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Luca Francesco San Mauro
L'uomo che sta portando la maratona nel futuro
31 ott 2022
31 ott 2022
Eliud Kipchoge è sempre più vicino alla perfezione.
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Luca Francesco San Mauro
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Andreas Gora/picture alliance via Getty Images
(foto) Andreas Gora/picture alliance via Getty Images
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La storia, così come la riporta Plutarco, è nota. Ai tempi della prima guerra persiana (490 a.C.), un soldato ateniese – Plutarco lo chiama Eucle; Luciano di Samosata, un secolo più tardi, lo rinominerà Filippide – avrebbe corso per più di quaranta chilometri, dalla piana di Maratona fino ad Atene, per riferire ai concittadini l'esito della battaglia decisiva contro l'esercito di Dario I. Giunto in città, Filippide sarebbe riuscito solo a dire: «Gioite, abbiamo vinto!» – prima di tramortire al suolo, ucciso dalla fatica. Nessuno ha tenuto il tempo di quella prima maratona.

Gli scavi archeologici del 1890, presso Maratona, individuano un tumulo funerario semisferico di dodici metri di altezza che ospita le ceneri di decine di soldati ateniesi caduti nello scontro con i persiani, ventiquattro secoli prima. Il ritrovamento ispira Michel Bréal, fondatore della semantica moderna: il 15 settembre 1894, Bréal scrive a Pierre de Coubertin suggerendo di includere nel nuovo programma olimpico, in discussione in quei mesi, una gara ispirata all’impresa di Filippide. E aggiunge: «Se sapessimo quanto tempo ha impiegato il guerriero greco, potremmo stabilire il record». De Coubertin, imbevuto di una certa fascinazione acritica per il mondo classico, approva.

Così, la gara più attesa delle prime Olimpiadi moderne, nell’aprile del 1896, è una corsa di quaranta chilometri per le strade polverose che connettono il villaggio di Maratona al Panathinaikos, l’antico stadio di Atene. Sarà solo nel 1908, alle Olimpiadi di Londra, che il percorso si allungherà quel tanto che occorre per partire a ridosso del castello di Windsor e arrivare alla tribuna reale: 42 chilometri e 195 metri, la distanza di ogni maratona da quel momento in poi.

C’è qualcosa di singolarmente macabro nell’idea di convertire in disciplina sportiva il racconto di un gesto fisico così proibitivo da chiudersi con la morte di chi si cimenta. D’accordo, la corsa di Filippide è senz’altro leggendaria. Ma ai cronisti classici doveva apparirà perlomeno plausibile che quaranta o più chilometri di corsa, sotto il sole bruciante dell’Attica, fossero al di là di ciò che un corpo umano può sopportare. La maratona entra quindi nel novero degli sport come lo sport estremo per eccellenza: fino al 1895 il tasso di mortalità di chi c’ha provato, reale o di finzione che sia, è del 100%. L’ovvio corollario è che la maratona, almeno nei piani dei suoi ideatori moderni, è avulsa da ogni possibile pianificazione o strategia: è una gara che esaspera la resistenza fisica fino a un estremo che è difficile, o impossibile, da controllare. Ci si può allenare, certo. Ma, in definitiva, conta chiuderla. Con ogni mezzo possibile e – idealmente – sopravvivendo. Alla prima maratona olimpica partecipano solo diciassette atleti. La finiscono in nove. Vince un greco, Spyridon Louis, in 2h58’50’’; non correrà mai più.

