Gli USA hanno dominato il Mondiale di calcio femminile. Per tutto il torneo non hanno mai perso, mai pareggiato, mai giocato i supplementari, hanno sempre segnato almeno 2 gol a partita e non sono neanche mai stati sotto nel punteggio nelle 7 partite disputate. Si sono dimostrati la squadra più matura, il gruppo più consapevole del proprio talento e della propria esperienza.
La finale contro l’Olanda è stata l’unica partita in cui non hanno segnato entro la prima dozzina di minuti di gioco, l’unica in cui non si è visto quindi il canovaccio classico di questo Mondiale per USA: iniziare con fuoco e fiamme, segnare e passare il resto della gara a gestire gli attacchi rivali puntando solo in una manovra quanto più verticale possibile sfruttando lo spazio a disposizione.
Forse c’è un pizzico di arroganza nel Mondiale giocato dagli USA, che nasce dalla consapevolezza di essere superiori nel talento atletico e nella precisione tecnica dei fondamentali. In finale è bastato il singolo errore di una singola giocatrice - l’entrata scomposta di van der Graet su Alex Morgan all’ora di gioco - per dare l’occasione a Rapinoe di aprire il tabellino e di fatto chiudere la gara. Una volta spezzato l’equilibrio, l’Olanda è improvvisamente apparsa incapace di imbastire un’azione.
Eppure l’Olanda ci era anche riuscita a rendere difficile la vita dal punto di vista offensivo agli USA, ridisegnando il proprio sistema di gioco e modificando il modulo e la strategia rispetto al resto del Mondiale proprio per giocare contro il 4-3-3 delle avversarie. Invece del tridente, ha posizionato la punta Miedema dietro l’ala Beerensteyn, arretrando Martens in linea con le centrocampiste e allargando la mezzala van de Donk. Ha schierato insomma un 4-4-2 che non voleva più partire dal basso per costruire una manovra complessa, ma che si è concentrato più che altro sulla verticalità per la fascia centrale del campo dove la velocissima Beerensteyn doveva essere messa in condizione di ricevere in velocità l’ultimo passaggio di Miedema.
La catena di destra americana - formata da Heath come ala, Lavelle come mezzala e O’Hara come terzina - si è però dimostrata insormontabile per l’Olanda: la capacità di resistere alla pressione di Heath e Lavelle, e al contempo la loro pericolosità continua tra linea laterale e mezzo spazio, ha costretto l’Olanda a tenere Martens troppo arretrata per poter assistere Miedema, facendo collassare tutta la strategia olandese. L’Olanda tirerà nello specchio della porta solo una volta contro le 10 delle americane. La difesa olandese ha tenuto bene, ma ha sacrificato tutto il proprio potenziale offensivo: una scommessa, insomma, che non ha pagato.
La consapevolezza dei propri mezzi e la pazienza nell’aspettare il momento giusto hanno permesso agli USA di giocare la propria partita. Nessuna squadra può vantare un tridente che unisce la tecnica di Tobin Heath, l’atletismo di Alex Morgan e il carisma di Megan Rapinoe. Jill Ellis, del resto, ha costruito una squadra senza grandi ambizioni tattiche con la palla, che vuole sfruttare la propria superiorità tecnica e atletica sulle fasce per attaccare in verticale una volta recuperata.
Alex Morgan è stata quasi lasciata a se stessa davanti a battagliare con i due centrali, sapendo che prima o poi qualcosa di buono uscirà fuori. Anche a Megan Rapinoe è stata data carta bianca nei movimenti, utilizzando altre giocatrici per compensarli. Come Crystal Dunn, un’ala di formazione, che Ellie ha arretrato così da farle sfruttare il campo davanti con il suo atletismo, e compensare così i movimenti di Rapinoe dando sempre ampiezza allo schieramento. Durante tutto il torneo lo spazio alle spalle di Dunn è sembrato il punto dove poter attaccare durante la transizione difensiva gli USA, eppure la sua velocità fuori scala ha permesso di compensare i problemi di posizionamento iniziale.
