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Fabrizio Gabrielli
Uruguay-Ghana e le mani del diavolo
01 dic 2022
01 dic 2022
Abbiamo rivisto la sfida tra le due squadre nei quarti di Sudafrica 2010.
(di)
Fabrizio Gabrielli
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ROBERTO SCHMIDT/AFP via Getty Images
(foto) ROBERTO SCHMIDT/AFP via Getty Images
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Anche se il cartellino che l’arbitro gli sta sventolando sotto il naso ha gli angoli taglienti come lama di taglierino, e pesa svariate tonnellate, Jorge Fucile non si scompone più di tanto. Si porta le mani al petto, come a chiedere «ah, io ammonito?». Con una spallata ha spostato il baricentro di Asamoah Gyan, conquistando il pallone sul vertice della sua area. Poi, arrancando come una bestia ferita, ha lottato da terra per allontanare la minaccia. Il rimpallo ha spinto la sfera tra le gambe di Kwadwo Asamoah, e Fucile gli si è letteralmente attorcigliato attorno, come presa di un boa costrittore. Non è un fallo cattivo; è una classica giocata ammantata di garra, certo, ma è a malapena un fallo. Olegário Manuel Bártolo Faustino Benquerença, l’arbitro, però è inamovibile. Jorge Fucile, già diffidato, come si dice, salterà la prossima gara. E la prossima gara potrebbe essere una semifinale mondiale.Benquerença non avrebbe dovuto essere l’arbitro di Uruguay-Ghana, gara dei quarti di finale del Mondiale sudafricano. Al suo posto ci sarebbe dovuto essere l’inglese Howard Webb. Pochi giorni prima, però, nella disfatta dell’Inghilterra contro la Germania, l’arbitro non aveva convalidato un gol regolarissimo di Frankie Lampard, e quell’arbitro, che si chiamava Jorge Larrionda, era uruguaiano. Nonostante Webb fosse quanto di più distante dal profilo del rancoroso vendicativo, la FIFA aveva optato per evitare che le parole Inghilterra e Uruguay, a ferita ancora aperta, potessero tornare a condividere lo spazio di una stessa frase.Nel 2004, Benquerença stava arbitrando una partita del campionato portoghese tra Vitoria e Benfica. Aveva ammonito Miklos Fehér, pochi istanti prima che l’ungherese crollasse al suolo e morisse per un embolo polmonare. Non lo so se il senso di colpa abbia mai attraversato, per quanto possa apparire assurdo, i pensieri di Benquerença.Dopo aver privato Fucile della possibilità di giocare quella che potrebbe essere la partita più importante della sua carriera, Benquerença si allontana a grandi falcate. Davanti alle rimostranze mantiene una concentrazione ritrosa: come si fa a rimanere focalizzati mentre il ronzio di ottantaquattromila vuvuzela ti penetra le orecchie? Al Soccer City di Johannesburg, che sarà la sede della finale di quel Mondiale, l’ammonizione viene accolta con gioia festante. La maggior parte dei presenti è lì per vivere il sogno di vedere per la prima volta una Nazionale africana tra le prime quattro del mondo.

YASUYOSHI CHIBA/AFP via Getty Images

In una lettera che Nelson Mandela ha spedito a Kwesi Nyantakyi, il presidente della federcalcio ghanese, pochi giorni prima di questa storica partita, c’era scritto «l’Africa intera tifa per il Ghana. Vogliamo che passiate il turno, e andiate a vincere la Coppa del Mondo». Pelè aveva azzardato una previsione, una manciata di lustri prima: nel 2000 sul tetto del mondo sarebbe salita un’africana. Non sembrava esserci occasione migliore, per quanto inverosimile, per sognare che accadesse proprio in Sudafrica. Il Ghana forse non aveva le carte in regola per riuscirci, ma era una squadra muscolare che però era in grado di produrre un gioco spumeggiante, variopinto. Estremamente giovane, contava su un manipolo di ragazzi promossi dall’U20 che si era laureata campione del Mondo, e su una serie di veterani feticcio: Gyan, Kevin Prince Boateng, André Ayew. L’Uruguay, per arrivare a quella serata, aveva dovuto compiere un’impresa simile alla traversata di un deserto. Per qualificarsi era dovuto passare attraverso venti sfide, più di ogni altra partecipante, fino all’ultimo testa a testa, nei playoff, contro Costa Rica. E anche in Sudafrica si è vista costretta a cambiare cinque città, cinque stadi, per cinque partite diverse. Oscar Washington Tabárez, che ha assunto le redini della Celeste dopo la disfatta della mancata qualificazione ai Mondiali 2006, ha temprato un gruppo che si regge sui principi dell’abnegazione, dell’impegno, del merito. E poi ha risemantizzato il concetto di "garra", trasformandolo da temerarietà terroristica in coinvolgimento emotivo che non necessariamente finisce per ledere l’estetica, e che anzi può risultare addirittura elegante. Al fianco di Maxi Pereira, Diego Pérez e Arévalo Ríos, dai tratti affilati da assassini, la Celeste può contare su giocatori di una signorilità decadente come Alvaro Fernández, di un’austerità innocente come il capitano Diego Lugano, e poi sulla mercurialità di Diego Forlán, ingiocabile, che pattina sui campi sudafricani con la grazia di un ballerino del Bolscioi.

