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Marco Gaetani
A cosa pensava l'Italia nell'estate del 1994
06 dic 2022
06 dic 2022
Le storie di Arrigo Sacchi e Silvio Berlusconi quell'estate rimasero legate a distanza.
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Marco Gaetani
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BOB STRONG/AFP via Getty Images
(foto) BOB STRONG/AFP via Getty Images
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Il 3 agosto del 1986, in una Parma ancora decisamente accaldata, Silvio Berlusconi assiste a qualcosa di totalmente diverso dal solito. È convinto di aver messo in piedi un Milan in grado di spaventare le pretendenti allo scudetto, ma i miliardi non sembrano bastare ad avere la meglio su questa squadra di Serie B che in campo si muove come se fosse telecomandata da qualcuno che conosce in anticipo le mosse degli avversari. «Continueremo a seguirla», dice in un colloquio privato Berlusconi ad Arrigo Sacchi, tecnico di quel Parma, a fine partita: è lui il grande manovratore che ha stregato Berlusconi. È il primo atto ufficiale di un rapporto che diventerà intensissimo qualche mese più tardi, con la firma in qualità di nuovo tecnico di un Milan destinato a riscrivere la storia del calcio.

Otto anni più tardi, nel luglio del 1994, Arrigo Sacchi e Silvio Berlusconi sono lontanissimi, a capo delle due realtà in cui ogni italiano è convinto di poter far meglio del titolare del ruolo: Arrigo è il commissario tecnico della Nazionale impegnata ai Mondiali, Silvio il capo di un governo appena nato. Sono entrambi certi di essere inscalfibili, in grado di resistere a qualsiasi evento avverso. Ed entrambi vorrebbero ignorare la massima di Napoleone: dopo aver raggiunto la meta, anche un soffio di vento può essere sufficiente per finire rovesciati. Questa è la storia delle raffiche di vento che hanno provocato la picchiata di Arrigo Sacchi e che avrebbero potuto fare altrettanto con Silvio Berlusconi: in mezzo ci sono una semifinale di un Mondiale, una contrattura, un Consiglio dei Ministri, un decreto legge in grado di scatenare una piccola insurrezione. È una parentesi di storia d’Italia che si snoda nel corso di una settimana, in un continuo ping pong da una parte all’altra dell’Atlantico.

9 luglio 1994, Napoli

L’Italia che ospita il G7 ha un nuovo premier da poco meno di due mesi ed è lui a fare gli onori di casa a Napoli. Sul tavolo dei grandi del mondo, accolti da un Silvio Berlusconi forse mai così rampante, ci sono problemi che pesano. In Italia si parla molto della strage di Djen-Djen: sette componenti della nave da carico Lucina sono stati uccisi nella notte tra il 6 e il 7 luglio da alcuni terroristi del Gruppo Islamico Armato mentre l’imbarcazione era ferma nel porto. La vittima più giovane aveva 27 anni, la più grande 49. La Francia sostiene l’Algeria, gli Stati Uniti fanno invece fronte comune con l’Italia. Berlusconi è un raggiante padrone di casa. È diventato premier al primo colpo l’11 maggio, una settimana dopo ha visto il suo Milan rifilare quattro gol al Barcellona in finale di Champions League. Sta camminando sulle nuvole. Sul fronte interno, si snoda la ciclica battaglia sulle nomine Rai. E poi c’è Tangentopoli, che in questa fase sta mettendo nel mirino il mondo della salute: l’ex ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, e l’ex dirigente del Servizio farmaceutico, Duilio Poggiolini. Sono due nomi che ci torneranno utili tra un po’.

Una delle ottomila testimonianze di Bill Clinton che trangugia qualcosa a Napoli durante i giorni del G7.

9 luglio 1994, Milano

Agostino Landi, 51 anni, maresciallo della Guardia di Finanza, riceve una telefonata dal suo avvocato. Il sostituto procuratore Gherardo Colombo lo vuole ascoltare ancora una volta. Da 24 ore è agli arresti domiciliari, coinvolto, come tanti altri, nell’inchiesta che sta travolgendo i vertici delle Fiamme Gialle. Ha già passato dieci giorni nel carcere militare di Peschiera del Garda. Landi decide che non è in grado di sopportare questa vicenda. Prende un’automatica calibro 7 e 65, se la porta verso la bocca e il resto è facilmente immaginabile. Un anno prima avevano scelto la stessa identica strada Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, e Raul Gardini, che proprio con Eni aveva dato vita al colosso Enimont, in una fusione con Montedison. Ma quello di Landi è un suicidio diverso, perché per mesi, prima dell’inchiesta sulle Fiamme Gialle, aveva lavorato fianco a fianco proprio con il pool.

