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Federico Valverde ha cambiato il Real Madrid
02 mar 2020
02 mar 2020
Con pazienza e dedizione è diventato centrale nel Real Madrid di Zidane.
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Nella foto che lo ritrae al King Abdullah Sports City Stadium di Gedda al termine della finale di Supercopa di Spagna, con il premio di Man of the Match tra le mani Federico Valverde ha un sorriso leggermente teso, così timido da apparire rasente la vergogna. Probabilmente è il primo giocatore della storia a guadagnarsi la palma di migliore in campo in una partita in cui, nonostante il suo Real alla fine sia uscito vincitore (ai rigori), è stato espulso - a cinque minuti dalla fine dei supplementari.

Nell’istantanea del preciso momento in cui le sue gambe entrano in contatto con quelle di Álvaro Morata, per il fallo dell’espulsione, c’è qualcosa di disturbante.

Foto di Giuseppe Cacace / Getty Images.

Le immagini in movimento ci restituiscono un'impressione leggermente differente. Morata si sta involando verso la porta del Real, e Valverde assume la posa del centometrista che sta per tagliare il traguardo segnando un record, o semplicemente per compiere uno sforzo sovraumano. Rincorre l’attaccante fin quando non realizza che non esiste che una maniera di frapporsi tra Morata e l’inevitabile: falciandolo. È un fallo che conserva qualcosa di epico, che avevamo già visto fare e che non riusciamo in fondo a trovare così malvagio, forse perché ispirato da un sentimento superiore, quello del sacrificio. Valverde siimmola.

«È la mia visione da giocatore: non è questione di divertirsi o soffrire in campo. È questione di essere utili, costanti, che tutto ciò che si fa abbia un significato calcistico», aveva detto in tempi non sospetti. È un gesto da gaucho, pieno di garra, ovviamente, ma di una stoffa diversa, più gentile. Il premio di Man of The Match, dopotutto, Federico “Pájaro” Valverde lo aveva già conquistato - meritatamente - prima dell’espulsione, dopo aver giocato una partita perfetta, il 91% dei passaggi completati, la fluidità di movimenti perenni da un’area all’altra, il moto continuo dei passerotti se li metti in una stanza con le finestre chiuse. Il fallo, lo spirito che lo anima, è stato solo il sigillo sulla sua partita.

Un diverso tipo di predestinazione

Del “Pájaro” si dice che giocasse benissimo a calcio già quando aveva due anni, con il ciuccio ancora in bocca e il pannolino sotto ai pantaloncini. Fluttuava da una parte all’altra del campo, come indemoniato, senza pace, Federico. Per questo presero a chiamarlo “Pájarito”. A scoprirlo è stato Nestor Gonçalves, un ex calciatore, che un giorno lo accompagna da Rodolfo Catino, oggi vicepresidente del Peñarol, e gli dice «questo signore diventerà il miglior calciatore uruguayano dei prossimi tempi».

Giocava in attacco, per manifesta superiorità tecnica, eppure non gli piaceva, perché non poteva mai tenere il pallone troppo a lungo tra i piedi, costretto dalla contingenza del gol. Sua madre Doris arrivò a chiedere agli insegnanti di scuola calcio di toglierlo da quella posizione, perché a casa piangeva.

Foto di Pablo Porciuncula / Getty Images.

A 13 anni Valverde varcò per la prima volta i cancelli del complesso “Uruguay Celeste”, il centro sportivo in cui prendono vita tutte le Selecciones uruguaiane, in cui il “Maestro” Tabárez incontra e segue ognuna delle possibili nuove leve della sua Celeste. A quei tempi aveva una timidezza quasi patologica, una voce impercettibile. All’”Uruguay Celeste” si accorgono che la sua comprensione del gioco è assurda, data l’età. In più Federico racchiude in sé tutte le grandi caratteristiche che fanno di un calciatore in erba un calciatore futuribile: ha fisico, ha falcata, ha una predisposizione al sacrificio e tecnica.

Nel 2015 la Celeste U17 gioca l’ultima partita del Sudamericano in Paraguay contro i padroni di casa. Basta un pari per qualificarsi ai Mondiali dell’estate successiva: ma la Celeste, con Valverde in campo, viene sconfitta. In quel torneo - al quale è arrivato dopo essersi allenato, in Gennaio, anche con l’Arsenal - il “Pájaro” segna 8 gol in 7 partite. Colpisce così tanto l’occhio da tornare a casa senza pass per il Mondiale, ma con un accordo di massima con il Real Madrid che non ha fretta di portarlo nel Vecchio Continente.