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Non lo so se nella lingua twi degli Ashanti esista un termine simile a quello di garra. Qualunque sia questa parola si potrebbe tatuare sui bicipiti di Sulley Muntari, che nei primi tremendi venti minuti del Ghana, in cui la chiatta africana rolla impietosamente sotto i colpi delle onde charrúa, tiene a galla il centrocampo da solo. Rajevac non è un amante di Sulley: affinché venisse aggregato alla spedizione mondiale, il presidente della federcalcio Nyantakyi ha raccontato di essersi dovuto inginocchiare di fronte all’allenatore. In effetti, la sua presenza in campo contro l’Uruguay è dettata esclusivamente dall’assenza di André Ayew. Ma come si capirà meglio più avanti, Uruguay - Ghana è anche, soprattutto, il racconto di ciò che non doveva essere, e che invece è stato.Dopo mezz’ora di superiorità, nel gioco e nel possesso, della Celeste, il Ghana inizia ad uscire dal guscio. Ha due opportunità, con Voksan prima e con una combinazione tra Boateng e Gyan poco dopo. L’Uruguay sente montare il peso delle aspettative, e la slavina ghanese comincia a farsi dirompente, non foss’altro emotivamente. Suárez si innervosisce per un alterco con Voksan, che prima gli dà del matto e poi si accartoccia su sé stesso, come in una mossa di capoeira.

Per Jorge Fucile, due minuti più tardi, l’ammonizione pesante rischia di non essere il momento più difficile della serata: dopo essersi arrampicato su Inkoom per colpire il pallone di testa, nel cadere a terra il corpo assume una posa innaturale. La prima parte del corpo che tocca terra è la tempia destra, poi il collo. Crolla prono a terra, Jorge Fucile, le braccia lungo il corpo. Qualche secondo di terrore, prima di rialzarsi, come se nulla fosse. Niente di ciò che poteva essere, in Uruguay-Ghana, è stato. Per fortuna.Se sai gioire per le gioie altrui, recita un proverbio africano, sei il più degno abitante del villaggio. Nella lingua zulu, gioia si dice jabulani. Jabulani è anche il nome del pallone creato da adidas per il Mondiale sudafricano, un pallone particolarmente odiato dai calciatori per la sua ingiocabilità, per le traiettorie imprevedibili che assume una volta calciato. Ma anche la gioia, si sa, è ondivaga, e soprattutto – su un campo da calcio – non può essere ecumenica. La mia gioia è la tua disperazione, e a dividerle non c’è che la traiettoria che percorre uno Jabulani dai piedi di Sulley Muntari alle rete che si gonfia alle spalle di Muslera. A quarantacinque minuti dal termine di Uruguay-Ghana, l’Africa è potenzialmente sul podio del Mondiale. Il fascino delle grandi competizioni, in fin dei conti, per quanto vogliamo sforzarci di guardare oltre, si nasconde nelle pieghe delle piccole cose: nel dramma dei carneadi e degli eroi estemporanei, nell’istante in cui si cristallizza il disfacimento, la sciatteria, il ribaltamento della storia. Jorge Fucile – te lo ricordi, Fucile? – affonda sulla fascia. Pantsil gli si para davanti, e Fucile, con un gesto insperato, inatteso, non propriamente suo, lo elude con un pregevole cambio di direzione. Pantsil lo atterra, nei pressi del vertice destro dell’area di rigore del Ghana. Da posizione defilata ci si aspetta che Diego Forlán calibri un cross per la testa di Suárez o Cavani, ma in quelle serate, in quel Mondiale, Forlán ha la gioia tra i piedi. Jabulani si muove in aria con la sinuosità delle spire di un cobra, altrettanto velenoso. L’Uruguay pareggia, e sulle pareti dorate della cattedrale del miracolo africano cominciano a comparire crepe da movimento di zolle tettoniche.