Quello dei suicidi rimane uno dei temi più discussi e controversi della parentesi di Mani Pulite.

9 luglio 1994, Boston

Arrigo Sacchi non è mai stato un uomo sereno. Realizzato sì, ma sereno mai. Ha letto nervosamente i giornali della vigilia: «Oggi con la Spagna gli azzurri possono entrare tra le quattro grandi o rischiare il lancio dei pomodori», scrive La Stampa presentando il quarto di finale del Mondiale. Roberto Baggio, fino a quel momento un ectoplasma, ci aveva tirato giù dall’aereo contro la Nigeria, aprendo il suo torneo in discreto ritardo rispetto alla tabella di marcia ma risparmiandoci un’eliminazione che avrebbe avuto del clamoroso. Chissà se Sacchi, subito dopo l’intervallo, ha gettato nella mischia Beppe Signori, pur essendo avanti di un gol grazie a una sventola di Dino Baggio, anche ripensando a quel corsivo firmato addirittura da Giovanni Trapattoni, intitolato «No a Signori, mah…», che nelle sue colonne interne era in realtà molto meno netto di quanto potesse trasparire dal titolo. C’è un’aria pesante, soprattutto dopo il pareggio di Caminero su deviazione di Benarrivo. A due minuti dalla fine, Nicola Berti alza un pallone che Signori riesce a raggiungere per un soffio, spedendolo verso Baggio. Un tocco lieve per saltare Zubizarreta, un altro grossolano che porta il pallone un po’ troppo verso destra, infine la conclusione, che fa saltare tutti dal divano. E poi quel sangue sul volto e sulla maglia di Luis Enrique, Tassotti che lì per lì la fa franca, il cronometro che scorre fino al fischio finale, fino alla semifinale.

Con il VAR probabilmente non avremmo mai visto Roberto Baggio in ginocchio urlare «Beppe, vieni qua!» a fine partita. Tassotti prenderà poi otto giornate di squalifica ma, incredibile a dirsi, l’arbitro ungherese Puhl verrà comunque scelto per Italia-Brasile.

10 luglio 1994, New York

La Germania è il pallido ricordo della squadra che quattro anni prima aveva vinto il Mondiale. Berti Vogts ha mandato a casa Stefan Effenberg, reo di aver mostrato il dito medio ai tifosi tedeschi dopo la partita vinta a fatica con la Corea del Sud nel girone. Era capitato qualcosa di simile nel 1986: Franz Beckenbauer aveva mostrato la porta a Uli Stein, che lo aveva criticato pubblicamente. Quella volta, la Germania era arrivata in finale. Adesso si ritrova avanti di un gol nei quarti di finale mentre Hristo Stoichkov sta mettendo a posto un pallone al limite dell’area. C’è un calcio di punizione per la Bulgaria, manca un quarto d’ora alla fine. «Papà, oggi farai gol, è il giorno del mio compleanno», si è sentito dire dalla figlia al telefono. Sistema il pallone e ci pensa, cercando la concentrazione. Fa quei calcoli tipici dei giocatori che preparano un calcio di punizione: «Dovevo far passare il pallone fra le teste del secondo e terzo uomo della barriera». La palla parte, esce bene da uno dei mancini più ispirati del pianeta: 1-1. Penka Stoichkov, la madre di Hristo, sviene davanti alla tv. Non ha modo di vedere Yordan Letchkov, tre minuti più tardi, che raccoglie in tuffo un cross di Yankov. La sua testa calva che si libra in volo è uno dei momenti più significativi dell’intero Mondiale. La Bulgaria elimina la Germania e prenota la semifinale con l’Italia. Arrigo Sacchi è divorato dall’ansia: «Le gerarchie del calcio qui non contano, sono troppo condizionate dal caldo. Hanno vinto approfittando di un momento di distrazione dei tedeschi, non mi spiego altrimenti due gol in tre minuti».