Valverde resta al Peñarol, la società in cui è cresciuto e di cui è tifoso, come il padre. Con gli aurinegros esordisce quella stessa estate, a 16 anni. Farà in tempo anche a vincere un campionato uruguayano, da compagno di squadra di Diego Forlán e Marcelo Zalayeta. Il suo gioco lievita, come lievitano normalmente i corpi - e gli ormoni - degli adolescenti.

Sogni

Secondo sua madre Doris, a quattro anni Fede ha fatto un sogno: si trovava in uno stadio pieno, indossava una maglia bianca. Il padre era preoccupato fosse una maglia del Nacional. Lo stesso sogno si è ripetuto quando aveva 11 anni. A 17 Federico sta davvero indossando una maglia bianca, in uno stadio lontano, in cui la gente sulle tribune parla con un accento “strano”, come nel sogno ricorrente: la maglia è quella del Castilla, e nello stadio Alfredo Di Stéfano Valverde segna il suo primo gol, al debutto.

Santiago Solari è stato il tecnico che ha creduto per primo in Valverde. Nella filiale madridista lo impiega come pivote, un ruolo che gli calza ma nel quale sembra venga valorizzato solo il suo talento distributivo, e non quello associativo nella costruzione delle manovre offensive. Un ruolo, in fin dei conti, troppo statico, troppo posizionale. Un ruolo nel quale gli vengono precluse lo sgroppate, le sortite offensive, la possibilità di tirare verso la porta avversaria. Solari confida così tanto nel suo apprendimento tattico che a volte lo schiera anche come centrale di difesa.

Ma il calcio di Valverde è mobilità perenne. Passi corti, una certa esplosività. Di queste caratteristiche ci saremmo resi conto al Mondiale U20 disputato nel 2017 in Corea del Sud, al quale partecipò senza aver potuto difendere i colori della Celeste nel Sudamericano qualificatorio, ma non per questo senza potersi affermare come uno dei centrocampisti emergenti del calcio mondiale.

Durante il Mondiale il “Pájaro” è anche protagonista di una piccola polemica. Dopo un gol, contro il Portogallo, esulta mimando occhi a mandorla. Gli organizzatori pensano subito a un caso di body-shaming. “Pájarito” spiegherà invece che si trattava di un tributo al suo procuratore, Edgardo “El Chino” Lasalvia.

Foto di Kim Doo-Ho/AFP / Getty Images.

“Pájarito” in quel Mondiale impara che ogni gesto va soppesato, in campo e fuori. Che nessuno è mai esclusivamente un vincente, o un perdente. E che è sempre, in una maniera o nell’altra, una questione di responsabilità, di aderenza al proprio destino, e al proprio ruolo. Valverde non è un fenomeno: di Pelé, Maradona, di calciatori che già a 15 anni sono inarrestabili, ne nascono uno o due ogni cinquant’anni. Gli altri sono il risultato dell’applicazione, dello studio.

Nel Mondiale U20 in cui l’Uruguay, sconfitto in semifinale dal Venezuela, arriverà quarto, Valverde si rivela il tipo di calciatore che conosciamo oggi: strappi e accelerazioni improvvise, dribbling nello stretto, smistamenti del pallone con precisione sempre puntuale, mai alambiccosa, pulita nella sua geometria. Ma, al tempo stesso, anche un giocatore di una fisicità dirompente, con un dinamismo lontano dal mulinare di gambe spasmodico, nervoso e confusionario di un Lucas Torreira, e più vicina alla corsa a lunghe leve di Rodrigo Bentancur.

Dopo una stagione al Castilla, il Real sceglie di mandare Valverde in prestito, ma in un club di Liga. Finisce in Galizia, al Deportivo La Coruña, che è per certi versi un’attestazione di maturità. Ovviamente non così carica di significato come l’esordio con la Celeste maggiore, da titolare, non ancora ventenne, in una gara piuttosto delicata contro il Paraguay, in trasferta.