Oggi la maratona appare come qualcosa di completamente diverso. Da un lato, si è democratizzata. Completarne una resta un risultato notevole, sì, ma non così raro: l’International Institute for Race Medicine stima che ogni anno più di un milione di persone finisca una maratona (e qualcuno alza la stima fino a dieci milioni). Dall’altro lato, la larghissima diffusione ne ha traslato il senso. Correre una maratona, specie a livello non amatoriale, non si riduce affatto a un mero affare di sopportazione fisica (l’ideale di correre oltre lo stremo delle forze ha traslocato nel mondo, non olimpico, delle ultramaratone). Agli occhi di un corridore occasionale, i tempi degli atleti di élite, quelli con cui si vincono le principali maratone annuali, sono così incomprensibilmente bassi da apparire come quasi-sprint dilatati oltremisura. Grossolanamente, si può dire che l’obiettivo di un maratoneta contemporaneo è tenere i giri altissimi per un tempo lunghissimo. E nessuno al mondo lo fa meglio di Eliud Kipchoge.

Kipchoge ha 37 anni, è keniota, è alto 1 metro e 67 centimetri, pesa 52 chili. Senza un’ombra di dubbio, è il più grande maratoneta vivente. L’ha ribadito qualche giorno fa, a Berlino, correndo in 2h01’09’’: ovvero, mezzo minuto in meno del precedente record mondiale, da lui stesso stabilito, sempre a Berlino, quattro anni prima. Farsi un’idea di cosa voglia dire completare una maratona in due ore, un minuto, e nove secondi non è banale. Il trucco può essere scomporre il tempo complessivo nei suoi costituenti: Kipchoge è in grado di correre i 100 metri in 17 secondi per 420 volte di fila; oppure, se lo trovate più illuminante, macina (in media) un chilometro in 2 minuti e 52 secondi.

Se lo stupore che proviamo di fronte a certi gesti sportivi (per esempio, gli avvitamenti in aria di Yuzuru Hanyu) si radica nell’assoluta incapacità di emularli, con Kipchoge la situazione è diversa. Sappiamo cosa significhi correre, cioè che comandi dare a un corpo per avviare la corsa, ma banalmente non ci capacitiamo che si possa correre così bene, così a lungo, così velocemente. In concomitanza della maratona di Chicago del 2018, è stato installato un tapis roulant che viaggiava al ritmo di Kipchoge, sfidando i passanti a salirci. L’esito, raccolto in un video, è una sequela di capitomboli e mulinare di braccia per supportare una corsa che le gambe non possono adeguatamente sostenere.

Numeri alla mano, Kipchoge ha vinto quindici delle diciassette maratone a cui ha partecipato, inclusi gli ultimi due titoli olimpici (e a Parigi, a quasi quarant’anni, tenterà di vincere tre ori olimpici consecutivi, impresa mai riuscita a nessun maratoneta). Oltre al record del mondo, detiene quattro delle cinque migliori prestazioni della storia. Più in generale, esprime sulla disciplina quel tipo di supremazia quasi inscalfibile che, da un lato, banalizza i pronostici delle sue gare (tanto vincerà lui) e, dall’altro, concentra l’interesse sulla domanda: quanto ancora potrà migliorarsi? Domanda amplificata dal fatto, controintuitivo, che Kipchoge ha già battuto il suo record ufficiale, ma in condizioni speciali e non omologabili.

La faccenda è la seguente. La curva della progressione del record del mondo della maratona si è spinta, per decenni, sempre più a ridosso del muro, convenzionale ma terribilmente suggestivo, delle due ore. Per esempio, l’epocale vittoria di Abebe Bikila, scalzo, alle Olimpiadi di Roma del 1960 portò il record del mondo a 2h15’16’’; lo stesso Bikila, alle olimpiadi di Tokyo, abbassò il record fino a 2h12’11’’. Più recentemente, il dominio degli atleti keniani ed etiopi sulle gara del fondo e del mezzofondo ha costretto a revisionare per otto volte il record mondiale della maratona maschile, avvicinandolo – gradualmente ma inesorabilmente – al muro delle due ore: Paul Tergat (2003) si è fermato a meno di cinque minuti da quel muro (2h04’55’’); Haile Gebrselassie (2008) a meno di quattro (2h03’59’’); Dennis Kimmeto (2014) a meno di tre (2h02’57’’); quindi Kipchoge, nel 2018, ha frantumato il tempo di Kimmeto di 78 secondi, spingendo il record fino a 2h01’39’’. Insomma il muro delle due ore era lì: incombente. Ma ogni incremento è più complesso del precedente, e tagliare via anche soltanto un secondo da questi record impone un’eccezionale combinazione di talento e preparazione che tipicamente si manifesta solo a distanza di anni.