Foto di Oliver Berg/picture alliance via Getty Images

Roma, 11 luglio 1994

Dopo aver lasciato Napoli e Caserta con una battuta ai giornalisti - «Caserta è così romantica, chissà che stasera non aumenti la prole…» - Silvio Berlusconi torna a Roma per chiudere la battaglia sulla Rai. Si sente invincibile. Deve fare i conti con un alleato ingombrante: Umberto Bossi vuole incidere sulle nomine dei cinque consiglieri. Della vicenda si è occupata soprattutto la nuova presidente della Camera, Irene Pivetti: è la seconda donna a riuscirci dopo Nilde Iotti, nonché, in assoluto, la presidente più giovane della storia italiana, con i suoi 31 anni. Il tiramolla va avanti da giorni, fin quando Berlusconi trova in quello che in quella fase ritiene il suo alleato più fedele, Gianfranco Fini, la sponda necessaria. La Lega rimane con due soli consiglieri (Franco Cardini e Alfio Marchini: sì, proprio quell’Alfio Marchini) mentre la «maggioranza» è saldamente sotto il controllo del presidente del Senato Carlo Scognamiglio, eletto con Forza Italia, grazie ai nomi di Ennio Presutti, Letizia Moratti (ah, come passa il tempo) e Mauro Miccio.

Martinsville, 11 luglio 1994

Arrigo Sacchi cerca di dissimulare ma non è mai stato il suo punto di forza. Quando prova a fare lo spiritoso, in conferenza stampa, genera una strana sensazione di gelo. Parla della squadra che scenderà in campo contro la Bulgaria come se fosse qualcosa di sua proprietà, in prima persona: «Affronterò la Bulgaria come mi sarei cimentato con la Germania: cercando di imporre il mio gioco». Non «affronteremo», non «il nostro gioco». Ma «affronterò», «il mio gioco». Non sono sfumature. Quando parla di Stoichkov dice di avere la pistola per fermarlo. E poi c’è Baggio, che dopo un girone da comparsa sta procedendo da attore protagonista. «Ci stimiamo molto, ci confrontiamo ogni giorno. Ah, Robertino. Fra noi c’è un’uniformità di vedute e di intenti che mi commuove», racconta Sacchi.

Princeton, 11 luglio 1994

Quella tra Baggio e Stoichkov è una sfida che secondo tutti vale il Pallone d’Oro. Roberto non parla, non parla quasi mai, anche perché quando lo fa generalmente lascia i segni sui corpi che va a colpire, e allora è sempre meglio contare fino a dieci, come il numero che porta sulla maglia. Hristo, invece, sulla maglia indossa l’otto e allora non perde tempo a contare. Lascia che i media italiani lo intervistino all’università di Princeton, che ospita la Bulgaria alla vigilia. Risponde in spagnolo, ma il confronto scivola fluido. Anche perché c’è un problema non da poco: l’organizzazione del Mondiale, non immaginando che la Bulgaria potesse arrivare fino alla semifinale, ha mandato a casa gli interpreti: erano stati ingaggiati fino ai quarti. Stoichkov spende parole al miele per Sacchi e attacca la sua Federazione: secondo alcune indiscrezioni, avrebbe pagato di tasca sua il premio della qualificazione. «Questa è una faccenda delicata, diciamo che mi sono battuto con gli altri anziani del gruppo perché il presidente mantenesse le promesse, o era l’anarchia». Nega che possa verificarsi il remake di Milan-Barcellona, lui che dei blaugrana è una delle stelle: «Qui non siamo ad Atene, sono situazioni diverse. Noi non abbiamo niente da perdere, voi siete preoccupatissimi. Non avete problemi di tattica ma psicologici, finora siete stati più fortunati che bravi. Mi sembrate stanchi, non so se del vostro campionato o di questo caldo. Ma vi siete salvati per caso». Ha la barba sfatta e la faccia da santone. Gli chiedono se il suo nome voglia dire effettivamente Cristo: «Certo. Ma mi chiamo così perché era il nome di mio nonno. Di Hristo ce ne è uno sopra e uno sotto». E quando gli chiedono del Pallone d’Oro, tira fuori un vecchio tormentone: è convinto da anni che meritasse quello del 1992 prima dell’intervento di Silvio Berlusconi, in grado, secondo lui, di indirizzare la scelta su van Basten. «Non so se me lo daranno adesso, dipende da voi. Non vorrei che all’ultimo momento sbucasse fuori qualche altro presidente…». Consiglio la visione di tutti e sei gol di Stoichkov a USA 1994. Nonostante l’epilogo di Italia-Bulgaria, gli basteranno per vincere il Pallone d’Oro. Ho una predilezione per quello contro l’Argentina, un gol che profuma di Romario, con cui ha diviso per anni il reparto d’attacco a Barcellona.

