniversario della sua scomparsa, tanti canali TV hanno riproposto la memorabile filmografia di Sergio Leone. Opere lunghe, carrellate sconfinate, ore e ore marcate dall’ostentata dilatazione dei tempi e degli spazi che è poi l’essenza suprema del genere western: da Robert De Niro e James Woods che spendono infiniti minuti a girare il cucchiaino nella tazzina di caffè al trionfo di effetti sonori senza una riga di dialogo nella sequenza d’apertura di C’era una volta il West.
Negli stessi giorni, in un universo parallelo ma neanche poi tanto, Vincent Kompany regalava al Manchester City una vittoria decisiva per la Premier League con il primo gol da fuori area in carriera e Pep Guardiola commentava così quest’estemporaneo coniglio dal cilindro pescato dal suo capitano: «In questo spettacolo, gli artisti sono i calciatori».
Nello sport di altissimo livello il confine tra arte e agonismo è sempre più sottile: Messi e Ronaldo sono atleti o performer? E quello di Federer, è tennis o balletto contemporaneo? E sotto che categoria classificare i momenti VAR che in questa stagione hanno debuttato anche su scala internazionale, in cui un individuo vestito in modo vistoso e immediatamente riconoscibile (l’arbitro) si relaziona con un’entità virtuale manovrata da suggeritori invisibili, di fronte a un pubblico a volte dieci o quindici volte più folto di quello di un tutto esaurito alla Royal Albert Hall di Londra? E se poi – Dio non voglia – la tecnologia si ribellasse, non ne scaturirebbe un dilemma di portata kubrickiana simile a quello dell’astronauta Bowman al cospetto di HAL 9000 che non rispondeva più ai comandi?
Queste e altre sono le meditazioni celestiali che abbiamo avuto tempo e modo di formulare, davanti agli intervalli VAR più suggestivi della stagione.