Come un aruspice nelle viscere interpretava i prodigi che gli si manifestavano attorno, alla stessa maniera, in certi piccoli avvenimenti negli ultimi venti minuti regolamentari e nel primo tempo supplementare, si potevano osservare i prodromi di quelli che sarebbe stato. Ricordo nitidamente di aver pensato, all’ingresso di Sebástian Abreu, che sarebbe stato molto bello se i destini di quella serata fossero riposti nei piedi del Loco, nei suoi calzettoni lunghi fin sopra il ginocchio, nei suoi capelli lunghi da guerriero indio, nel suo sguardo furbo e triste da gaucho. E di aver poi immaginato che in fin dei conti avrebbe avuto un fascino tutto metaforico se invece l’uomo decisivo fosse risultato Dominic Adiyiah, poco più che ventenne, la stella del Mondiale U20 2009, il capocannoniere, la next big thing del calcio africano.Quando mancano ormai venti secondi al termine del secondo tempo supplementare, e all’altalena emozionale dei calci di rigore, il Ghana guadagna un calcio di punizione al limite dell’area. Il fallo decisivo, ormai dovrebbe essere intuitivo, è di Jorge Fucile. Lo sviluppo dell’azione è convulso, il pallone viaggia verso il centro dell’area, Muslera non riesce ad afferrare la sfera che rotola sui piedi di Asamoah: il suo tiro rimbalza sul ginocchio di Suárez, si impenna, ed è a questo punto che irrompe, guerriero alla carica, meteorite infuocato che potrebbe causare l’estinzione dei dinosauri, delle gerarchie precostituite del calcio, proprio Dominic Adiyiah. Jorge Fucile, sulla linea di porta, allarga le braccia come farebbe un portiere. Alza il braccio che si dice di richiamo, con un colpo di reni plastico, prima di crollare a terra. Il pallone alle sue spalle.Un compagno, vicino a lui in area, gli sussurra «nessuno ha visto niente». Benquerença si avvicina. A fianco di Jorge Fucile c’è Luis Suárez. Fucile è già ammonito, salterebbe in ogni caso una semifinale che per la Celeste manca da quarant’anni. Si somigliano abbastanza: Suárez indica il compagno, «è stato lui» dice a Benquerença. Che estrae il cartellino rosso, rivolto a Luis Suárez, reo di aver respinto con le mani la palla che altrimenti sarebbe entrata. Colpevole dell’ultimo sconsiderato gesto che precede la resa.Esiste un atleta che, di fronte all’onta della sconfitta, non sente il desiderio di quantomeno prendere in considerazione l’inganno? Di cosa parliamo, quando parliamo di un fallo di mano sulla linea di porta: di eroica immolazione o di sconsiderato cinismo? Imperdonabile irrispetto delle regole, o sacrificio quasi mistico? Di certo, come ha ammesso la stessa FIFA, si tratta di un momento che ha cambiato per sempre la storia della Coppa del Mondo.

«La miglior parata del torneo», ha scritto Eduardo Galeano a proposito del Mondiale 2010, in qualche modo formulando una lettura lucida, prima che cinica, «non è stata di un portiere, ma di un goleador. [...] Quel gol avrebbe lasciato il suo paese fuori dalla coppa: grazie al suo atto di patriottica pazzia Suárez è stato espulso. L’Uruguay no». Esce dal campo in lacrime, Suárez. Si ferma un momento, prima di imboccare il tunnel. Sul dischetto c’è già Asamoah Gyan. «Non dico che lo rifarei, ma in quel millesimo di secondo quasi tutti i giocatori che conosco avrebbero preso la mia stessa decisione». «Mi sarei sentito più colpevole se avessi fatto un fallo che fosse costato un infortunio a un avversario», avrebbe detto successivamente Suárez. La cui espulsione, peraltro, incanala l’evento nell’ordine naturale delle cose: chi sbaglia, paga. Avrebbe saltato la semifinale, l’eventuale finale. Si era immolato per la squadra. «Mi sarei sentito molto più in colpa se mi fossi procurato un rigore e l’avessi fallito». Come scrissi tempo fa in un pezzo su Suárez, «non dà l’impressione di un comportamento da “senza regole”, da chi fa come gli pare per poi passare impunito; mi sembra piuttosto la conseguenza di una lettura che stabilisce delle priorità. Ubi maior. Evitare di prendere gol. Beccarsi una punizione. Scontarla, ma pure esultare per l’efficacia del gesto (per quanto antisportivo). È la visione del gioco del ragazzino per strada, un gioco in cui vale tutto purché serva per ottenere un minimo vantaggio». Se a essere espulso fosse stato – supponiamo che Benquerença ci fosse cascato – Jorge Fucile, allora sì che Luis Suárez sarebbe passato alla storia come il demonio di questa storia. Jorge Fucile, invece, non è riuscito a entrare nel mito dalla porta principale, neppure con le vesti diaboliche e stracciate del cattivo. Rimane in campo, ed è per questo che è il primo a saltare in braccio a Muslera quando Gyan fallisce il rigore, il match point che avrebbe proiettato il Ghana tra le prime quattro al mondo, l’Africa nel posto che sembrava fosse giunto il momento giusto per occupare. La perdita di tempo, ad arte, della Celeste forse l’hanno distratto; forse, semplicemente, il peso della responsabilità gli ha inarcato la schiena. Muslera si sbarazza di Fucile, si rivolge alla traversa, la ringrazia. Poi si ferma un secondo a riflettere su quanto sia strana quella situazione: sta davvero tirando baci a un palo di legno? Continua a ringraziarlo, a sfiorarlo, a tributargli la sua gratitudine.