Roma, 12 luglio 1994

Berlusconi, checché ne dica Stoichkov, ha ben altro per la testa. Sta per riunirsi il Consiglio dei ministri e nella vigilia si pensa prevalentemente al tema dei condoni: quello edilizio e quello fiscale. E si guarda già alla manovra, che dovrebbe mettere in atto interventi per 40mila miliardi di lire. Conversando con alcuni giornalisti, però, il ministro della Giustizia, Alfredo Biondi, accenna che si parlerà anche dei due provvedimenti che egli stesso ha presentato: si inizia a parlare con insistenza di una riforma della custodia cautelare, una delle “armi” più utilizzate dal pool di Mani Pulite nel corso delle indagini. «Sarà il Consiglio a decidere nella sua collegialità», afferma. Intanto i ministri fanno i conti sull’orario: questo Cdm che cade proprio nel giorno della semifinale del Mondiale rischia di essere una seccatura non da poco. La cosa buona è che in America si comincerà alle ore 22 italiane. Ok il condono, ok le tasse, ma chi gioca? Massaro o Signori?

New York, 13 luglio 1994

Nessuno dei due. Arrigo Sacchi, che rimedia alla maxisqualifica inflitta a Tassotti con l’ausilio della prova tv lanciando Roberto Mussi dal primo minuto, ripesca Berti al posto di Conte sulla fascia destra e sceglie Casiraghi vicino a Baggio. Nonostante tutti i dubbi maturati nel corso del torneo, ci sentiamo la finale già in tasca. «Gli inviati italiani, specializzati in dietrologia, amano dire: alla FIFA non fa gioco che in finale arrivi la Bulgaria, è come presentarsi al ballo delle debuttanti in jeans e scarpe da tennis», scrive Gianni Mura su La Repubblica, pronosticando una sfida tra Brasile e Italia in finale voluta anche da entità superiori. Bulgaria e Svezia? Suvvia.

Roma, 13 luglio 1994

Si intuisce abbastanza in fretta che gli emendamenti presentati da Biondi sono al centro del CdM, ben più del resto. Il pacchetto giustizia che arriva sul tavolo dei ministri viene presentato sotto forma di decreto legge, l’obiettivo è renderlo immediatamente attivo. Il provvedimento prevede che la custodia cautelare scatti solamente in presenza di reati molto gravi: terrorismo, mafia, associazione criminale. E, ovviamente, se si ritiene che l’imputato possa rappresentare un pericolo per qualcuno. Per molti reati viene lasciata discrezionalità ai giudici. Salta il concetto di «pericolo di fuga». Secondo le fonti governative citate dai principali giornali, a scegliere la via del decreto legge sarebbe stato direttamente il premier Berlusconi. Tra i nomi che potrebbero ottenere la scarcerazione, l’ex ministro De Lorenzo, l’ex deputato Giulio Di Donato, nonché la moglie di Poggiolini e tutti i vertici della Guardia di Finanza arrestati pochi giorni prima a Milano. All’orizzonte, anche la figura di Bettino Craxi: sono giorni in cui si deve decidere sull’ordine di cattura nei confronti dell’ex premier, che già da un mese è ad Hammamet. E poi c’è il divieto di rendere nota l’identità di chi riceve un avviso di garanzia fino alla chiusura delle indagini. Nonostante tutto, sulle prime pagine dei giornali la pagina non è quella di apertura. Perché dall’altra parte del mondo…

East Rutherford, 13 luglio 1994

Il primo tempo di Roberto Baggio è ai limiti della perfezione. Di sicuro l’Italia ha un impianto di gioco solido, costruito da Sacchi nel corso di un biennio condito da alti e bassi, ma se gli azzurri vanno sul 2-0 contro la Bulgaria è perché il numero dieci azzurro è in stato di grazia. Fa da raccordo tra Casiraghi e il centrocampo, ma deve anche assecondare quell’istinto realizzativo che ne ha contraddistinto la carriera: pur giocando una vita con il dieci sulle spalle, Baggio è stato a tratti una seconda punta pura, capace di mettere in difficoltà le difese avversarie sia con il pallone tra i piedi, sia muovendosi quando non ne era in possesso. Crea il primo gol dal nulla, saltando il primo avversario con un controllo orientato su una rimessa laterale di Donadoni da sinistra, quindi andando via in dribbling al secondo al limite dell’area. All’imbocco della mezzaluna, fa partire un destro a giro sul quale Bobi Mihajlov non può arrivare.