La Nike nel 2016 ha tentato di sparigliare le carte, lanciando il progetto Breaking2, un’operazione a metà strada tra la campagna di marketing e l’esperimento scientifico che si proponeva di allestire la maratona ideale, controllando ogni variabile possibile, condizioni meteorologiche incluse, e garantendo lepri continuamente fresche ai corridori. Un progetto che ha poco o nulla a che fare con l’atletica, per come classicamente la intendiamo, ma che voleva verificare, diciamo in astratto, se fosse possibile chiudere una maratona in meno di due ore. Breaking2 è fallito: nel 2017, all’autodromo di Monza, Kipchoge ha corso in 2h00’25’’ – miglior tempo di sempre, sì, ma non omologabile per l’insieme di vantaggi, non presenti in gare reali, che la Nike offriva. A quel punto però l’assalto al muro delle due ore, anche con armi non convenzionali, era aperto. E almeno una cosa appariva limpida: l’unico essere umano che plausibilmente poteva sperare di superare quel muro, sulle sue gambe, era appunto Kipchoge.

Per farla breve, la quarta più grande azienda chimica del mondo, Ineos, ha sponsorizzato un progetto analogo a Breaking2 (chiamato, con scarsa fantasia, Ineos 1:59 Challenge) e ovviamente ha puntato tutto su Kipchoge. Stavolta l’esperimento è riuscito. All’alba del 12 ottobre 2019, su un circuito posto a poca distanza dalla sponda occidentale del Danubio viennese, Kipchoge ha corso una sorta di maratona privata, agevolato da qualsiasi comfort un maratoneta potesse desiderare. In particolare, un blocco di lepri, selezionate tra alcuni fuoriclasse del fondo mondiale, si davano il cambio di fronte a Kipchoge, sette alla volta, in una formazione appositamente studiata per favorire l’aerodinamica. Il tutto mentre una macchina sparava un laser di fronte alla falange dei corridori per marcare il ritmo da seguire. Kipchoge ha superato il traguardo, correndo in solitaria poche centinaia di metri, in 1h59’40’’. Di nuovo, nulla di omologabile – ma comunque una breccia, fino a qualche anno fa inconcepibile, nel muro delle due ore.

I progetti di Nike e Ineos hanno proiettato su ogni successiva gara di Kipchoge una domanda banale: riuscirà a replicare, in competizioni ufficiali, i tempi di Monza e Vienna? Il nuovo record di Berlino ci dà una risposta. In verità la prima metà di gara è sembrata preludere a qualcosa di ancora più inaudito: Kipchoge ha chiuso la mezza maratona in 59’51’’, con una proiezione finale sotto le due ore. Poi quando le lepri l’hanno lasciato solo – e in gara non le si può sostituire con altre – non ha tenuto il forsennato ritmo iniziale e ha rallentato, finendo comunque per sbriciolare il precedente record. Comunque sia, che si tratti di esibizioni in condizioni ad hoc o di gare ufficiali, Kipchoge rappresenta un’anomalia statistica. Certo, lo strapotere di un atleta sulla sua disciplina non è una novità (pensate, tanto per restare agganciati al presente, al dominio di Armand Duplantis nel salto con l’asta, o a quello di Yulimar Rojas nel salto triplo, o a Sydney McLaughlin nei 400 metri ostacoli). Ma l’eccezionalità di Kipchoge è peculiare. Il motivo è nella natura stessa della maratona. Se specializzarsi nel salto con l’asta richiede dei materiali tutt’altro che scontati (che finiscono per lasciare inespressi una miriade di talenti potenziali), per approcciarsi alla corse di resistenza invece non serve quasi nulla. Ora, via via che si amplia il bacino dei maratoneti, ci si aspetterebbe che le prestazioni seguano una distribuzione normale, a campana; e naturalmente è esattamente così, ma con l’eccezione di Kipchoge, un outlier che rompe la simmetria della campana, producendo tempi che sforano dai minimi che dovremmo osservare in quest’epoca. O, in altre parole, Kipchoge fa parte dell’esclusivissimo club di quegli sportivi che ci proiettano nel futuro e per cui ha davvero senso interrogarsi se siano o meno, nei rispettivi campi d’azione, i più grandi di sempre (i goat – greatest of all time – come vuole l’acrostico in voga). Che lo sia o meno è una chiacchiera da bar. Più interessante è chiedersi perché, paragonato ad altri aspiranti goat, dentro o fuori dall’atletica, sia così poco conosciuto. Una possibile risposta è che la maratona, come specialità, è infinitamente meno fruibile di, che so, una gara sui 100 metri. Ma c’è di più. Qualcosa della corsa di Kipchoge – o, più precisamente, qualcosa nella perfezione della corsa di Kipchoge – la rende eccezionalmente non-fruibile.