Un esempio della strategia degli USA nella finale: recuperano una palla vagante nella propria metà campo e invece di giocarla vicino cambiano gioco per Rapinoe, che riceve e immediatamente lancia in verticale per l’ala opposta Heath, così da attaccare in velocità mentre Morgan taglia verso l’area.
Gli USA si sono evoluti nella forma definitiva proprio dagli ottavi in poi, con Lindsay Horan, una delle stelle della squadra sacrificata a favore della più dinamica Julie Ertz, così da lasciare più libere di muoversi in avanti le due mezzali Samantha Mewis e soprattutto Rose Lavelle, la rivelazione di questo Mondiale. Proprio un’azione personale di Lavelle, iniziata da un passaggio di Mewis e conclusa con un tiro ad incrociare sul palo destro ha chiuso la finale neanche 10 minuti dopo il rigore di Rapinoe. Nessuna delle giocatrici americane combina dinamicità e tecnica nel controllo del pallone come Lavelle, forse il simbolo più evidente di un movimento che è in grado di produrre un talento più maturo della media nei fondamentali e nelle letture.
Gli USA durante la competizione si sono dimostrati più vulnerabili del previsto al pressing alto organizzato, soprattutto perché la portiera e le due centrali non sono sembrate a proprio agio nella costruzione dal basso. Il gol subito agli ottavi contro la Spagna nasce proprio da un errore della portiera in fase di impostazione contro la pressione avversaria.
Eppure pochissime avversarie sono sembrate in grado di eseguirlo e soprattutto di farlo con continuità contro una squadra che, atleticamente e mentalmente, ti costringe a una grande fatica, perché dà sempre l’idea di essere in grado di poter segnare dal nulla. Il dominio mentale è forse il tratto più evidente di questi USA. Come ha detto Jill Ellis:«Abbiamo avuto meno giorni di riposo delle altre e il percorso più difficile per la finale, forse il percorso più difficile di sempre. Però abbiamo trovato la nostra maniera per superarlo e penso sia merito della nostra forza mentale».
Nel sapere quando sfruttare il proprio talento Tobin Heath non è seconda a nessuno.
Il simbolo della squadra, Megan Rapinoe, non è più dinamica e capace di assorbire un grande volume di gioco, ma davanti alla porta è stata perfetta, con una determinazione senza paragoni nel torneo: con il rigore segnato in finale ha vinto il titolo di scarpa d’oro del Mondiale (stessi gol di Alex Morgan ed Ellen White, ma con più assist), da aggiungere a quello di Pallone d’Oro del Mondiale. Ma in generale quello americano è un gruppo maturo in ogni aspetto, con 11 delle 23 convocate che hanno oltre i 30 anni e 12 che erano presenti agli scorsi Mondiali vinti.
Quando poi le cose sembrano non mettersi per il verso giusto la fortuna gli sorride lo stesso, come i due rigori fischiati a favore per sbloccare prima e chiudere poi la partita contro la Spagna. O come l’errore della portiera francese Bouhaddi, che ha permesso di sbloccare subito i difficile quarti di finale; o il brutto rigore calciato da Stephanie Houghton, finito praticamente in braccio al portiere nel finale della semifinale contro l’Inghilterra. Il modo con cui gli USA hanno sciolto l’Olanda dopo il rigore segnato, incurante delle parate della portiera avversaria, è l’immagine di cosa sia questa squadra.
Come scritto su The Ringer: «La loro vittoria finale non è stata inaspettata. L’intero torneo è stata un incoronamento». Un programma che dalla vittoria del Mondiale di casa nel 1999 non è mai arrivato sotto al terzo posto nelle successive 5 edizioni, raggiungendo tre finali e vincendone due (nel mentre anche altre quattro finali Olimpiche, vincendo 3 medaglie d’oro). Due generazioni intere di dominio insomma. E se inizialmente il distacco tecnico e atletico col resto del mondo era fin troppo evidente, ora che anche le grandi d’Europa lo hanno assottigliato, è ancora più evidente invece come gli USA riescano a viaggiare comunque in un binario a parte. E se il titolo più iconico rimane quello del 1999 vinto in casa davanti a 90 mila spettatori, questo è quello della consacrazione come forza egemonica del calcio femminile.