Se l’1-0 è la dimostrazione classica dell’estro di Baggio, del talento in grado di cancellare ogni discorso tattico, il raddoppio è invece la conferma della profonda conoscenza dei compiti della seconda punta. Demetrio Albertini riceve un pallone pigro di Benarrivo, quando il passaggio parte il regista azzurro non è lontanissimo da Baggio. Ma Roberto, tratto distintivo dei grandi campioni, ha già capito cosa può succedere. La difesa bulgara è sovrappensiero, non immagina il pericolo. Baggio inizia a correre verso l’area mentre il pacchetto arretrato sta avanzando. Albertini, ai 30 metri, colpisce sotto il pallone, trovando l’esatto momento di incrocio tra i due flussi: la difesa bulgara che sta uscendo, Baggio che è pronto ad affondare. Il pallone e il numero 10 si incontrano in area in posizione leggermente defilata, ma ampiamente alla portata per la conclusione, poco oltre il vertice dell’area piccola. Il diagonale destro della stella azzurra è secco, imprendibile. È il culmine di 25 minuti di un Baggio paradisiaco, forse quelli che, insieme agli acuti contro Nigeria e Spagna, hanno fissato nell’immaginario collettivo l’immagine di un giocatore perennemente vestito di azzurro: non di bianconero, di rossonero, rossoblù, viola e nerazzurro.

Se di altri grandi campioni ricordiamo prima il club e poi l’esperienza azzurra, in alcuni casi accade il contrario. Quel 2-0 è il momento in cui Baggio diventa sineddoche della Nazionale, andando oltre ogni progetto di egemonia sacchiana. Bastava pronunciare il suo nome per avere in mente undici maglie azzurre. Poi la Bulgaria ritorna in partita con una magia di Nasko Sirakov, che appare e scompare in mezzo alle maglie della difesa italiana per farsi atterrare da Pagliuca. Stoichkov trasforma il rigore del 2-1 e nella ripresa ne chiederà un altro paio, invano. «Stoichkov? Che caratteraccio, forse lo picchia la mamma: chi ha quel carattere, non può non avere una mamma infernale che lo perseguita», è la dichiarazione che Mattia Chiusano de La Repubblica raccoglie dopo una serata trascorsa guardando Italia-Bulgaria in compagnia di Beppe Grillo. Per anni, Stoichkov si lamenterà dell’arbitraggio di Quiniou.

Ma eccoci a quel colpo di vento. Baggio cerca spazio in area quando alla fine del match mancano circa 25 minuti. Una finta, un’altra, il tentativo di dribbling che non va a segno. E poi una fitta alla coscia. Si ferma subito, al primo accenno di fastidio. Chiede consulto alla panchina, lascia i suoi in dieci per qualche minuto nel tentativo di capire se può andare avanti o meno. Si decide di non rischiare. Entra Signori e l’abbraccio che Baggio gli riserva sembra andare oltre quello della semplice sostituzione sul 2-1 di una semifinale del Mondiale. Pare un passaggio di consegne in vista della finale. Il finale di partita lo vede in lacrime, abbracciato a Gigi Riva. Stringe i compagni, saluta i tifosi. Sente di avere ricevuto l’ennesimo schiaffo del destino. In quel momento, a East Rutherford, non c’è nessuno che scommetterebbe mille lire sulla presenza di Baggio a Pasadena, contro il Brasile.

Il momento più alto della carriera di Baggio? Probabile.