Mi spiego. A piccole dosi, la corsa di Kipchoge non è affatto misteriosa. Anzi, restituisce l’immediato appagamento estetico dei gesti perfettamente armonici: il busto sempre allineato; le spalle prive di qualsivoglia tensione; l’atterraggio sull’avampiede (centottanta volte al minuto, o giù di lì); il rimbalzo verso l’alto ridotto al minimo sindacale e, viceversa, la massima possibile spinta in avanti. Un manuale di corsa incarnato. Il mistero però affiora nell’iterazione di questi gesti – impeccabilmente identici –lungo un’intera maratona. Ovvero, la cifra caratteristica della corsa di Kipchoge è la miracolosa capacità di rimanere uguale a se stessa, senza che l’accumularsi dei chilometri ne incrini mai la fluidità. Kipchoge, correndo, non ha mai una sbavatura. Non si sbilancia. Non si irrigidisce. Non si contrae. Se si estrae a caso una sua breve sequenza di corsa, senza indicazioni di tempo o distanza, è pressoché impossibile indovinare se stia correndo da dieci, venti, o trenta chilometri. Guardate poi l’espressione che ha mentre corre: ogni volta che una telecamera di gara lo riprende frontalmente, il volto di Kipchoge trasmette un’incrollabile serenità.

La cosa si estende – ecco parte del mistero – anche fuori dalle gare. In tutte le sue interviste Kipchoge è calmissimo. La voce è posata. I gesti sono delicati ma non trattenuti. È come se l’efficienza della sua meccanica di corsa sia un corollario di un’efficienza più generale, che ha a che fare con un modo d’essere prima ancora che col correre. Prendiamo, per esempio, una breve intervista del 2018, a Londra. Kipchoge, contro ogni possibile pronostico, ha appena perso: non perdeva una maratona da sette anni. L’intervistatore gli chiede, inevitabilmente, cosa stia provando. Dice di essere «truly disappointed», ma la prosodia non tradisce alcuna alterazione; il tono che usa è lo stesso, pacato e preciso, con cui si dice comunque contento di essere a Londra. Accenna a due fastidi fisici che ha avuto in gara – un forte mal d’orecchio e un crampo alla gamba sinistra – ma li riporta con fare clinico, quasi asettico. Conclude con una frase trita: «It’s not the end of the world». Però, di nuovo, lo dice come se stesse solo constatando la cosa: ha perso, è vero, ma il mondo è ancora lì.