Gli USA rappresentano l’emanazione più matura del movimento calcistico femminile, e la squadra più seguita dai tifosi in trasferta. Sono loro a dettare l’agenda in campo e soprattutto fuori: la finale è iniziata con Rapinoe che non canta l’inno americano e conclusa con i tifosi americani allo stadio che cantano un coro per la parità di retribuzione.
La battaglia va avanti da mesi e ha visto la nazionale femminile fare causa alla federazione lo scorso marzo. L’accusa è di discriminazione di genere nel trattamento tra la squadra maschile e quella femminile, non solo in termini di retribuzione per sé, ma anche di strutture e spazio mediatico nonostante portino risultati sul campo migliori da anni. Tra una partita e l’altra del Mondiale, Rapinoe è finita a battagliare con il Presidente Donald Trump su Twitter, riuscendo a portare a rilevanza internazionale la propria voce. Prima della finale Rapinoe ha ricordato quanto la FIFA permetta comunque a una finale del Mondiale di essere giocata lo stesso giorno della finale di Copa America e Gold Cup (dove paradossalmente avrebbe potuto vincere la nazionale maschile).
Come avevamo scritto nel pezzo pre Mondiale: «Se c’è una squadra che è riuscita a squarciare il velo dell’indifferenza che per anni ha circondato il calcio femminile, quella è la Nazionale degli Stati Uniti». Loro ne sono consapevoli e hanno utilizzato la piattaforma per portare avanti le istanze in cui credono. Un modo di sfruttare politicamente i media che è qualcosa di molto americano, nonostante Rapinoe sia stata accusata dalla frangia reazionaria capitanata da Trump di non essere abbastanza americana dopo aver protestato durante l’inno (era stata una delle prime ad inginocchiarsi seguendo Colin Kaepernick ormai qualche anno fa). Con i premi ancora in mano proprio Rapinoe ha detto: «Giocare al massimo livello con una squadra come questa è semplicemente assurdo, ma essere in grado di unire questa cosa con tutto quello fuori dal campo, essere in grado di rispondere a quanto detto con le prestazioni e poi sfruttare le prestazione per dire altro è veramente incredibile». Trump non ha risposto via Twitter, attendendo ore prima di scrivere solo dei generici complimenti per la vittoria finale della squadra.
Gli USA hanno giocato un Mondiale più contro i pregiudizi che ancora circondano il movimento che con delle avversarie, finendo anche per risultare forse arroganti, in quel mondo americano con cui già in altri sport come il basket affrontano i tornei internazionali: ad esempio esultando al tredicesimo gol contro la Thailandia come se fosse il primo, non mostrando alcun rimorso nel prendere in giro le avversarie inglesi mimando la bevuta del tè dopo il gol di Alex Morgan in semifinale.
Eppure non c’è mancanza di rispetto in questi comportamenti, piuttosto autoreferenzialità. Gli USA sono sembrati consapevoli di scrivere la storia e non ha avuto remore a mostrarlo in mondovisione. La buona notizia per le altre nazionali è che, vista l’età media della rosa, ora gli USA dovranno necessariamente iniziare un nuovo ciclo in vista del prossimo Mondiale; la cattiva è che se la nuova generazione è formata da calciatrici del livello di Rose Lavelle, potrebbe non esserci storia per nessuna anche tra quattro anni. Sperando che nel frattempo la spinta data da questa Nazionale possa aiutare tutto il movimento femminile ad entrare in una nuova dimensione. Sarebbe la vera vittoria di questa generazione.