Dal momento che la storia di Federico Valverde è anche, soprattutto, una storia di perfetta puntualità non risulterà difficile immaginare cosa abbia combinato il “Pájarito” in quella partita: un gol pazzesco.

In quella partita Tabárez getta nella mischia Valverde e Nández, prima ancora di Bentancur o Lucas Torreira, con l’idea di svecchiare un centrocampo ormai a fine ciclo, gettando i semi da cui fioriranno i rovi di rosa del futuro prossimo del calcio Celeste.

Quello del “Maestro” Tabárez non era però un ricambio estemporaneo. Valverde, per esempio, è anche stato il primo a esser tagliato fuori dai pre-convocati per il Mondiale di Russia 2018. «Abbiamo sbagliato?», dice oggi al proposito Tabárez. «Secondo noi no [...] non ce la siamo sentita di esporlo, di relegarlo a un ruolo secondario, in un momento in cui non aveva ancora completato la sua evoluzione».

Evoluzione

Se prendessimo in prestito un’immagine astronomica potremmo dire che ci sono due maniere in cui un astro nascente può illuminare la volta celeste del campo: attraversandolo come una cometa, anche se il più delle volte è più una meteora, cioè un’ illusione di cometa; oppure preparandosi a sorgere nel giorno dell’equinozio, dopo una lunga preparazione di cicli solari.

L’esplosione - che non è tale, ma è più una lievitazione giunta al punto ottimale - di Federico Valverde appartiene alla seconda tipologia. Dev’essere per questo che da quando Zidane lo ha introdotto nell’undici titolare del Real la sua parabola non ha conosciuto flessione, e l’intero sistema di gioco delle “merengues” ha finito per beneficiare del suo bagliore per rischiararsi.

La prima presenza da titolare di Valverde in questa stagione è stata contro l’Osasuna, alla sesta giornata. Zidane lo ha schierato da volante con compiti di rottura e costruzione, al fianco di Casemiro. Con lui in campo da titolare, in affiancamento a Toni Kroos e al brasiliano, il Real è rimasto imbattuto per dieci partite di Liga e tre di Champions.

Relegato ai margini a inizio stagione, schiacciato dalla possibilità che a Madrid potesse arrivare Paul Pogba, Federico è stato paziente. La sconfitta all’esordio di Champions contro il PSG ha spinto Zidane a rischiare: spesso si dice che la disperazione è la madre di ogni innovazione, nel caso del “Pájaro” si è rivelato un assioma. «La mia migliore caratteristica è la visione di gioco e il mio ritmo di gioco col pallone», ha detto in un’intervista a Real Madrid TV. «E ho sempre il desiderio di correre, arrivare in area, tornare alla mia. Difendere e attaccare. È come se il sangue mi ribollisse, in campo».

Valverde è sempre funzionale. Soprattutto alla riaggressione dei portatori di palla avversari, alla riconquista del pallone, anche altissimo, sulla linea difensiva avversaria. Prima che Zidane lo introducesse tra i titolari, il Real Madrid non pressava quasi mai. Solo Valverde, oggi, sfoggia quasi 25 recuperi palla in pressione a partita. «Me lo chiede il Mister, e io ho il fisico per farlo. Quindi lo faccio, come lo farò ogni volta che potrò, fin quando mi scoppieranno le gambe».

Valverde è uno che si prende le sue responsabilità, anche fuori dal campo - è diventato papà giovanissimo, appena qualche giorno fa. E chi si prende molte responsabilità, in fin dei conti, finisce sempre per acquisire maggiore confidenza nei suoi mezzi.

In campo dà l’aria di essere onnipresente in quello spazio che si estende tra un’area e l’altra - uno spazio che spesso aggredisce con brutale leggiadria. Valverde non è solo un distruttore, ma un creatore e a volte anche un finalizzatore.

Il suo gioco ha così tante implicazioni che ha finito per cambiare il sistema di una delle migliori squadre al mondo. La sua famiglia lo aiuta a tenere i piedi per terra: «La mia famiglia, tutti i giorni, si è presa il compito di dirmi non sei nessuno».

Vedere in campo Valverde è osservare il volo di un uccello che non fluttua più da una parte all’altra della casa, ma si è lasciato alle spalle la confusione, e ora si dirige verso la linea dell’orizzonte senza sapere cosa lo attenda, ma perfettamente consapevole di cosa sia diventato.

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