Gli allenamenti di Kipchoge seguono un simile copione. Si allena a Kaptagat, un vasto altipiano nel Kenya sudoccidentale, a qualche decina di chilometri da Eldoret. Qui c’è una spessa foresta e i sentieri che la percorrono sono di terra rossa. L’altitudine varia dai 2400 fino ai 2800 metri d’altezza. Insieme a Patrick Sang (ex-siepista, argento a Barcellona ’92, e suo allenatore), Kipchoge gestisce uno dei principali training camp della zona. Il campo ha il profilo minimalista e spartano di un bivacco di montagna. Può ospitare fino a una trentina di atleti e ha una sala comune per i pasti. La tipica giornata prevede un allenamento all’alba, intenso, e un secondo verso le quattro del pomeriggio, più leggero. Si fa colazione insieme, commentando la corsa dell’alba. Si beve molto tè. Ci sono i turni per le pulizie. A dar retta ai suoi compagni di allenamento, Kipchoge è il primo ad arrivare al campo, il lunedì mattina, e l’ultimo ad andarsene, il sabato. Come quando è in gara, dà l’impressione di un atleta totalmente in pace con se stesso.

Tutto ciò rinforza una sorta di paradosso che sta al cuore dell’esperienza di veder gareggiare Kipchoge. Al momento non ha veri rivali che possano insidiarlo. E la sua corsa è simultaneamente magnifica ma costitutivamente indecifrabile, priva com’è di segnali che mostrino un deterioramento di condizione o un’improvvisa maggior sicurezza. Dunque, sembra imporre agli spettatori un’attitudine che è all’opposto di quello che tipicamente ricerchiamo nello sport. Pensate al modo in cui le migliori partite di calcio si addensano intorno a dei momenti fatali che spaccano l’equilibrio. O allo studio reciproco dei ciclisti subito prima della volata. O a come un ippon possa rovesciare l’esito di un incontro di judo, mentre fisicamente rovescia l’avversario. Quel che voglio dire è ovvio: una miriade di esperienze sportive sono caratterizzate da strappi di un quadro altrimenti armonico – e quindi dall’attesa di quegli strappi.

Con Kipchoge accade esattamente l’opposto. Tutto è così perfettamente oliato che le sole variazioni concepibili sono al ribasso, e allora non ha senso augurarsele o anche solo attenderle. Insomma Kipchoge ha perfezionato a tal punto l’arte della maratona da averla trasformata in un evento sportivo in cui, se tutto va secondo i piani, niente deve accadere. Non si verifica alcun cambiamento. L’equilibrio non si rompe mai. Ovvero, il prezzo da pagare per la perfezione – e le migliori maratone di Kipchoge la approssimano come poche altre cose – è che, una volta ammirata, non resta poi molto da fare o dire.

Ma è vero è solo a metà. Per capirlo occorre tornare, per l’ultima volta, al recente record di Berlino. Nella conferenza post-gara, Kipchoge ha svelato che il ritmo indiavolato che ha imposto nella prima metà, e che l’ha portato a chiudere la mezza maratona in meno di un’ora, non era stato pianificato. Si era allenato per migliorare il suo record, naturalmente. Ma il piano era di abbassarlo di pochi secondi. Solo che, a inizio corsa, ha sentito le gambe che rispondevano a meraviglia. E ci ha provato. Ribaltando il piano limato in ogni dettaglio nelle settimane precedenti, ha voluto tentare di chiudere in due ore secche – o forse perfino sfondare quel muro, stavolta in condizioni ufficiali: «Le mie gambe stavano andando davvero veloce e quindi ho pensato: proviamo a fare due ore nette». Così, ha alzato i giri fino a costringere le lepri a giungere a metà gara con ben 61 secondi di anticipo rispetto al tempo inizialmente annunciato.

Se ci pensate, è una rivelazione notevolissima. Dice che, al netto di tutta la pianificazione, del contenimento di ogni possibile variabile, dell’efficienza di corsa pressoché super-umana da cui non traspare nulla, al netto di tutto ciò, resta pur sempre un margine di azione che va oltre lo srotolamento di quel che era stato preventivato. O addirittura, dice che esiste una forma di libertà che si realizza solo dentro la disciplina di saper correre per due ore di fila a ventuno chilometri all’ora. Com’è ovvio, è una libertà che è riservata a pochissimi. Nella sua variante più pura, oggi, a un solo atleta.

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