Shaun Botterill - FIFA/FIFA via Getty Images

«Dopo l’errore dal dischetto del tuo avversario esci fuori e festeggi come se fossi in cima al mondo, ferendo persone. Almeno sii professionale: prova un po’ di dolore. Vattene negli spogliatoi e poi festeggia, lì nessuno ti vedrà», ha dichiarato, a distanza di tempo, Joseph Pantsil. «Nessun calciatore africano l’avrebbe fatto», ha aggiunto, «io avrei provato a respingere il pallone con una mossa di kung-fu, allungandomi». Il ragionamento di Pantsil è lucido, non ha l’accoratezza del livore per un sogno infranto, o forse sì. «Sarebbero cambiate un sacco di cose nel calcio ghanese, nel nostro paese, chissà in Africa. Magari avrebbero aggiunto più slot per le squadre africane, più possibilità di avanzare nel torneo». «Non so quando dimenticherò questa storia: ormai è parte di me».Dal dischetto, nei calci di rigore, a sbagliare saranno John Mensah e Dominic Adiyiah. L’uno, che aveva realizzato il rigore decisivo nella finale del Mondiale U20 contro il Brasile; e l’altro, che quella sera sarebbe potuto diventare l’eroe indiscusso se solo Suárez prima, e Muslera poi, non avessero frapposto le mani ai suoi sogni. Il rigore decisivo, poi, lo segnerà Abreu con uno scavino pieno di lucida pazzia. Il punto, secondo me, lo centra perfettamente Tabárez nella conferenza stampa post-partita: «Non parliamo di imbroglio: in fin dei conti si sarebbe potuto rivelare un errore imperdonabile». Lungi dal giustificare Suarez, el Maestro mi sembra compia un’analisi lucida dell’evento: se Gyan non avesse fallito dal dischetto, il gesto di Suárez non sarebbe stato percepito come meno eroico, certo. Ma in fin dei conti, la sfumatura drammatica deriva proprio dalla mancata capacità di finalizzare l’occasione da parte di Gyan.In Uruguay comincia a farsi strada la convinzione di poter contare su un’intima e personalissima mano de Dios. A Salto qualcuno copre con un adesivo il nome Joaquin sul cartello in calle Joaquin Suárez: sull’adesivo c’è scritto Luis. Per i suoi connazionali, forse solo per loro, Suárez è un eroe. In quel momento, sua moglie Sofia è incinta. Partorirà di lì a poco. «Ora possiamo dire di essere a una festa alla quale non eravamo invitati», conclude Tabárez. Da una parte, riferendosi al lungo e tortuoso percorso di qualificazione. Dall’altra, probabilmente, all’antipatia che si sarebbe cristallizzata inevitabilmente intorno alla Celeste.Chi non ha mai dimenticato quella sera è Asamoah Gyan. Domani Uruguay e Ghana torneranno ad affrontarsi. Sarà l’ultima partita del loro girone, con la qualificazione ancora in ballo. «Può succedere di tutto», ha dichiarato qualche settimana fa Gyan quando gli hanno chiesto di questa partita. Nonostante si sia ritirato da quasi un anno – anzi, sarebbe più corretto dire nonostante sia fuori dai campi, visto che non ha mai annunciato il ritiro – Gyan ha continuato a cullare il sogno di tornare a vestire la maglia delle Black Stars in Qatar. «Come Milla per il Camerun nel 1990», ammiccava, prima che a venti giorni dall’inizio del Mondiale si tirasse fuori dai giochi.Nyaho Nyaho Tamakloe, presidente della federcalcio ghanese nei primi anni Duemila, aveva suggerito di reintegrarlo nella rosa, foss’anche per concedergli dieci, quindici minuti a partita. Non succederà. In compenso, il nuovo Gyan ha pubblicato un singolo che sarà la colonna sonora delle Black Stars in Qatar, insieme a Kiaani. Si chiama Turn Up.Certo, ci sarebbe piaciuto vederlo ancora in campo, con il suo swag da rapper, per vedere come si sarebbe comportato casomai si fosse trattato di calciare un rigore decisivo. Non foss’altro che per vedere come si fa di preciso a scrollarsi di dosso le bave – e il ricordo delle mani – delle mani del Diavolo.

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