Milano, 14 luglio 1994

Antonio Di Pietro tiene in mano un foglio dal quale legge a fatica, incespicando a più riprese. «Scusatemi, sono emozionato», dice ai giornalisti che sono lì per raccogliere le parole con cui sta annunciando, insieme a Gherardo Colombo, a Francesco Greco e a Piercamillo Davigo, l’intenzione di dimettersi, di sciogliere il pool che aveva scoperchiato il vaso di Pandora di Tangentopoli. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, ha deciso di firmare il decreto Biondi rendendolo operativo. «Quando la legge contrasta con i sentimenti di giustizia ed equità, diviene molto difficile compiere il proprio dovere senza sentirsi strumento di ingiustizia. Questo decreto, a nostro giudizio, non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato», dice Di Pietro. Si inizia a dibattere sull’effettiva esistenza dei «presupposti d’urgenza» addotti per la scelta del ricorso al decreto legge. Sulla stampa, il decreto Biondi diventa in fretta il «salva-corrotti» o «salva-ladri». La notizia delle dimissioni del pool giunge al Senato mentre Biondi sta rispondendo alle interpellanze relative alla custodia cautelare: è il finimondo. Il capogruppo del Pds Salvi dice al ministro: «Siete riusciti a fare quello che non è riuscito a Craxi». L’attenzione si sposta all’improvviso sulla Lega, che nelle prime ore cerca di difendere un decreto che, del resto, è stato approvato all’unanimità dal Consiglio dei Ministri: di ministri leghisti ce ne sono ben cinque, compreso Roberto Maroni, che oltre al ruolo di titolare dell’Interno è anche vicepremier. Mentre parla di «provvedimento ingiusto ma necessario», la sede milanese della Lega è tappezzata da manifesti che accusano Forza Italia e Alleanza Nazionale.

Milano, 15 luglio 1994

Migliaia di italiani scendono in piazza per manifestare vicinanza al pool dimissionario. Chiedono a Di Pietro e agli altri di non tirarsi indietro, si mobilita anche quello che viene ribattezzato il «popolo dei fax»: le redazioni di tutta Italia ricevono orde di fax di cittadini delusi. Gli alleati di Forza Italia iniziano a capire che devono fare un passo indietro. Il più imbarazzato è Fini: dopo aver difeso pubblicamente il decreto, si è reso conto che le sedi del Movimento Sociale Italiano (Alleanza Nazionale è al momento soltanto un ombrello sotto il quale trovano spazio molte realtà trainate dall’MSI) sono state bersagliate di fax di indignazione. Inoltre, la tradizione missina è storicamente legata a una grande fiducia nell’azione dei magistrati. «Da adesso si ricomincia a fare la rivoluzione», tuona Francesco Storace. Bossi afferma invece che i suoi ministri si sono astenuti dalla votazione sul provvedimento. Lo smentisce Francesco Speroni, ministro per le Riforme istituzionali: «Abbiamo votato sì». C’è anche una voce che si discosta dal coro: è quella del ministro della Sanità Costa. «Veramente non si è votato, in CdM non si vota quasi mai, in due anni che faccio il ministro si è votato solo quando ci sono stati scontri furibondi. Se ci sono stati stavolta? Le posizione contrarie dovrebbero essere state verbalizzate dal sottosegretario Letta…». Berlusconi prova a tenere il punto, forse non ha ancora compreso fino in fondo il potenziale devastante della vicenda: «Non so se porrò la fiducia sulla custodia cautelare, vedo che ci sono dubbi nella maggioranza ma il CdM ha approvato all’unanimità. Si può anche cambiare opinione, io non ne vedo la necessità, ma il Parlamento è sovrano». Intanto le scarcerazioni sono già iniziate.

Los Angeles, 15 luglio 1994

Nessun miglioramento. Le ore passano ma le condizioni di Roberto Baggio sono le stesse di quando ha lasciato il campo contro la Bulgaria. «C’è un 50% di possibilità che ce la faccia», dice il professor Ferretti, il medico della Nazionale. Roby rimane seduto a guardare gli altri che si allenano e chissà cosa pensa Sacchi, l’alfiere del collettivo che deve superare l’importanza del singolo, nei giorni in cui rimane appeso alle condizioni fisiche dell’uomo che l’ha portato di peso in finale mondiale. Le terapie sono iniziate soltanto dopo 48 ore di riposo assoluto: ultrasuoni, magnetoterapia, qualche breve massaggio. Ferretti parla di lesione muscolare di primo grado e di uno scenario che può cambiare anche a pochi minuti dalla partita. Si capisce da subito che il team Italia si sta avvitando in maniera pericolosa: ok, Baggio è stato straordinario fin qui, ma è chiaro che, anche qualora dovesse giocare, lo farebbe in condizioni pessime. Come si fa a spiegare una cosa del genere a giocatori del calibro di Signori e Zola, i due possibili sostituti? Nel ritiro azzurro c’è anche chi racconta di seguire quello che sta accadendo al governo. «Mi spiacerebbe pensare che il calcio sia tanto importante da coprire tutto il resto», dice Nicola Berti.

