Fasi difensive a confronto: la pazienza portoghese contro la densità spagnola
Messa da parte la curiosità di capire come avrebbe reagito la Spagna all’esonero di Lopetegui, il tema tattico di maggiore interesse alla vigilia della partita era il confronto tra il centrocampo spagnolo, foltissimo ed estremamente flessibile, e la rigida linea di mediana portoghese composta da William Carvalho e João Moutinho, con il supporto esterno di Bernardo Silva a destra e Bruno Fernandes a sinistra.
Sul piano dell’interpretazione difensiva, Fernando Santos si è rigorosamente attenuto alla formula vincente, la stessa che ha portato il Portogallo sul tetto d’Europa con un solo gol subito negli ultimi 450 minuti della competizione. Hierro, al contrario, non ha toccato gli equilibri raggiunti da Lopetegui (né avrebbe avuto motivo di) e ha proposto una Spagna molto presente nella trequarti avversaria, molto corta nella zona del pallone, propensa al recupero immediato e al soffocamento delle iniziative portoghesi.
Le posizioni medie consentono di apprezzare l’armonia creativa del centrocampo spagnolo, in cui ali e mezzali ruotano continuamente dalla trequarti in su, contro l’ordine rigido del centrocampo portoghese, con le ali molto strette a protezione della linea di difese.
Già le decisioni prese nella scelta degli uomini riflettevano le differenti necessità dei due allenatori. Così come nell’ultima amichevole contro l’Algeria, Santos ha confermato Bruno Fernandes e Guedes al posto di João Mário e André Silva, ovvero due giocatori molto più rapidi, efficaci nel pressing e verticali nella concezione del gioco al posto di due giocatori più adatti a controllare il ritmo della partita, a nascondere il pallone agli avversari. Hierro ha invece risolto tutti i ballottaggi a favore dei giocatori più esperti, e quindi più abituati a sostenere sul piano nervoso il gioco speculativo del Portogallo: dentro Nacho, Koke e Diego Costa, fuori Odriozola, Thiago e Rodrigo.
Anche i numeri aiutano a inquadrare le differenze di atteggiamento tra le due squadre: il Portogallo ha registrato un’altezza media di recupero palla molto bassa (27.3 metri) rispetto a quella della Spagna (40.5 metri), e ha mantenuto la linea di difesa praticamente all’interno dell’area di rigore (15.8 metri) al contrario della Spagna che ha adottato un atteggiamento aggressivo sul fuorigioco (35.6 metri). Di conseguenza, il Portogallo ha recuperato soltanto 8 palloni nella metà campo della Spagna, equamente divisi tra primo e secondo tempo, mentre la Spagna ne ha recuperati 22.
Nello specifico, il piano del Portogallo per non soffrire l’inferiorità numerica a centrocampo prevedeva che i quattro centrocampisti restassero molto stretti per seguire da vicino i movimenti centrifughi delle mezzali e delle ali spagnole. Il loro compito veniva facilitato dal sacrificio di Guedes, che si manteneva sempre sulla linea di passaggio per Busquets, provando nel frattempo a uscire in pressing verso i difensori. Nel frattempo Ronaldo gli gravitava intorno con minori responsabilità difensive, lasciando sempre molto aperta la linea di passaggio per Nacho, che la Spagna ha ricercato pochissimo (eloquente il confronto con il suo corrispettivo simmetrico Jordi Alba: 48 passaggi tentati dal primo, 78 dal secondo).
Dei ventidue giocatori in campo, Ramos è stato il più coinvolto con il pallone tra i piedi (113/118 passaggi riusciti). Guedes lo ha seguito con lo sguardo, provando a mettergli pressione, ma preoccupandosi soprattutto dei movimenti di Busquets alle sue spalle.
In questo modo, Fernando Santos ha provato a portare la Spagna al di fuori della sua naturale zona di costruzione sul lato sinistro del campo. Alla fine ha prevalso la superiore tecnica degli spagnoli, che sono prevalentemente riusciti a costruire il gioco dove preferivano, ma Fernando Santos ha in ogni caso raggiunto i due obiettivi principali: frenare lo sviluppo rapido dell’azione, pur risparmiando Ronaldo dalla fatica di inseguire l’avvolgente circolazione palla della squadra di Hierro.