Roma, 16 luglio 1994

«Sono pronto a restituire il mio mandato nelle mani del consiglio federale della Lega Nord perché decida se sono stato io a essere imbrogliato o se ho imbrogliato io in questi anni di dura lotta della Lega contro la corruzione». Roberto Maroni, vicepremier e ministro dell’Interno, sgancia la bomba ai microfoni del Tg3. L’accusa è pesantissima: «Questo decreto è diverso da quello che ci era stato prospettato la sera in cui lo abbiamo approvato. Ho chiesto garanzie che con il testo De Lorenzo e soci non sarebbero usciti dal carcere, e mi era stato assicurato che non sarebbero usciti. Mi sono fidato delle affermazioni e delle garanzie datemi quella sera. Ho sbagliato». Bossi si accoda, annuncia che la Lega non voterà il decreto e anzi chiede di ritirarlo. Berlusconi non fa un plissé: «Spero che gli alleati mi stiano vicini. Questa battaglia del partito della galera contro quello della libertà sarà vinta dal partito della certezza». Ma le voci, anche all’interno di Forza Italia, sono sempre più contrarie: si va dall’ex pm del pool, Tiziana Parenti, al capogruppo di FI a Montecitorio, Raffaele Della Valle.

Los Angeles, 16 luglio 1994

Roberto Baggio torna ad allenarsi. Ma il dolore è ancora lì, compagno di viaggio che non sembra disposto a dargli tregua alla vigilia di una partita che nella vita di un calciatore può passare una volta nella vita. Lo sa meglio di tutti: «Non giocare sarebbe beffa, rabbia, delusione e disperazione. È da quando ero bambino che aspetto questo momento». La notizia positiva è che il dolore non è aumentato, ma è rimasto stabile. Si può giocare una finale in queste condizioni? Se lo chiedono in molti. Baggio durante l’allenamento corre da solo, non partecipa alla partitella titolari contro riserve. La maglia rossa che dovrebbe spettare a lui finisce sulle spalle di Signori. I giornalisti cercano di cogliere segnali dalle tribune del campo della Loyola University. Il suo è un lavoro a parte in piena regola, non c’è neanche quando la squadra lavora sui movimenti di reparto. Parallelamente a Baggio, corre anche il destino di Franco Baresi, pronto al recupero lampo dopo l’infortunio al menisco. Sacchi in conferenza stampa si nasconde: «La mia paura è che Franco non ce la faccia per novanta minuti. Il suo problema è di tenuta». E poi scarta l’ipotesi Zola: «Non gioca da due mesi». Ma torniamo a Baggio, che è laconico: «Oggi non giocherei. Sarò in campo soltanto se sentirò di non mettere in crisi la squadra».

Roberto Baggio scenderà in campo, ma al Rose Bowl di Pasadena quella che si aggirerà per il campo con la maglia numero dieci azzurra sarà in realtà la sua ombra. Franco Baresi, invece, sarà più vivo e presente che mai, in grado di annullare Romario. Sia Baggio che Baresi, però, sbaglieranno dal dischetto: Arrigo Sacchi, arrivato a un passo dal sole, si brucia come Icaro. «Pazienza, racconterò ai miei nipoti di avere perso un Mondiale ai rigori», dirà a caldo. Due anni più tardi, alla vigilia dell’Europeo, lascerà a casa, tra gli altri, Beppe Signori, Gianluca Vialli, Roberto Mancini e proprio Roberto Baggio. Il turnover con la Repubblica Ceca, nella seconda partita di un girone culminato con l’eliminazione, rimarrà sulla sua avventura di CT come una lettera scarlatta.

Silvio Berlusconi arriverà a dire che, per quanto riguarda la custodia cautelare, «il suo parere è opposto alla formulazione finale» del decreto. La Commissione per gli affari costituzionali, il 19 luglio, si riunirà per valutare l’esistenza dei presupposti d’urgenza che hanno portato alla formulazione del decreto legge. In 29 diranno di no, facendo saltare le basi costituzionali, e la Camera seppellirà il decreto Biondi. Il governo Berlusconi I cadrà qualche mese più tardi, sgambettato proprio dalla Lega Nord che aveva iniziato a covare un profondo malcontento proprio in quei giorni di luglio. Ma Berlusconi, come una fenice, a differenza di Sacchi riuscirà a rinascere dalle proprie ceneri più e più volte.

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