Le due anime offensive della Spagna
Il piano del Portogallo era quindi quello di fare il Portogallo: aspettare pazientemente l’arrivo della marea e stringere i denti in attesa che passasse. Inevitabilmente, la marea è arrivata, in momenti distinti all’interno della partita. È nella natura della Spagna utilizzare il possesso come forma di controllo (nettamente sbilanciate le percentuali a fine partita, 66.5% contro 33.5%), lavorare ai fianchi degli avversari prosciugandone le energie nervose, scassinare lentamente la loro struttura difensiva, per poi riappropriarsi del tradizionale attributo “Furie Rosse” quando l’inerzia della partita volge a proprio favore.
È quello che è successo tra il 20’ e il 40’, e poi tra il 50’ e il 60’, due periodi di gioco in cui la Spagna ha tentato 9 delle 13 conclusioni totali verso la porta di Rui Patricio, ha messo insieme 111 passaggi nell’ultimo terzo di campo (su un totale di 211 nell’intera partita) e ha segnato i tre gol. Negli stessi frangenti, il Portogallo ha tentato 21 passaggi nell’ultimo terzo di campo senza mai arrivare al tiro. Non appena la Spagna ha aumentato i giri della produzione offensiva è salito in cattedra Isco, nominalmente ala sinistra nel 4-3-3 di Hierro, in realtà sopraffino ricamatore di gioco a tutto campo, il più bravo a trovare spazi in cui ricevere tra le maglie strettissime dei reparti portoghesi.
L’onnipresenza di Isco sul fronte offensivo, da sinistra a destra. Ha sofferto la fisicità dei portoghesi (le stelle arancioni sono i dribbling non riusciti) ma ha contribuito molto anche al recupero alto del pallone (le croci verdi sono le palle recuperate).
I numeri della partita di Isco recitano: 89 passaggi completati su 94, di cui 22 nell’ultimo terzo di campo; 3 dribbling riusciti su 8 tentati; 2 cross riusciti su 5 tentati; 3 falli subiti (il più colpito tra i giocatori spagnoli); 2 tiri nello specchio e 1 legno colpito, potenziale gol fantasma prontamente disinnescato dalla goal line technology. L’andaluso ha provato con ogni mezzo, a ogni altezza e a ogni latitudine del campo a creare problemi alla difesa portoghese, imponendo la superiorità tecnica con una velocità e una capacità di controllo che pochissimi trequartisti possono vantare quando gli spazi si restringono. Non ha fatto neanche mancare grinta e spirito di sacrificio, e di fatto ha servito a Nacho l’assist per il gol del 3-2, ignorato dalle statistiche, con una grintosa scivolata che ha deviato un tentativo di Moutinho di spazzare l’area.
Le note positive per la Spagna non finiscono però con la prestazione da fuoriclasse di Isco, o con la generale brillantezza della batteria di trequartisti (ognuno perfettamente integrato nel sistema, da Iniesta a David Silva, da Koke al subentrato Thiago). La squadra di Hierro è infatti riuscita in alcune occasioni a bucare le linee di pressing portoghese puntando sulla fisicità di Diego Costa, che con 29 palloni toccati è risultato meno avulso dalla manovra rispetto al suo infruttuoso inserimento nei Mondiali brasiliani. Gli sono bastati due tiri per firmare la seconda doppietta in carriera con la maglia della Spagna. Sono stati due gol tipicamente alla Diego Costa, specialmente il primo, che ha soddisfatto tutte le aspettative puntate sulla battaglia di corpi e di nervi che ha ingaggiato con Pepe.
Non è stato semplice trovarlo nell’affollata area del Portogallo, ma la mappa dei passaggi ricevuti da Diego Costa mostra come questa Spagna abbia nelle sue corde la possibilità di rendere più verticale la manovra di gioco.
Per aumentare l’efficienza offensiva, e di conseguenza l’influenza di Diego Costa nell’impianto di gioco, la Spagna dovrebbe ancora perfezionare degli automatismi, trovare centrocampisti che abbiano tempi di inserimento per attaccare la difesa avversaria quando Costa si abbassa per giocare di sponda. Dal punto di vista tattico, non è semplice per Costa calarsi nelle vesti di centravanti di una squadra con queste proprietà di palleggio, abituato com’è a cavalcare le praterie che gli si aprono davanti nell’Atlético, ma i segnali dell’esordio sono stati decisamente incoraggianti, e i due gol segnati dovrebbero aumentarne la fiducia e di conseguenza l’intensità agonistica.
La pazienza del Portogallo, l’impazienza di Ronaldo
In almeno un paio di occasioni, Ronaldo è sembrato sul punto di esplodere dalla frustrazione. Prima al quindicesimo (braccia sui fianchi e testa bassa), quando Guedes ha sprecato un contropiede due contro due, innescato proprio da una sua sponda, incespicando sulla palla e calciando malissimo sul corpo di Ramos. Poi ancora al ventunesimo (pugnetto agitato in aria e sguardo rivolto verso l’alto), quando Guedes ha vanificato un suo assist molto invitante verso il centro dell’area di rigore con un controllo impreciso frenato dall’intervento di Jordi Alba.
Nel rapporto complicato tra Ronaldo e Guedes, il giocatore scelto da Fernando Santos per fargli da spalla, per girargli intorno come un satellite, per bucare gli spazi creati dai suoi movimenti, si può rintracciare la sintesi di una partita in cui Ronaldo si è caricato il peso della sua nazione sulle spalle. Mai come ieri sera il Portogallo è sembrato una squadra composta da «Cristiano Ronaldo e altri dieci», come recita un editoriale di Record a commento della partita. Con la tripletta segnata alla Spagna, la quinta con la maglia del Portogallo (più un poker), Ronaldo è diventato il quarto giocatore della storia dei Mondiali a segnare in quattro tornei consecutivi. Gli altri tre sono Pelé, Seeler e Klose, un elenco che rende bene la grandezza dell’impresa.
I tre gol di Ronaldo sono arrivati a partire da un rigore che si è procurato da solo e ha trasformato, un suo tiro da venticinque metri che De Gea non ha trattenuto, e una punizione da una simile distanza che si è procurato da solo e ha trasformato: rara manifestazione della possibilità di piegare da solo gli equilibri di una partita, oltre che dell’importanza di segnare gol sopra ogni altra cosa. Il Portogallo è apparso organizzato soltanto per difendere la Spagna, con alterne fortune tra l’altro, mentre tutti gli sforzi per mettere Ronaldo nelle condizioni di segnare si sono verificati vani e incompiuti.
A dispetto delle capacità di smarcamento e di elevazione del numero 7, i cross verso l’area dei terzini Guerreiro e Cédric non lo hanno mai raggiunto.
Il Portogallo è una squadra paziente, forse troppo paziente per alterare il corso della partita quando il punteggio volge a sfavore, vuoi per la qualità degli avversari (lo strapotere fisico di Diego Costa, l’onnipresenza di Isco), vuoi per l’influenza della cattiva sorte (chissà quante altre volte Nacho riuscirebbe a centrare il palo interno con una conclusione di collo al volo da fuori area, se volesse farlo davvero). Ronaldo però è stato altrettanto paziente, ha perdonato e motivato, e per quante volte sia stato sul punto di, non ha mai realmente perso la calma. Ha respirato, con la stessa disciplina militare che ha dedicato alla preparazione della punizione del 3-3.
Al termine della partita ci ha tenuto a ricordare i meriti della squadra («hanno giocato bene, si sono sacrificati quanto dovevano») e le qualità morali di questo gruppo («non abbiamo mai rinunciato a lottare»). Il cast di supporto ha in realtà fornito una prestazione mediocre, ma proprio per questo il Portogallo esce da questa partita con più sicurezze di quante ne avesse prima. Ronaldo ha dominato una partita in cui i suoi compagni non sono mai riusciti a metterlo nelle condizioni di segnare e hanno sprecato tutti le occasioni che ha creato, contro una delle favorite alla vittoria finale. Il giorno in cui i suoi compagni sapranno unire la qualità al sacrificio, dovremo aggiungere all’elenco anche il Portogallo.
I dati di questa analisi sono stati gentilmente offerti da Opta.